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jacobin

Attualità della pianificazione

di Roberto Lampa, Matteo Gaddi, Nadia Garbellini

Produttività e competitività non sono parametri naturali, indicano modelli che hanno mostrato di essere ingiusti e inefficaci. Bisogna invece sceglire collettivamente cosa e come produrre

attualita pianificazione dibattito economia 1.jpgProduttività e competitività vengono spesso presentate come categorie neutrali, semplici strumenti tecnici per interpretare le prestazioni dell’economia. Questa presunta neutralità è però una costruzione ideologica: serve a trasformare scelte politiche in vincoli oggettivi e a spostare sulle lavoratrici e sui lavoratori il peso degli squilibri macroeconomici.

Per ripensare un’alternativa occorre quindi innanzitutto smontare questi concetti che, sotto una veste tecnico-contabile, reggono l’architettura del capitalismo contemporaneo. In particolare va preso atto che quest’ultimo, dallo shock seguito alla scelta di Richard Nixon, nel 1971, di far saltare il sistema di cambi fissi basati sul dollaro americano in vigore dalla fine della Seconda guerra mondiale, si è caratterizzato per la fortissima apertura commerciale e finanziaria. Solo questa mutazione profonda delle economie di mercato ha posto al centro della scena i concetti di produttività e competitività, dato che in una simile configurazione del capitalismo la crescita economica è stata indissolubilmente legata ai surplus commerciali (neomercantilismo) e finanziari (differenziali dei tassi d’interesse).

Tuttavia, l’ennesima riconfigurazione dei mercati cui stiamo assistendo suggerisce che non si trattava certo di caratteristiche naturali delle economie capitaliste. In questo senso, assumere invece quelle specifiche caratteristiche istituzionali come date una volta e per tutte (e, quindi, insistere aprioristicamente su produttività e competitività) diviene un errore grave per un buon economista, e diventa imperdonabile per un economista «eterodosso» o «progressista».

 

L’ideologia della produttività

L’indicatore canonico della produttività – il valore aggiunto reale per ora lavorata – viene utilizzato come se misurasse l’efficienza fisica del lavoro. Quest’equivalenza, tuttavia, è un artificio teorico derivato da un impianto concettuale costruito esplicitamente per servire una visione dell’economia centrata sulla massimizzazione del profitto.

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collettivolegauche

Le prospettive dell’economia europea

di Collettivo le Gauche

Il libro collettivo Tornare alla pianificazione. Politiche industriali dopo la globalizzazione è un formidabile strumento per capire in quale direzione si sta muovendo la politica economica dell’UE

draghi vonderleyen rapporto competitivita ipa ftg 1.png1. Introduzione

Il saggio Produttività e competitività: una critica dei concetti dominanti di Matteo Gaddi, Nadia Garbellini e Gianmarco Oro intraprende una decostruzione radicale dei pilastri concettuali del linguaggio economico contemporaneo, smascherando la loro presunta neutralità per rivelarne il nucleo ideologico e politico. Dimostrano come termini come produttività e competitività, sistematicamente presentati come tecnici e universali, siano in realtà dispositivi che legittimano precise relazioni di potere, giustificando la compressione salariale, la precarizzazione e un modello di crescita squilibrato a vantaggio del capitale.

La critica muove da un’analisi minuziosa del concetto di produttività. Nel dibattito pubblico e istituzionale, in particolare in Italia, la stagnazione della produttività viene indicata come la causa prima della crescita lenta, dei bassi salari e della perdita di competitività. La soluzione proposta è un suo aumento, da ottenersi spesso attraverso riforme strutturali del mercato del lavoro. Criticano ciò che si misura esattamente con questo termine. La metrica universalmente adottata, il valore aggiunto reale (a prezzi costanti) per ora lavorata, non è affatto un indicatore neutrale di efficienza tecnica o fisica. Essa affonda le sue radici nella contabilità della crescita di matrice neoclassica, la quale, a sua volta, poggia sulla teoria della funzione di produzione aggregata. Quest’impianto teorico, oggetto di una critica devastante già durante la Controversia delle due Cambridge ad opera di economisti come Piero Sraffa, Luigi Pasinetti e Pierangelo Garegnani, è valido solo nell’irrealistico caso di un sistema economico che produce un unico bene composito.

Il cuore del problema risiede nell’uso del valore aggiunto reale come proxy del volume della produzione fisica. Per considerare vero questo assunto è necessario accettare una serie di ipotesi estremamente restrittive e irrealistiche: in primo luogo, l’assenza totale di importazioni di beni intermedi, in secondo luogo, una struttura della domanda finale immutabile nel tempo e, in ultima analisi, l’ipotesi che l’economia produca una sola merce.

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sbilanciamoci

Il 2026 sarà l’anno della crisi?

di Vincenzo Comito

ai generated 9088888 1280 623x415.jpgSi moltiplicano gli allarmi autorevoli sul possibile scoppio di qualche bolla sui mercati, da quella dell’Intelligenza artificiale alle criptovalute, ai debiti sovrani. La crisi tra l’altro sarebbe più rovinosa del 2008 per il ruolo, ora incendiario e non regolatore, dell’Amministrazione Usa

 

Premessa

Nelle previsioni per il 2026 un posto di grande rilievo spetta, anche se in negativo, all’ipotesi di una crisi finanziaria che abbia origine dagli Stati Uniti e che si diffonda poi in diverse direzioni geografiche, in particolare verso il nostro continente, con danni più o meno gravi nei vari Paesi.

Negli ultimi tempi, in effetti, gli allarmi sul possibile scoppio di qualcuna delle numerose bolle oggi presenti sui mercati si sono fatti sempre più insistenti e formano ormai un coro; a nostro parere non bisogna sottovalutarli, anche perché tra i profeti di sventura ci sono molti personaggi e molti media certamente autorevoli. Se il sistema finanziario crolla, sarà stato una delle implosioni più previste della storia (The Economist, 2025, a). Tali allarmi sembrano in qualche modo rafforzati di recente dalla rilevante nervosità delle Borse dopo circa tre anni di rialzi continui. Non manca peraltro qualche debole voce dissenziente che vede le cose in maniera più positiva.

Di seguito analizziamo le principali ragioni avanzate a sostegno di tale minaccia.

L’eventuale scoppio della crisi avrebbe delle grandi conseguenze non solo sui mercati finanziari; essa indebolirebbe ulteriormente, se ce n’era bisogno, l’egemonia statunitense dell’ordine internazionale a favore in particolare della Cina, che pure ne avrebbe anch’essa dei danni, aumenterebbe poi le difficoltà per i paesi fortemente indebitati con in prima fila ovviamente il nostro (pensiamo poi anche a quelli poveri), accentuerebbe ancora, infine, le già forti spinte protezionistiche in atto, in particolare quelle statunitensi (The Economist, 2025, a) e così alla fine essa danneggerebbe tutti, anche se certo non in eguale misura.

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economiaepolitica

Output potenziale vs piena occupazione

Implicazioni per l’economia italiana di un cambio di paradigma

di Davide Romaniello, Antonella Stirati

Abstract: Nel 2024 sono state introdotte nuove regole fiscali a cui gli Stati dell’Unione Europea devono conformarsi. Tali regole, tuttavia, appaiono nella sostanza molto simili alle precedenti e non sembrano risolvere i limiti già evidenziati dall’European Fiscal Board (2019). Oltre a discutere criticamente queste nuove regole, il presente contributo testa l’effetto di una politica alternativa, orientata al raggiungimento di un basso tasso di disoccupazione, sulle principali variabili di finanza pubblica rilevanti per le valutazioni della Commissione europea. Il caso di studio riguarda l’Italia, scelta sia per il peso della sua economia sia per il ruolo paradigmatico nell’esperienza di austerità, e che, quindi, riteniamo sia meritevole di un’analisi approfondita

piena occupazione o rivoluzione.png1. Introduzione

Nel 2024 sono state introdotte nuove regole fiscali a cui gli Stati dell’Unione Europea devono conformarsi. Tali regole, tuttavia, appaiono nella sostanza molto simili alle precedenti e non sembrano risolvere i limiti già evidenziati dall’European Fiscal Board (2019). Oltre a discutere criticamente queste nuove regole, il presente contributo testa l’effetto di una politica alternativa, orientata al raggiungimento di un basso tasso di disoccupazione, sulle principali variabili di finanza pubblica rilevanti per le valutazioni della Commissione europea. Il caso di studio riguarda l’Italia, scelta sia per il peso della sua economia sia per il ruolo paradigmatico nell’esperienza di austerità, e che, quindi, riteniamo sia meritevole di un’analisi approfondita. Il lavoro riprende un articolo degli autori in corso di pubblicazione su The Review of Evolutionary Political Economy e si affianca al contributo di Claudia Ciccone recentemente apparso su questa rivista.

 

2. Le nuove regole fiscali per i Paesi ad alto debito

Le nuove regole fiscali dell’Unione Europea, entrate in vigore il 30 aprile 2024, prevedono che Commissione europea, governi e Consiglio europeo concordino un piano di aggiustamento strutturale della durata di 4–5 anni (estendibile a 7 in presenza di riforme e investimenti coerenti con gli obiettivi UE). Il parametro centrale sarà la crescita della spesa pubblica netta, cioè al netto di interessi sul debito, fondi UE, cofinanziamenti, misure straordinarie e variazioni cicliche dei sussidi di disoccupazione. Deviazioni superiori allo 0,3% in un anno o allo 0,6% cumulato attivano la procedura per disavanzo eccessivo, imponendo una riduzione del disavanzo dello 0,5% annuo.

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effimera

Legge di Bilancio 2026-2028 | La manovra della stabilità: quando il rigore diventa la sola politica

di Roberto Romano e Andrea Fumagalli

Studio di orizzonte marino con pioggia.jpgCon l’approvazione della Legge di Bilancio 2026-2028, il governo italiano ha scelto di non scegliere, adeguandosi ai dettami e ai vincoli imposti dal nuovo Patto di Stabilità e Crescita europeo.

Si conferma così la linea di questo governo impavido: una linea fondata su grandi proclami ideologici (tutto va bene!) e promesse di riforme strutturali a cui non segue una capacità decisionale degna di tal nome. D’altra parte, il non fare è il sistema migliore per non sbagliare e mantenere un riconoscimento elettorale, soprattutto in presenza di una stampa compiacente e di una opposizione inconcludente.

Nel campo macroeconomico si rinuncia così di esercitare il potere discrezionale della politica economica. È una legge che non governa l’economia, ma la registra; non apre prospettive, ma le rinvia. Nel più classico stile neoliberista, che vede ogni intervento pubblico di indirizzo una bestemmia contro il mercato.

Dopo il Documento di economia e finanza e la Nota di aggiornamento, il trittico della programmazione pubblica si chiude con un bilancio che, al netto del Piano nazionale di ripresa e resilienza, equivale a una manovra “a saldo zero”. Le risorse aggiuntive effettive sono limitate: solo 900 milioni nel 2026. Si tratta di numeri che, nella sostanza, descrivono un bilancio statico, coerente con il nuovo quadro europeo che impone la riduzione graduale del debito e un avanzo primario crescente, ma del tutto privo di un progetto di sviluppo autonomo.

 

  1. Il ritorno del Patto e la politica dell’obbedienza

Il nuovo Patto di Stabilità e Crescita, negoziato nel 2024, rappresenta il compromesso tra la richiesta dei Paesi “frugali” di tornare al rigore e il tentativo, soprattutto da parte della Francia e Germania, di introdurre margini di flessibilità per gli investimenti pubblici e la transizione verde e sottotraccia la difesa. Ma nella pratica, il suo impianto resta quello di sempre: l’equilibrio dei conti prevale su ogni altra priorità economica o sociale.

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contropiano2

Pillole di bancarotta n.2

di Alessandro Volpi *

PILLOLE BANCAROTTA.jpgLa bolla dell’oro

La crisi profonda del capitalismo finanziario sta generando una mostruosa bolla costruita attorno all’oro, destinata a cambiare il quadro dell’economia internazionale.

Ci sono almeno tre ragioni, tra loro decisamente collegate, che favoriscono un prezzo dell’oro superiore ai 4000 dollari l’oncia.

La prima è la grande richiesta di oro da parte delle banche centrali, a cominciare da quella cinese: ormai sono scomparsi i due beni rifugi su cui costruire la tesaurizzazione del valore, rappresentati dal dollaro e soprattutto dai titoli del Debito Usa, e dunque l’oro resta il solo bene rifugio.

Ma non solo bene rifugio, l’oro diventa anche la sola reale garanzia di “conversione” monetaria per l’economia capitalista che non può permettersi una moneta in continuo deprezzamento come nel caso del dollaro. Quindi stiamo tornando rapidamente al gold standard, dove l’unica vera garanzia era costituita dalla piena convertibilità aurea.

La seconda ragione si lega alla prima. La ricerca di oro come bene rifugio non riguarda solo le banche centrali ma l’intero sistema finanziario, a cominciare dai grandi gestori del risparmio, che, in un momento di estrema incertezza come quello attuale, hanno bisogno di “stabilizzare” i loro impieghi avendo una solida riserva aurea.

La terza ragione è riconducibile alla ormai dominante struttura del sistema finanziario globale, dove i prezzi sono definiti attraverso gli strumenti derivati. In pratica, sul prezzo dell’oro si fanno milioni di scommesse, sganciate al possesso dell’oro in quanto tale, che finiscono per generare un’impennata molto più accentuata di quella, già forte, legata al mercato reale dell’oro.

Non a caso i futures sull’oro corrono di più del già altissimo prezzo dell’oro. La crisi del capitalismo finanziario, la sua scelta di puntare sulla dimensione militare stanno generando una dipendenza dall’oro che, per i suoi altissimi rendimenti, sta mangiandosi pezzi interi di economia reale.

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sbilanciamoci

I robot cinesi alla conquista del mondo

di Vincenzo Comito

Complice il problema del progressivo invecchiamento della popolazione e le previsioni di drastico calo demografico, Pechino sta investendo molto per azzerare il divario tecnologico e diventare leader anche del settore della robotica

kmsofvodjdPremessa

Un’analisi anche sommaria degli sviluppi in atto nel settore della robotica presenta un rilevante interesse, permette, tra l’altro, di intravedere alcune tendenze importanti sul fronte dell’evoluzione tecnologica, nonché sulla gara tra i vari Paesi – in particolare sul ruolo sempre più ingombrante della Cina e dell’Asia – e infine accende un faro sull’influenza delle nuove macchine nel mondo del lavoro.

Per molti decenni le grandi promesse relative allo sviluppo della robotica sono andate per la gran parte deluse; nonostante qualche avanzamento, i singoli prodotti si presentavano sul mercato come molto costosi, ingombranti, rigidi, limitati in genere ad un solo compito. Così se pure è vero che il business è certamente cresciuto nel tempo, lo ha fatto meno di quanto ci si aspettasse. Le attese fantasiose dei media e dell’opinione pubblica in merito alle meraviglie dei robot, nonché quelle negative dei lavoratori e dei sindacati sulle conseguenze relative ai livelli di disoccupazione che l’introduzione di tali macchine avrebbe comportato non si sono, sino a ieri, materializzate che in misura molto ridotta.

 

Gli sviluppi tecnologici

Poi, lentamente, le cose hanno iniziato a cambiare. I robot si sono fatti sempre meno ingombranti, meno costosi, molto più flessibili e il mercato è progressivamente decollato. Ora le prospettive di sviluppo, con le conseguenze del caso, sembrano molto rilevanti.

Tradizionalmente è stato il settore industriale, a cominciare dall’auto, a fare la parte del leone sul mercato, mentre più di recente, accanto all’impiego in linea, i robot vengono sempre più utilizzati in attività sussidiarie, quali quelle del magazzinaggio e della logistica.

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L'ascesa cinese: Boldrin guarda il dito e non vede la luna

di Paolo Baldi

nvòoisdofhbHo visto il video di Michele Boldrin “Le cause della crescita cinese”. L’ho visto una sola volta, senza l’intenzione di scriverci qualcosa sopra ma condividendo i miei pensieri nella chat di amici in cui il video era stato inoltrato. Non voglio fare una risposta puntuale del video: guardare i video di Michele Boldrin può causare forte emicrania e reflusso gastrico, figuratevi guardare due volte lo stesso video!

Tralasciando le battute, voglio solo gettare luce su ciò che Michele Boldrin ha omesso per due motivi:

  • Michele Boldrin è un opinion leader. La sua opinione trascende la sua persona. Le sue opinioni hanno una certa rilevanza in quel poco di dibattito pubblico che esiste in Italia. Sarebbe interessante instaurare un dialogo sul come dobbiamo rapportarci con la Cina. Michele Boldrin - per quanto guardi il dito e non veda la luna - ha intavolato il discorso con un approccio realista e concreto. Quest'approccio può portare a una maggiore comprensione reciproca, il che è fondamentale di questi tempi. Questo è l’aspetto positivo del video e dobbiamo lavorare per approfondire dibattiti sul tema.
  • È importante capire che spesso la falsa coscienza e le narrazioni parziali vengono costruite attraverso certi frame interpretativi che, seppur senza ricorrere a menzogne, non mostrano la realtà complessiva. Omissione e ripetizione sono le parole d’ordine della falsa coscienza.[1]

Michele Boldrin è un economista. Il suo frame interpretativo è economicistico e omette (volontariamente) la sfera politica, sociale e ideologica. Ma ciò che rende l’ascesa economica cinese unica è il suo rapporto con la sovrastruttura politica e ideologica. Per questo dico che Michele Boldrin guarda il dito (economia) ma non vede la luna (politica).

L’argomentazione di Michele Boldrin si può riassumere così: l’ascesa economica cinese non ha nulla di speciale. La leadership cinese ha usufruito dei vantaggi comparati derivati dall’avere un enorme forza lavoro estremamente povera e quindi disposta a essere sfruttata dai capitalisti occidentali (in quanto lo stipendio da loro offerto era comunque molto maggiore rispetto alle altre opportunità di lavoro).

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contropiano2

Accordi fuffa: la deindustrializzazione Usa è irreversibile

di Joseph Halevi*

impossibile reindustrializzare usaPenso che la formazione degli strati politici europei sia tale ormai che non riescono proprio a trovare, a individuare, spazi per i propri paesi. Di conseguenza sono piuttosto orientato a pensare che si allineano e basta, sapendo che ci saranno dei costi da pagare, ma di scaricarli poi sulla popolazione normale, diciamo così.

Non riesco proprio a pensare, a vedere, dei politici autonomi, capaci di dare un pensiero… L’ultimo che mi viene in mente è Kohl, per esempio, dopo non ne vedo. Forse un po’ Schroeder, però ha avuto la grossa responsabilità di accelerare la finanziarizzazione della Germania, tra l’altro, e quindi di rompere questa coerenza che c’era tra sistema bancario e sistema industriale tedesco che dava una notevole forza alla Germania.

L’Italia poi, con la fine della prima Repubblica, non ha più niente, non ha più nulla, quindi io non riesco a individuare spazi di autonomia, perché se si devono individuare degli spazi di autonomia bisogna pensare che la prima cosa che avrebbero dovuto proteggere è le risorse energetiche, è ovvio, le fonti energetiche. Non le hanno protette.

Voglio dire, è stato fatto saltare il North Stream 2 e questi non hanno nemmeno protestato. Di conseguenza, io proprio non vedo nessuno spazio in quel senso.

Però qui vorrei dire alcune cose: bisogna vedere quale è l’obiettivo statunitense. Noi siamo in una nuova fase del: “i problemi sono vostri e i dollari sono nostri”. John Connally, che fu il segretario al Tesoro del presidente Nixon nella crisi del ’71, proprio in un incontro di 10 paesi a Roma, alla fine del ’71, dopo l’abbandono della parità aurea decretata da Nixon il 15 agosto del 1971 tra dollaro e oro.

A Roma in questa riunione lui disse: “il dollaro è nostro, però i problemi – sottinteso del dollaro – sono i vostri”. Così disse all’Europa, al Giappone … agli europei e ai giapponesi, sostanzialmente. E noi ci ritroviamo di nuovo di fronte a questa situazione.

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laboratorio

La strategia globale dietro i dazi statunitensi secondo Stephen Miran

di Domenico Moro

I dazi secondo MIran immagine.jpegI dazi stanno caratterizzando la seconda presidenza di Donald Trump. Tuttavia, il presidente sui dazi ha un comportamento ondivago, minacciando e sospendendo le tariffe per poi aumentarle o diminuirle.

Se vogliamo capire le cause profonde dei dazi e del comportamento ondivago di Trump dobbiamo staccarci dal contingente e cercare di capire qual è la strategia complessiva. A questo proposito, dobbiamo fare riferimento a Stephen Miran, che della politica dei dazi è lo stratega e che è attualmente il presidente del Council of Economic Advisor, un organismo interno all’Ufficio Esecutivo del Presidente degli Stati Uniti, il cui compito è dare consigli al presidente su temi economici. Durante la prima amministrazione Trump, Miran è stato consigliere senior del Ministero del Tesoro e successivamente stratega senior per Hudson Bay Capital Management, un grande investitore istituzionale all’interno del Trump Media & Technology Group, che gestisce anche la piattaforma Truth Social.

In particolare, dobbiamo fare riferimento a un testo di Miran che rappresenta il manifesto della politica dei dazi, A User’s Guide to Restructuring the Global Trading System (Guida dell’utente alla ristrutturazione del sistema commerciale globale), che è stato pubblicato da Hudson Bay nel novembre del 2024 in contemporanea con la vittoria di Trump.

 

Introduzione

Cominciamo, quindi, a vedere cosa dice questo testo. Miran inizia imputando alla sopravvalutazione del dollaro la ragione del deficit commerciale con l’estero e del declino della manifattura statunitense. Miran si propone di individuare gli strumenti per ovviare a questi problemi. Lo strumento unilaterale più importante sono i dazi, che, contrariamente a quanto sostiene l’opinione comune, non necessariamente aumentano l’inflazione. Infatti, quando nel 2018-2019, durante il primo mandato Trump, furono alzati i dazi non ci furono apprezzabili aumenti dell’inflazione, anche perché i dazi furono controbilanciati dal rafforzamento del dollaro.

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storiasegreta

Il rinculo di Trump

di ***

trump e meloniI dazi che Trump aveva messo contro il resto del mondo sono durati esattamente una settimana, dopo di che sono stati sospesi per tre mesi per avviare trattative con quasi tutti i paesi, con l’eccezione della Cina.

Sono state proposte varie spiegazioni per questa improvvisa retromarcia, da una eccessiva reazione della Borsa, dalla pressante richiesta di trattative di quasi tutti i paesi, che Trump ha espresso a modo suo (‘vogliono tutti baciarmi il fondo-schiena’), così come naturalmente che ‘era stato tutto previsto’ (la spiegazone meno credibile di tutte).

In questo contesto di sterzate e controsterzate, per cercare di capirci qualcosa crediamo sia utile inquadrare le cose in una prospettiva di più lungo periodo.

Trump o non Trump, gli Stati Uniti si ritrovano ad affrontare due enormi problemi contemporaneamente, uno di tipo economico e uno di tipo finanziario, strettamente legati tra loro.

Come illustrato abbondantemente altrove (Maurizio Agostini, Moneta e Potere) a cinquanta anni dalla fine della convertibilità del dollaro in oro, i nodi vengono necessariamente al pettine perché senza il vincolo della convertibilità, sono state stampate dal nulla enormi quantità di dollari. Ciò ha permesso agli Stati Uniti di acquistare tutto quello che volevano nel mondo praticamente gratis. Valery Giscard d’Estaing, quando era ministro delle finanze della Francia negli anni ‘60, coniò il termine ‘esorbitante privilegio del dollaro’ che ben definisce il ruolo del dollaro nel dopo guerra. Le ragioni di questo privilegio sono legate al ruolo di leadership mondiale degli USA, al suo esercito, all’essere diventato la moneta di riserva mondiale, al ruolo del petrolio che doveva essere pagato in dollari, insomma al ‘credito’ che gli States avevano nel resto del mondo.

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lantidiplomatico

Dazi e democrazia

di Carla Filosa

jpeaojvòpsDalle promesse elettorali alle ingiunzioni televisive in mondovisione, Trump ritira provvisoriamente – sembra – i dazi a Messico e Canada. Si pone il problema se sappia, anche rivolto a chi gli suggerisce o stila i suoi proclami, di cosa stia minacciando e soprattutto con quali conseguenze potrebbero avviarsi i prodromi di una guerra commerciale che non si sa contro chi alla fine potrebbe ritorcersi. Anche quotidiani Usa scrivono che una guerra sui dazi è una cosa stupida, che la vittoria non potrà essere di nessuno e che a rimetterci sarà solo il lavoro di base in ogni settore produttivo.

Le ultime notizie poi, danno per cancellati i guadagni ottenuti nel post elezioni (bitcoin), per provocate ritorsioni ai dazi del 25% imposti a Messico, Canada e del 20% a Cina, dando un via inflazionistico dagli esiti incerti, proprio negli Usa. La motivazione eufemisticamente “fittizia”, addotta all’imposizione dei dazi, riguarderebbe il flusso di fentanyl che questi Paesi inviano negli Stati Uniti, cui farebbe seguito l’attacco protezionista provocando un’ulteriore ritorsione senza più fine. L’avvio di questa guerra commerciale, per primo solo con l’alleato canadese, ricorda la favola del lupo e dell’agnello di antica saggezza, nel coraggioso belato di Trudeau per non diventare “mai” il 51° Stato americano.

Il crollo delle borse e il prezzo dei bitcoin che avrebbe dovuto creare una “riserva strategica” di criptovalute negli Usa, segnano un primo risvolto alle risoluzioni di Trump, cui si affiancano i guai alla Tesla e a quelli possibili dei robotaxi e robot del futuro non ancora pronti di E. Musk. Se negli ultimi cinque mesi, in Cina – il più grande mercato del mondo – le vendite delle auto con la T sul cofano sono crollate, come pure la quota di mercato di Tesla in Cina al di sotto del 5%, la cinese BYD di Shenzhen vende a più del 161%.

Per quanto poi concerne l’impatto che le tariffe doganali al 25% in più si avrebbero in Italia dopo il 2 aprile, i settori più colpiti potrebbero essere vini, auto di lusso, yacht e moto, farmaci e componenti elettronici con un costo tra 4 e 7 miliardi di euro (calcolo di Prometeia, istituto di previsioni economiche).

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machina

Ripoliticizzare l'economia

Alcune riflessioni su un libro di Clara E. Mattei

di Francesco Tucci

0e99dc 319eebc264da4640af6fa9b0b73aee8emv2Francesco Tucci riflette su L’economia è politica (Fuori scena, 2023), testo di Clara E. Mattei che si pone il fine, attraverso un’analisi radicale del sistema economico contemporaneo, di ripoliticizzare il modo in cui guardiamo alle relazioni economiche, mettendo a critica il metodo di studio degli economisti mainstream, spiegando come la depoliticizzazione sia stata funzionale sul piano ideologico al mantenimento dell’ordine contemporaneo, discutendo l’incompatibilità tra capitalismo e democrazia.

* * * *

In conclusione alla sezione introduttiva del proprio volume, Clara Mattei dichiara esplicitamente quali siano gli obiettivi intellettuali ma soprattutto politici del proprio scrivere:

Voglio invece chiarire quali sono i meccanismi oppressivi e quali i nemici da combattere. Scrivo queste pagine esplicitamente militanti in opposizione alla tipica maniera distaccata degli economisti. Ciò non significa rinunciare al rigore scientifico nell’indagine. Al contrario, vuol dire rivendicare l’inestricabile posizionamento sociale dell’intellettuale, che non può che essere situato nel mondo e, come ricordava Gramsci, organico alla lotta di classe (Mattei, 2023, pag. 30).

In questo breve passaggio troviamo tutti i temi che animano L’economia è politica, uscito nel novembre 2023 per Fuori Scena. Clara E. Mattei è professoressa associata al Dipartimento di Economia della New School for Social Research, e la sua ricerca nel corso degli anni si è concentrata in particolare sulla relazione tra la filosofia del pensiero economico e le ideologie politiche. Tra i temi sollevati, a mio avviso ne emerge soprattutto uno, che rappresenta indubbiamente la spina dorsale del libro. L’economia è politica è infatti un volume che attraverso un’analisi radicale del sistema economico contemporaneo si pone il fine di ripoliticizzare il modo in cui guardiamo alle relazioni economiche, le percepiamo e ne discutiamo all’interno della società.

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Alti tassi esentasse

di Ascanio Bernardeschi

1024px northeast portland homeless camp tentsL’aumento dei tassi di interesse non è una misura tecnica ma uno strumento politico della lotta di classe per arricchire le banche a scapito dell’economia reale e delle condizioni dei lavoratori. In un Paese in cui non esiste più l’edilizia residenziale pubblica e la mitigazione dei canoni di affitto, anche la questione abitativa viene aggravata con il rischio di mettere sul lastrico i lavoratori che con fatica avevano acquistato la casa.

L’inasprimento dei tassi di interesse praticato sia dalla Federal Reserve negli Stati Uniti che dalla Banca Centrale Europea (Bce) doveva essere funzionale, almeno secondo le motivazioni ufficiali, a contrastare l’inflazione. È noto però che il ricorso a questo strumento, che tende a raffreddare un’economia surriscaldata, è giustificato se l’inflazione è provocata da un eccesso di domanda rispetto all’offerta. Ma nel nostro caso l’inflazione non è determinata dalla troppa euforia dei mercati. Tutt’altro. Durante la fase acuta della pandemia le chiusure avevano determinato colli di bottiglia disorganizzando la produzione, grazie anche alla configurazione frammentata delle filiere produttive. Per quanto riguarda l’Europa, inoltre, si assiste a un inasprimento dei costi quale conseguenza della guerra in Ucraina e delle sanzioni alla Russia che privano il nostro sistema produttivo della possibilità di importare a basso costo materie prime e prodotti energetici dalla Russia. Incide inoltre la speculazione sui futures del petrolio, che assurdamente determinano i prezzi degli energetici. In simili casi l’innalzamento dei tassi certamente riduce la domanda, la quale, viste le difficoltà produttive, viene soddisfatta in buona parte dalle importazioni, e con ciò tende anche a migliorare i conti con l’estero, avendo così un effetto sull’inflazione ma questo beneficio è molto inferiore al danno che si provoca all’apparato produttivo.

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machina

Attraversando il PNRR. Parte III

La formazione della forza lavoro

di Emiliano Gentili, Federico Giusti, Stefano Macera

0e99dc d31ec907253d4e3c8226fcc975afe889mv2La terza parte del dettagliato studio di Emiliano Gentili, Federico Giusti e Stefano Macera sul Pnrr. L’articolo odierno si concentra sulle trasformazioni dell’insegnamento e del sistema scolastico previste dal piano per favorire la formazione di una forza-lavoro che risponda alle esigenze delle imprese.

Parte I - Parte II

* * * *

I. Innovazione, digitalizzazione e formazione della forza lavoro

La formazione dei lavoratori è da tempo uno degli argomenti più dibattuti dalla stampa, che, in un'ottica favorevole agli interessi delle imprese, non perde occasione per magnificare i vantaggi derivanti dalla crescita delle competenze nella forza lavoro. Per essere espliciti potremmo sintetizzare il ragionamento in questi termini: una forza lavoro meglio formata è una condizione imprescindibile per arrivare a una maggiore produttività, ottenendo da ciascun dipendente maggiore efficacia nello svolgimento delle proprie mansioni. In più, essendo spesso un elemento necessario per far sì che un settore dell’economia produttiva progredisca, l’aumento della produttività può consentire alle imprese di stare al passo coi tempi.

A ben vedere, oggi la questione ha assunto maggior rilevanza proprio in relazione a quella trasformazione in atto che si suole indicare con la formula «Industria 4.0». Ora, diversi sono i fattori che hanno portato l’Italia a presentarsi in ritardo a questo appuntamento. Uno di questi è la prevalenza, nel tessuto produttivo, di aziende di piccole e medie dimensioni, tradizionalmente meno propense all’innovazione e dunque poco sensibili all’idea di una formazione continua della manodopera, soprattutto se la stessa avviene a discapito dell'attività produttiva quotidianamente erogata.