Perché la guerra alla Russia?
E la NATO vuole aiutare l'UE o suicidarla?
di Giorgio Monestarolo
1. Le cause della guerra
Da quando è arrivato Trump la gestione della guerra è mutata. Le notizie si rincorrono in un alternarsi di stop and go nella direzione, apparentemente, di una soluzione del conflitto, di un armistizio o di un suo rilancio.
In realtà, seguendo la cronaca giorno per giorno si percepisce un senso di smarrimento, non si capisce bene effettivamente dove si stia andando. Lo smarrimento è il frutto di una non comprensione delle ragioni, delle cause del conflitto. Il primo punto che vorrei chiarire è proprio questo. Lo faccio riferendomi a un articolo uscito recentemente sul New York Times, di cui si è parlato molto per un attimo e su cui è poi caduto il silenzio. Il titolo è già molto esplicativo: L’alleanza. Storia segreta della guerra in Ucraina. Il ruolo nascosto degli Usa nelle operazioni militari ucraine contro la Russia. Si tratta di un dossier frutto i di più di trecento interviste a uomini e donne della Nato a cura di Adam Entous e pubblicato il 29 marzo del 2025.
L’importanza dell’articolo è semplice: l’autore riconosce, con dovizia di particolari, la natura di guerra per procura dell’Ucraina alla Russia, guerra per conto degli USA. Una guerra preparata dalle amministrazioni democratiche e repubblicane negli ultimi trent’anni. Non è chiaramente una notizia bomba. Molti studiosi dal febbraio del 2022 hanno sostenuto questa tesi. La novità è il fatto che il giornale dell’amministrazione democratica, il giornale di sistema più prestigioso degli Usa lo abbia dichiarato senza infingimenti di sorta. Il motivo era chiaro: la guerra non è stata vinta anzi è stata proprio persa.
Per quali ragioni? Da una parte la responsabilità è stata attribuita agli Ucraini. Malgrado tutto il sostegno Usa e della Nato gli Ucraini hanno continuato a condurre la guerra in modo autonomo, non hanno ascoltato a sufficienza gli alti comandi statunitensi. Quando hanno obbedito si sono visti i successi, come nell’estate autunno del 2022. Quando hanno fatto di testa loro, difesa ostinata e senza motivo di Bacmuth/Artemovsk o ancora peggio, sfondamento delle linee russe nel distretto di Kursk nell’estate del 2024, le operazioni sono state un disastro di tali proporzioni da compromettere l’intera campagna militare. Il tono è chiaro: si accetta la sconfitta ma si scaricano le responsabilità sulle truppe ucraine, sull’alleato borioso e corrotto. L’articolo che sembra un “mea culpa” è in realtà una classica autoassoluzione. L’amministrazione Biden ha fatto tutto per bene, dosando mese dopo mese l’escalation, scegliendo i tempi per allentare la tensione e quelli per alzarla. L’arrivo di Trump è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. L’insipienza della politica di guerra ucraina e la propaganda di Trump hanno rotto il giocattolo perfetto della guerra, “non provocata e brutale” del dittatore Putin. Per quello che ci riguarda l’importanza dell’articolo è solo nell’ammissione, oramai manifesta, della guerra per procura e dell’impossibilità di vincerla sul campo.
Perché allora la guerra per procura? Semplicemente perché essa si inserisce nella strategia di lungo periodo, democratica e repubblicana, elaborata dal movimento dei neoconservatori, per creare una salda egemonia Usa anche per il XXI secolo. La guerra in altri termini ha una natura squisitamente imperialistica che soltanto il disarmo concettuale della sinistra politica di classe ha reso possibile il fraintendimento.
2. Le cause profonde della guerra
Qualcosa però è andato storto. E’ dunque necessario un chiarimento sulla portata della guerra e sulla sua natura profonda. Nel progetto Usa, la guerra serviva a risolvere tanti problemi. Schiacciare l’Europa (questione Brezinski), disintegrare la Russia in una serie di stati dipendenti dagli Usa e in second’ordine dagli alleati (qualcosa si deve pur dare ai cornuti europei che fanno la guerra contro i loro interessi) riavviare un ciclo di accumulazione impossessandosi delle enorme ricchezze russe, in prospettiva impartire alla Cina una dura lezione: è con noi che devi trattare, non ti azzardare a competere con la nostra industria militare e high tech. In sostanza, dopo la crisi del 2008 gli Usa hanno percepito una crescente debolezza del loro ruolo di dominus della globalizzazione. La loro risposta è stata un’accelerazione nella riorganizzazione del sistema delle relazioni internazionali prima che diventasse troppo tardi. Il problema è che è diventato troppo tardi. Come ogni impero della storia, a un certo punto i costi per esercitare il proprio dominio imperiale sono superiori ai vantaggi. Il momento per una ritirata sensata dell’impero è stata la presidenza Obama: ci si aspettava la chiusura dell’insensata guerra in Afghanistan ed invece c’è stato il rilancio con le primavere arabe e la guerra in Siria. Nel 2008, quindi possiamo rintracciare l’anno di svolta per la storia Usa, della globalizzazione e anche del traballante sistema internazionale.
Arriviamo quindi al punto essenziale, che si riconnette alla questione dell’imperialismo. La natura storica del capitalismo è stata quella di esercitare un dominio, equivalente a sfruttamento del lavoro ed estrazione di risorse naturali praticamente senza pagare costi che non fossero quelli dell’organizzazione delle catene del valore e dello sfruttamento, nei confronti delle società e degli stati del sud del mondo. Ora è questo vantaggio competitivo che caratterizza il capitalismo come estrazione di surplus sostanzialmente infinita. La fase attuale è quella del raggiungimento del limite. Un limite ambientale (le risorse scarse inducono una crisi che assume i tratti del collasso) un limite politico: la globalizzazione ha ribaltato i rapporti di forza, le fabbriche del mondo delocalizzate nel sud globale hanno risalito la scala del Valore e competono su tutti i piani con la potenza egemonica: tecnologia, esercito, finanza.
La natura del ribaltamento di forze spiega la politica altrimenti incomprensibile della nuova amministrazione Trump. I dazi, il tentativo di separare Russia e Cina, lo sganciamento dalla guerra in Ucraina. Ma come dicevo, è un pò troppo tardi. Uscire dal processo della finanziarizzazione dell’economia è sostanzialmente impensabile. I capitali non hanno bandiera. All’annuncio dei dazi i capitali si sono ritirati dalla borsa e NON HANNO PRESO LA STRADA DEL BENE RIFUGIO PER ECCELLENZA, IL DOLLARO. La fuga di capitali annuncia il limite invalicabile alle politiche di reindustrializzazione, almeno così mal concepite dal gruppo di governo Usa.
Cosa significa tutto ciò? In termini pratici, la classe dominante Usa è divisa e incerta sul da farsi: la ritirata sembra impossibile come la fuga in avanti nella guerra. Questa situazione determina l’indebolimento sempre più rapido della potenza egemone e la minaccia sempre più forte di un caos globale, di una guerra generale per stabilire la nuova egemonia
3. Navigare nel caos
Il senso di smarrimento, di sgretolamento dell’ordine, è evidente, percepito e diffuso a tutti i livelli, in quello che si chiama pomposamente Occidente.
Si abbozzano tentativi per frenare la caduta, anche diversi, come la linea Trump e quella europea sulla questione Ucraina, ma su un punto la consegna è chiara: bisogna impedire a tutti costi il ritorno in campo del mondo del lavoro, dell’idea di un controllo politico sul capitale. Questa tendenza spiega molto bene come i neoliberali siano pronti e disponibili ad allearsi con le forze profasciste: si tratta di prendere tempo, il populismo di destra assorbe il malcontento generato dalla degenerazione del modello neoliberale, ma alla fine i signori del capitale sono convinti di avere loro il controllo del vapore. Nel caso di Meloni, Orban, le Pen le cose stanno effettivamente così. Ma nel caso di un precipitare della crisi, il quadro potrebbe drasticamente mutare e un controllo militare sul lavoro potrebbe tornare all’ordine del giorno. Per ora censura, manipolazione legale, svuotamento dei sistemi elettorali sono sufficienti per continuare la navigazione a vista nel caos.
4. Fermare la guerra è possibile
In Europa, il tentativo di rilegittimare attraverso la guerra una classe politica che ha condotto il continente, con il progetto neoliberale di Unione, a un fallimento storico è, se lo si vuole, facilmente contendibile.
Il partito della guerra non fa breccia tra le masse popolari perché la minaccia della conquista europea della Russia fa ridere i polli e a essa non ci crede nessuno. Il riarmo è dunque vissuto come un vero e proprio sopruso che suscita repulsione e disprezzo. Oggi la strada segnata è quella di organizzare politicamente un partito della pace che sia anche, e credibilmente, un partito capace di rivoluzionare, di capovolgere i pilastri del vecchio ordine che sta cadendo. Un partito, inteso come una forza trainante, che sappia dire poche cose ma chiare.
No al riarmo e si alla diplomazia per risolvere le crisi.
Tassazione patrimoniale sui super ricchi.
Nazionalizzazioni e intervento diretto dello stato in economia.
Transizione ecologica a favore dei lavoratori e non contro i lavoratori.
Liberazione della scuola e delle università dalla rete di norme che puntano a privatizzazione, finta meritocrazia, competizione tra individui.
Rilancio dei consumi pubblici e riduzione dei consumi privati, non più sostenibili.
Ferrea opposizione alla politica guerrafondaia e genocida dell’Europa, anche pronti ad uscire da questa Europa che ha tradito tutti i suoi ideali.
Una nuova cultura della tolleranza, del riconoscimento reciproco, contro settarismi, deliri identitari, fughe in avanti frutto di una cultura del consumismo narcisistico.
Questo ultimo punto è particolarmente importante perché ha infettato a tutti i livelli quella che era una volta la sinistra. Soltanto praticando la cultura del riconoscimento e dell’emancipazione (non solo a chiacchiere) è possibile costruire quel partito rivoluzionario della pace di cui c’è urgenza assoluta. I nemici di classe sono confusi e indecisi. Ma anche noi lo siamo. Abbiamo davanti un tempo limitato. E’ possibile che ai proclami bellicisti si dia seguito concreto. Il riarmo è il primo passo. La guerra il secondo. Cerchiamo l’unità e la chiarezza prima dei nostri avversari e potremo imprimere una svolta al nostro destino.
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