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lafionda

L’incontro di Ferragosto disegna un mondo nuovo?

di Paolo Arigotti

Negli ultimi anni ci hanno riempito la testa (o provato a farlo), con la parola, scritto e ogni altro mezzo di diffusione, con una serie di slogan all’insegna di una “Russia isolata”, di un “Putin malato”, di una “sconfitta strategica di Mosca”, e vi risparmiamo, per carità di patria, quelli riferiti alle sanzioni. Ora come allora, per lo meno nel cosiddetto Occidente libero, chiunque si azzardasseanche solo a esprimere dubbi o riserve riguardo a questa narrazione si trovavaimmediatamente esposto al pubblico ludibrio, vedendosi attribuite etichette, inventate di sana pianta, di “filo russo” o “filo putiniano”.

Il vertice di Ferragosto fra il presidente statunitense Donald Trump e quello russo Vladimir Putin, fortemente voluto e promosso dal primo, potrebbe spazzare via, in tempi assai rapidi, questo clima da caccia alle streghe, che ha spadroneggiato nel mondo dei conformisti i quali per convinzione o per interesse, hanno sposato una versione quantomeno parziale delle origini e fattori scatenanti del conflitto in Ucraina, cancellando proditoriamente tutto quel che aveva preceduto la data del 24 febbraio 2022.

L’incontro ha avuto come cornice la base militare di Elmendorf-Richardson, organizzato in tempi molto rapidi, ma preceduto da diversi contatti preliminari, a cominciare dalla prima telefonata tra i due presidenti del novembre scorso: il suo significato, per ora, risiede forse più negli aspetti formali, che sostanziali.

Non è per fare il verso a un noto adagio, ma per sottolineare come in taluni casi – e nella diplomazia internazionale in modo particolare – gesti e approcci (il cosiddetto linguaggio del corpo) possano rivelare più di mille parole, anche perché di dichiarazioni ufficiali, per il momento, ce ne sono state molto poche; la stessa conferenza stampa congiunta è stata assai rapida e non ha lasciato spazio per le domande della stampa.

Tutto ciò potrebbe rafforzare la lettura del vertice come un momento di grande importanza simbolica, volto a ufficializzare la ripresa di un dialogo diretto tra le due maggiori potenze militari (e nucleari) del pianeta, chiudendo un periodo di gelo che in alcune fasi ha toccato punte quasi più acute del periodo della guerra fredda, e che forse da ieri potremo consegnare alla storia.

Non ci riferiamo solo dell’accoglienza riservata a Putin, con tanto di tappeto rosso, calorose strette di mano e “gita” a due in limousine, o ai toni amichevoli in conferenza stampa, quando Trump si è rivolto al collega con un confidenziale “Vladimir”, ma soprattutto alla decisione di aprire a nuove fasi negoziali.

In questo senso va letta la frase “There’s no deal until there’s a deal” pronunziata dal tycoon, e le parole di Putin che rivolgendosi in inglese al suo interlocutore ha parlato di una “prossima volta” a Mosca; l’inquilino della Casa Bianca non ha detto di si (ma nemmeno di no), limitandosi a un sorriso di circostanza, ma è chiaro che si tratta di un’ipotesi tutt’altro che peregrina. Nel frattempo, ci sarà il viaggio del presidente ucraino Volodymir Zelensky a Washington, il prossimo lunedì 18 agosto, dal quale forse avremo qualche elemento in più per valutare i futuri sviluppi.

Il leader ucraino, come noto, non è stato l’unico assente, visto che nemmeno gli europei – destinatari solo di telefonate a posteriori da parte di Trump – erano stati invitati, a dimostrazione (o conferma, dipende dai punti di vista) dello scarso peso in questo, e molti altri degli scacchieri che contano. Per le stesse ragioni, è del tutto plausibile che nessun rappresentante del vecchio continente sarà a Washington lunedì prossimo, a dimostrazione che la Casa Bianca intende gestire la partita in autonomia, mettendo gli alleati di fronte al fatto compiuto. Alleati, giova ricordarlo, che non sembrano intenzionati ad arretrare da posizioni che appaiono ogni giorno più incomprensibili.

Da tutto questo potrebbe scaturire uno scenario inedito, a tratti paradossale, per i principali capi di stato e di governo europei: dopo aver sostenuto senza riserve – in senso economico, militare e ideologico – il confronto con la Russia di Putin, oggi si potrebbero trovare emarginati e messi di parte, oltretutto con la prospettiva di doversi fare carico – a seconda degli scenari – dei costi della prosecuzione del conflitto, o della ricostruzione dell’Ucraina; ipotesi assai improbabile la prima, molto più plausibile la seconda. 

Esattamente l’opposto potrebbe succedere per la leadership russa, trattata da pari a pari dal capo della maggiore potenze del pianeta, punto di riferimento – per usare un eufemismo – di quella classe dirigente della vecchia Europa che solo poche settimane fa parlava ancora di coalizione dei volenterosi o di supporto alla nazione aggredita, e che in un futuro molto prossimo potrebbe essere messa di fronte alle proprie responsabilità politiche, per aver perseguito una serie di scelte prive di strategia, e di attenzione ai propri reali interessi. Al contrario, l’immagine di Putin esce molto bene del vertice, come ha riconosciuto persino Politico, testata che sarebbe ostico per chiunque indicare come filorussa.

Per restare in tema di cura dei propri affari, a nostro avviso emergerà sempre di più come l’interesse di Trump per la riapertura del dialogo con Putin non sia stata mossa tanto dal conflitto in Ucraina, paese del quale al tycoon verosimilmente interessa assai poco, quanto a una serie di partite aperte come le rotte artiche (la scelta della location non può dirsi casuale in questo senso), il rapporto coi BRICS, il sogno (mai accantonato, ma irrealistico) di creare una frattura tra Mosca e Pechino, le risorse naturali della Russia, e via dicendo. Con sullo sfondo la disastrosa situazione dei conti pubblici degli Stati Uniti.

E non va trascurato il capitolo dell’accordo con la Cina, circa il quale il ruolo di mediazione della Russia potrebbe rivelarsi decisivo, magari – per ipotesi – con la contropartita ucraina.

Si tratta di questioni che potrebbero solleticare molto di più l’indole mercantilista (e pratica) di Trump, al contrario di tante battaglie fasulle e ipocrite, per non dire molto onerose, che possono fare breccia solo nelle menti più fragili, o su coloro che in mala fede le sfruttino per un proprio tornaconto.

A conti fatti il vertice, come del tutto prevedibile, non ha condotto, perlomeno nell’immediato, a risultati sul versante della risoluzione del conflitto – nessun cessate il fuoco –, ma è verosimile che nessuna delle parti pensasse seriamente che ciò sarebbe avvenuto. A questo punto, sarebbe legittimo pensare che le ragioni alla base fossero altre, a cominciare dalla volontà di ristabilire un canale diretto, che mettesse all’angolo gli istinti guerrafondai di vari leader, e che consentisse di aprire a nuove intese. In uno scenario del genere, la vera ragione della fine del conflitto in Ucraina sarebbe semplicemente che questo ultimo non sia funzionale ad altri interessi, per non volerlo definire un fastidioso ostacolo al loro raggiungimento.

Alla Russia potrebbe anche stare bene se vedesse finalmente soddisfatte quelle istanze di sicurezza che propone da decenni, tralasciando tutti coloro che – per interesse o per ingenuità – abbiano creduto a certe narrazioni, mentre ci dispiace sinceramente per il popolo ucraino che dovrà apprendere una dura lezione, che potrebbe essere sintetizzata in una nota frase di Harry Kissinger: “Gli Stati non hanno né amici permanenti né nemici permanenti: hanno solo interessi”.

A Kiev forse se ne faranno una ragione, più a Occidente abbiamo perso molte speranze…

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