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Legge di Bilancio 2026-2028 | La manovra della stabilità: quando il rigore diventa la sola politica

di Roberto Romano e Andrea Fumagalli

Studio di orizzonte marino con pioggia.jpgCon l’approvazione della Legge di Bilancio 2026-2028, il governo italiano ha scelto di non scegliere, adeguandosi ai dettami e ai vincoli imposti dal nuovo Patto di Stabilità e Crescita europeo.

Si conferma così la linea di questo governo impavido: una linea fondata su grandi proclami ideologici (tutto va bene!) e promesse di riforme strutturali a cui non segue una capacità decisionale degna di tal nome. D’altra parte, il non fare è il sistema migliore per non sbagliare e mantenere un riconoscimento elettorale, soprattutto in presenza di una stampa compiacente e di una opposizione inconcludente.

Nel campo macroeconomico si rinuncia così di esercitare il potere discrezionale della politica economica. È una legge che non governa l’economia, ma la registra; non apre prospettive, ma le rinvia. Nel più classico stile neoliberista, che vede ogni intervento pubblico di indirizzo una bestemmia contro il mercato.

Dopo il Documento di economia e finanza e la Nota di aggiornamento, il trittico della programmazione pubblica si chiude con un bilancio che, al netto del Piano nazionale di ripresa e resilienza, equivale a una manovra “a saldo zero”. Le risorse aggiuntive effettive sono limitate: solo 900 milioni nel 2026. Si tratta di numeri che, nella sostanza, descrivono un bilancio statico, coerente con il nuovo quadro europeo che impone la riduzione graduale del debito e un avanzo primario crescente, ma del tutto privo di un progetto di sviluppo autonomo.

 

  1. Il ritorno del Patto e la politica dell’obbedienza

Il nuovo Patto di Stabilità e Crescita, negoziato nel 2024, rappresenta il compromesso tra la richiesta dei Paesi “frugali” di tornare al rigore e il tentativo, soprattutto da parte della Francia e Germania, di introdurre margini di flessibilità per gli investimenti pubblici e la transizione verde e sottotraccia la difesa. Ma nella pratica, il suo impianto resta quello di sempre: l’equilibrio dei conti prevale su ogni altra priorità economica o sociale.

L’Italia, nel redigere la manovra, avrebbe potuto interpretare in modo più elastico le regole, valorizzando lo spazio di manovra consentito dal saldo strutturale e dall’avanzo primario. Non lo ha fatto. Il governo ha scelto di applicare il Patto in modo pedissequo, trasformando un vincolo tecnico in un vincolo politico.

La logica è chiara: evitare tensioni con Bruxelles, mantenere la fiducia dei mercati e contenere il costo del debito. Ma questa subalternità ha un prezzo alto. Se la politica di bilancio rinuncia a usare la leva fiscale e della spesa pubblica per stimolare la crescita, l’intero sistema economico si muove per inerzia, sospinto di fatto solo dai residui del PNRR (che termineranno nel 2026).

 

  1. La manovra “neutra”: crescita zero, politica zero

Il quadro macroeconomico allegato alla legge di bilancio conferma questa impressione. Le differenze tra gli scenari tendenziali e quelli programmatici sono minime: appena uno o due decimali di PIL in più nel 2027 e nel 2028. I consumi privati restano fermi, i consumi pubblici crescono solo nella misura consentita dal nuovo Patto, e se gli investimenti mostrano un modesto recupero, ciò è dovuto ai soldi del PNRR.

Senza il PNRR, che contribuisce alla crescita per circa 1,7 punti percentuali nel 2026, il tasso di espansione del PIL sarebbe negativo di quasi due punti.

Questa condizione di neutralità ha conseguenze dirette sulla distribuzione del reddito e sulla capacità del Paese di affrontare le sue emergenze strutturali: il lavoro povero, il declino industriale, la stagnazione salariale, il sotto finanziamento del welfare. La riduzione del deficit e l’aumento dell’avanzo primario sono ottenuti non grazie a una maggiore efficienza della spesa, ma attraverso tagli lineari e rimodulazioni contabili. È una manovra che non sceglie, ma riduce.

 

  1. Le risorse: 18 miliardi di aggiustamenti, non di sviluppo

Nel complesso, la Legge di Bilancio mobilita circa 18 miliardi di euro, distribuiti tra minori entrate fiscali, tagli di spesa e risorse ricavate dalla minor spesa per PNRR. Ma la struttura interna della manovra rivela molto più della cifra complessiva.

I ministeri subiscono una riduzione di circa 8,5 miliardi nel triennio, mentre le minori entrate fiscali ammontano a 26,5 miliardi. La copertura arriva da una combinazione di contributi straordinari e maggiori entrate dal settore finanziario e assicurativo, oltre che dal rinvio di spese già previste nel PNRR.

 

  1. Fisco categoriale e regressività sociale

La parte fiscale della manovra rappresenta uno dei punti più problematici. L’impianto tributario italiano, già profondamente segmentato, si frammenta ulteriormente con il proliferare di regimi speciali e aliquote agevolate.

Il taglio dell’IRPEF dal 35% al 33% per i redditi tra 28.000 e 50.000 euro è finanziato interamente con i tagli ai ministeri. È un’operazione neutra sul piano macro, ma regressiva sul piano distributivo: riduce il peso fiscale senza correggere la disuguaglianza. Per di più, nonostante i proclami, ha un effetto minimo sulle tasche dei 13,6 milioni contribuenti che ne potrebbero beneficiare, la maggior parte dei quali si colloca sotto i 40.000 euro annui. Il risparmio fiscale infatti varia da ben 40 euro! all’anno (per chi ha 30.000 euro) e a ben 240 euro all’anno (per chi arriva a 40.000 euro l’anno), sino a un massimo di 440 euro per chi dichiara redditi da 40.000 a 200.000 euro l’anno.

Tra il 2022 e il 2024 nel nostro paese l’inflazione è stata superiore al 17 per cento. Vuol dire che in media ogni contribuente si è visto ridurre il proprio reddito reale del 17 per cento e considerato che in un sistema di imposta progressivo l’aliquota media (ovvero la quota che del proprio reddito il contribuente versa all’erario) aumenta all’aumentare del reddito, si è verificato un drenaggio fiscale (ovvero un aumento della pressione fiscale causato dall’aumento inflattivo del reddito nominale a cui non è corrisposto un aumento del reddito reale, piuttosto una sua riduzione) che secondo la voce.it è stimabile in 25 miliardi. Sono i contribuenti con redditi tra i 20.00 e i 50.000 euro a essere più colpiti. La riduzione dell’aliquota dal 35% al 33% restituisce per il 2026 poco meno di 3 miliardi di euro, una cifra del tutto insoddisfacente. Ciò che viene spacciato per riduzione delle tasse nasconde invece un aumento della pressione fiscale che non viene compensato.

A tal riguardo, occorre ricordare che le entrate totali e la pressione fiscale sono aumentate rispettivamente di 1 punto e di 1,3 punti percentuali di PIL, da quando il governo Meloni si è insediato: ai valori di oggi significa che sono più alte di circa 28 e 22 miliardi di euro. Nel secondo trimestre di quest’anno, inoltre, l’ultimo per cui sono disponibili i dati, i due indicatori sono arrivati ai massimi degli ultimi dieci anni, al 42,8 e al 47,6 per cento. Altro che riduzione delle tasse, come viene millantato. Ed è proprio grazie a questo maggior onere fiscale a carico dei ceti medio-bassi che il ministro Giorgetti si può vantare di poter raggiungere l’obiettivo del 3% di rapporto deficit/Pil a fine 2025, evitando così la procedura europea di infrazione del debito e Meloni può affermare che l’Italia è nella serie A mondiale.

Ma non basta: con questa legge di bilancio diventa legge la tendenza verso un fisco “categoriale”. Premi di produttività, rinnovi contrattuali e trattamenti accessori godranno di aliquote fisse del 10% o del 5%, mentre le retribuzioni ordinarie restano soggette alla progressività. Si consolida così un sistema in cui il lavoro dipendente è tassato in modo diseguale a seconda della forma del reddito, erodendo la base stessa della progressività. E ancora una volta, come negli anni passati (nel 2024 è stato l’intervento sul cuneo fiscale), l’obiettivo di mantenere il potere d’acquisto dei salari ricade ancora sulle finanze pubbliche (quindi a carico anche degli stessi lavoratori) invece che a carico dei profitti crescenti dei datori di lavoro.

 

  1. Politiche sociali e welfare: risorse insufficienti

Sul fronte sociale, la manovra appare debole e frammentata. Gli stanziamenti aggiuntivi per la sanità ammontano a poco più di 2,4 miliardi nel 2026 e 2,65 miliardi dal 2027: cifre che non bastano a colmare il divario accumulato negli ultimi anni. Il Servizio Sanitario Nazionale continua a operare sottorganico e con strutture obsolete, mentre la spesa sanitaria pubblica in rapporto al PIL resta tra le più basse d’Europa. Per di più la quota di spesa sanitaria pubblica che finanzia la spesa privata è in costante aumento ed è oggi arrivata a superare il 25% (esattamente 25,75%, secondo il rapporto 2025 Gimbe).

Anche le politiche per la famiglia e la povertà si limitano a interventi di mantenimento. Vengono stanziati 3,5 miliardi in tre anni per il sostegno alle famiglie e la revisione dell’ISEE, insieme al rifinanziamento della “Carta dedicata a te” e a un modesto aumento del bonus mamme. Si conferma quindi una politica di intervento basata su bonus una tantum da riconfermare, differenziati a seconda delle diverse tipologie di reddito, con vincoli di Insee a livello familiare molto contenuti. Ma non era il governo Meloni che, per giustificare la parziale cancellazione del reddito di cittadinanza, dichiarava a gran vice: mai più bonus?

L’aumento simbolico delle pensioni minime (12 euro!) e il temporaneo blocco dell’età pensionabile per i lavori usuranti non compensano il ridimensionamento delle politiche previdenziali. Il messaggio di fondo è chiaro: la spesa sociale è vista come un costo da contenere, non come un investimento per la coesione.

 

  1. Imprese il miraggio della competitività

Sul fronte delle imprese, la Legge di Bilancio punta ancora una volta su incentivi fiscali e superammortamenti, confermando che quel poco di politica espansiva in Italia viene declinata esclusivamente in termini di sostegno al lato dell’offerta (leggi sistema delle imprese) e non alla domanda (supply-side economics). Gli investimenti in beni strumentali potranno essere maggiorati fino al 220% se legati alla transizione green, ma la misura riproduce un meccanismo noto: sostenere il capitale più che l’innovazione.

Il rischio è che le agevolazioni si traducano in un vantaggio temporaneo per le imprese già solide, senza effetti duraturi sulla produttività complessiva. È il riflesso di un modello di politica industriale che privilegia l’incentivo fiscale rispetto alla programmazione strategica.

Anche nel settore bancario la logica è quella della stabilità: proroghe fiscali sulle perdite e agevolazioni per le imposte differite attive (DTA), senza un vero disegno di riequilibrio del credito verso il sistema produttivo. La “pace fiscale”, con la sanatoria delle cartelle e il pagamento dilazionato in nove anni, appare più come un segnale elettorale che come una misura di efficienza amministrativa.

 

  1. Imposta sulle banche e assicurazioni e sugli affitti brevi

Trattiamo per ultimo i due temi che più hanno attirato l’attenzione dei giornali: il contributo chiesto alle banche e assicurazioni con l’introduzione di un’imposta del 27,5% per il 2025 e del 33% per l’anno successivo (art. 20) su quella parte di utili netti che viene detenuta sotto forma di attività patrimoniale e l’aumento dell’aliquota sul reddito derivante dagli affitti brevi (ma solo quelli intermediati dalle piattaforme digitali come Air-BnB) dall’attuale 23% al 26%. Queste due misure hanno dato adito a posizioni assai divergenti tra i tre partiti della maggioranza, sino a parlare per quanto riguarda le banche di imposizione di tipo sovietico e per quanto riguarda gli affitti brevi di tassazione patrimoniali. È probabile pertanto che queste misure possano essere revisionate durante il dibattito parlamentare con l’effetto di ridurre il loro effetto sulle entrate fiscali.

Riguardo al contributo chiesto alle banche e assicurazioni, esso è strutturale per i prossimi tre anni e nel 2026 dovrebbe portare nelle casse dello Stato circa 4,4 miliardi di Euro. Secondo i dati dell’ufficio studi Unisin/Confsal, nel solo 2024 (ultimo dato disponibile), Unicredit ha maturato un utile netto pari a 9,775 miliardi di Euro, con un incremento del 522,61% sul 2021, Banca intesa 8,666 miliardi (+ 115,20%), MPS 1,950 miliardi (531,07%), Banco Bpm 1,920 miliardi di euro (+ 238,03%) per citare i primi 4 principali istituti di credito. Complessivamente il solo sistema creditizio-finanziario (al netto di quello assicurativo) ha maturato nel 2024 utili netti pari 28,89 miliardi di euro. Se venisse applicata l’aliquota Ire sui profitti (23%), il gettito sarebbe pari a 6,64 miliardi. Se l’aliquota fosse il 27,5%, il gettito salirebbe a poco meno di 8 miliardi (una cifra inferiore al solo utile netto di Unicredit). Si può capire da questi dati come il contributo chiesto alle banche sia di gran lunga inferiore a quello che lo Stato avrebbe potuto e dovuto ottenere. Tale perdita è compensata solo in minima parte dall’incremento dell’aliquota Irap dal 4,65 al 6,65% (art. 21), con un incremento di gettito pari a poco più di 750 milioni. Altro che misura sovietica!

Per quanto riguarda l’aumento delle aliquote sugli affitti brevi, la misura non coglie il giusto bersaglio. Con tale provvedimento, le piattaforme digitali, che favoriscono il processo di overtourism e insostenibile aumento degli affitti consentendo ingenti profitti parassitari, non vengono colpite dal momento che l’aumento dell’imposta si scaricherà sui prezzi finali. Saranno quindi i clienti e i turisti a farne le spese. Si apre qui l’annosa questione della tassazione delle piattaforme digitali che operano nel nostro paese con riferimento anche ad altri servizi. È un campo in cui un governo coraggioso, e meno subalterno ai poteri forti come lo è il governo Meloni, potrebbero ottenere un notevole incremento di entrate fiscali andando a colpire un settore che le tasse non le paga o, se le paga, le paga in modo irrisorio. Le piattaforme digitali (qualunque sia il servizio offerto) svolgono un’attività trasparente in quanto tutte le transazioni sono digitalmente contabilizzate. Essendo noto il giro d’affari che una piattaforma svolge in un territorio, questo dato potrebbe essere utilizzato coma base imponibile per un intervento di natura fiscale, la cui entità può essere di volta in volta valutata. Simili interventi esistono già in Europa e la sperimentazione è in corso, nonostante l’opposizione e i ricatti posti recentemente dall’amministrazione Trump. È un campo in cui l’Europa potrebbe fare veramente l’Europa. Qui approfondimenti sul tema.

 

  1. Le voci di bilancio non contemplate: Difesa e PNRR.

Un capitolo a parte riguarda la difesa. Il governo ha confermato l’intenzione di aumentare gradualmente la spesa militare per raggiungere gli obiettivi NATO, ma rinvia la decisione a giugno 2026, per essere sicura di aver ottenuto l’obiettivo del tetto del 3% del rapporto deficit/Pil. In ogni caso, il governo italiano ha già fatto sapere che intenderà ricorre per una cifra pari a 14,5 miliari al fondo SAFE (Security Action for Europe), la cui liquidità per finalità di sicurezza e riarmo europeo (Progetto Re-Arm Europe) viene reperita sui mercati dei capitali internazionali e sarà erogata sotto forma di prestiti diretti agli Stati membri che ne faranno richiesta, comunque da restituire entro 10 anni. Per l’Italia si tratta del quinto contributo più sostanzioso, dopo quelli offerti a Polonia (43,7 miliardi), Romania (16,8 miliardi), Francia e Ungheria (16,2 miliardi per ciascuno).

Per quanto riguarda il PNRR, il governo contabilizza nel 2026 le riduzioni delle spese previste per il PNRR (oltre 5 miliardi nel 2026). Viene così riconosciuto – al di là delle dichiarazioni trionfali di segno opposto – che non tutti gli impegni originali del Piano saranno rispettati, anche se la riduzione è di importo contenuto rispetto al PNRR nel suo complesso (194 miliardi). La mancata spesa del 2026, come concordato con la Commissione Europea, sarà rinviata agli anni successivi attraverso la creazione di uno specifico meccanismo che eviterà la perdita delle prossime rate del PNRR.

 

  1. Il bilancio come strumento politico (svuotato)

Il punto politico centrale della manovra non è tanto ciò che contiene, ma ciò che omette. La Legge di Bilancio 2026-2028 segna la fine della concezione espansiva della politica fiscale inaugurata con il PNRR. In un contesto di crescita debole e inflazione rallentata, il governo sceglie di ritirare la spesa pubblica proprio quando sarebbe più necessaria per sostenere domanda e investimenti.

Si tratta di una decisione coerente con la dottrina del rigore, ma incoerente con la realtà economica. Mentre Stati Uniti e Cina continuano a utilizzare la spesa pubblica come leva per orientare l’economia, l’Europa si riavvita su sé stessa, preoccupata più dei saldi che della sostanza.

L’Italia, in questo quadro, rinuncia al ruolo di attore politico e si riduce a esecutore di un equilibrio contabile. La finanza pubblica smette di essere strumento di governo e diventa un vincolo di comportamento. È la vittoria della stabilità sulla politica, dell’amministrazione sulla strategia.

 

  1. Conclusione: il rigore come destino?

La Legge di Bilancio 2026-2028 non è una manovra “sbagliata” in senso tecnico: i conti tornano, i parametri sono rispettati, le previsioni appaiono prudenti. Ma è una manovra povera di politica. Non affronta la questione salariale, non riforma il fisco in senso progressivo, non rilancia gli investimenti pubblici.

È il segno di un governo che interpreta la disciplina di bilancio non come strumento, ma come fine. E di un Paese che rinuncia a definire la propria strategia di crescita: come si decideva all’inizio, decide di non fare.

L’Italia si muove così dentro un paradosso: più la finanza pubblica è stabile, meno la società lo è. Meno il bilancio rischia, più l’economia si indebolisce. È la contraddizione di un’Europa che ha fatto della stabilità il suo dogma, dimenticando che la stabilità, senza sviluppo e senza giustizia sociale, non è un equilibrio: è solo immobilità. Ma le società di rating brindano e i mercati speculativi e i poteri forti gioiscono!

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