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linterferenza 

Joe Trump, i preveggenti “volenterosi” e l’inevitabilità del conflitto

di Norberto Fragiacomo

Non abbiamo mai dubitato dell’imprevedibilità di Donald Trump, ma speravamo che, una volta in carica, si sarebbe mostrato meno aggressivo del predecessore e che non avrebbe scatenato guerre. Si trattava non di una certezza, ma di una scommessa – e salvo ulteriori colpi di scena possiamo serenamente ammettere di averla persa.

A gennaio affermai, nel corso di una puntata de il Processo del giovedì, che nei riguardi della Russia il nuovo Presidente USA avrebbe potuto assumere tre atteggiamenti alternativi: seguire il modello Biden, cioè demonizzare l’avversario e rifornire costantemente di armi l’Ucraina senza troppi clamori (tante minacce, ma di rivendicazioni manco l’ombra); porre fine al conflitto riconoscendo le ragioni dei russi e patrocinando un compromesso realistico; terza possibilità, reagire alla (pronosticabile) fermezza di Putin con un “fallo di frustrazione” e dare il via a una definitiva escalation. Trump è stato all’altezza della sua fama, perché nel breve volgere di nove mesi è riuscito a percorrere un tratto della prima strada (conferma iniziale delle decisioni già assunte dai democratici), poi a imboccare d’impeto la seconda – fino all’incontro in Alaska – e infine a invertire repentinamente la rotta, annunciando l’invio di missili a lungo raggio e il sostegno satellitare “per colpire in profondità la Russia”.

La spiegazione (più) logica dell’ultimo voltafaccia è che, a questo punto, il tycoon consideri l’uso della forza militare l’unico mezzo idoneo a imporre alla Federazione una tregua che altrimenti giammai sarebbe accettata, poiché per il presunto “aggressore non provocato” essa equivarrebbe a una sconfitta strategica.

Forse egli pensa che la mossa riuscitagli con l’Iran (che a un attacco aereo spettacolare ma più che altro simbolico non replicò, acconsentendo tacitamente alla sospensione delle ostilità provocate da Israele) possa essere ripetuta con successo anche nell’est Europa – fare pace per bombardare, come cantava il gruppo Lo Stato Sociale. Fosse questa la strategia sarebbe tanto rischiosa quanto fallimentare: la Repubblica Islamica, pur proditoriamente aggredita dallo Stato etnico israeliano, cercava comunque una via d’uscita da un confronto militare non voluto e reputato al momento tutt’altro che auspicabile. Un cessate il fuoco provvisorio non è invece negli interessi della Russia, senz’altro disponibile a una pace che tenga però conto delle effettive responsabilità, delle esigenze più volte manifestate e della situazione maturata sul campo.

Facciamo attenzione a un particolare: se all’incursione dei bombardieri stealth avesse fatto seguito un massiccio contrattacco iraniano quest’ultimo sarebbe stato pienamente giustificato alla luce del diritto internazionale e persino (non c’entra, ma c’entra) del disposto dell’articolo 11 della nostra Costituzione, visto che nel caso citato c’erano davvero “un aggressore e un aggredito”. Alla stessa stregua dopo il recentissimo proclama trumpiano (Biden, rammentiamocelo, colpiva in silenzio e poi nascondeva la mano) il lancio di missili statunitensi contro obiettivi russi sarebbe nella sostanza una dichiarazione di guerra e – tenuto conto di due fatti noti, vale a dire dell’attitudine dei tomahawk a trasportare testate nucleari e delle modifiche apportate dal governo di Mosca alla dottrina militare della Federazione – legittimerebbe il ricorso all’arma atomica. Medvedev l’ha opportunamente segnalato agli americani, che hanno risposto con sfottò e contumelie. Siamo realmente sulla soglia dell’apocalisse.

Trump o non Trump, perlomeno la posizione americana è comprensibile: sono stati gli USA a costringere la Russia a scendere in campo in Ucraina, allo scopo di intrappolare un rivale strategico e possibilmente di annichilirlo (Putin era conscio del rischio, ma in quelle circostanze non aveva scelta). Malgrado gli sforzi fatti l’obiettivo non è stato raggiunto, e difficilmente potrà essere conseguito nel prossimo futuro; d’altra parte gli Stati Uniti non possono sconfessare se stessi accettando supinamente l’avvento di un multipolarismo che già adesso minaccia il loro (declinante) predominio sul resto del mondo. La guerra dunque proseguirà, anche e soprattutto perché l’emergenza bellica ha se non altro rafforzato e irrigidito il controllo americano sugli Stati vassalli dell’Europa (non so se questo fosse lo scopo principale della “campagna d’Ucraina”, come sostiene il professor Orsini, ma di sicuro è un’evoluzione gradita a Washington).

In questa cornice sono stati proprio i governi del Vecchio Continente ad assumere posizioni che, in apparenza prive di ogni logica, contraddicono un passato prossimo di collaborazione anzitutto economica con la Federazione Russa. In effetti Francia e Germania tentarono timidamente di scongiurare, a inizio 2022, lo scoppio delle ostilità, ma poi si adeguarono con prontezza alla nuova realtà ergendosi a paladini del regime di Kiev e dopo l’elezione di Trump insistettero d’intesa con la Gran Bretagna a sabotare qualsiasi ipotesi di compromesso. Il discorso non riguarda i britannici, da sempre ostili alla Russia e avvezzi a fomentare divisioni tra i continentali: nonostante i postumi sogni di riaffermazione Londra è un’appendice dell’impero americano – partner junior, non colonia.

Berlino, Parigi, Roma ecc. non hanno invece concreti motivi di attrito con la Russia, che nei loro riguardi ha sempre ostentato benevolenza (interessata, ma trattandosi di rapporti fra Stati è del tutto normale) e ambiva fino a ieri a ricucire relazioni basate sul vantaggio reciproco. Come si spiega allora lo sprezzante rifiuto di instaurare persino un dialogo (le “proposte di pace” formulate in sede UE sono talmente assurde da essere etichettabili come provocazioni)?

Il richiamo all’etica è un espediente risibile e offensivo per l’intelligenza del pubblico: l’Ucraina, presunta vittima, è una corruttissima autocrazia in lotta contro propri cittadini fin dal 2014, e l’indifferenza dimostrata nei confronti dei palestinesi martirizzati sbugiarda i nostri governanti e smaschera la loro ipocrisia. Non si tratta neppure di compiacere le opinioni pubbliche nazionali, in larga misura pacifiste e dubbiose sull’attribuzione di ragioni e torti a onta di una propaganda martellante. Quanto alle difficoltà economiche derivanti dalle (auto)sanzioni, esse sono tangibili e palesi, mentre i piani di riarmo e i finanziamenti a fondo perduto a Zelenskyj mettono a repentaglio la stabilità dei bilanci: non c’è proprio nessuna convenienza a inasprire quotidianamente il confronto con una potenza magari fragile, ma pur sempre in possesso del più moderno arsenale atomico del pianeta.

Invero se Macron, Merz e compagnia si fossero adattati all’ultima giravolta di Trump non ci sarebbe di che stupirsi (clientes obsequuntur domino…); la stranezza sta nel fatto che costoro l’hanno invocata e propiziata. Partiamo da un’evidenza fattuale: le élite politiche dei Paesi europei non rappresentano i rispettivi elettorati, che circuiscono con slogan e promesse da marinaio, ma vengono selezionate per curare gli interessi di soggetti terzi, statuali o privati. Acclarato questo, dobbiamo chiederci perché non abbiano abbracciato il (temporaneo) pacifismo di padron Donald, in prospettiva benefico per i popoli amministrati. Se l’aristocratico si mostra benevolo verso i servitori perché mai il maggiordomo dovrebbe angariarli? Non sarebbe più saggio assecondare l’uno e cattivarsi nel contempo la gratitudine degli altri?

Le chiavi interpretative dell’intransigenza riscontrata in questi mesi sono molteplici, ma quasi tutte insoddisfacenti o parziali. Von der Leyen, Macron, Meloni e soci potrebbero aver puntato sulla volubilità di Trump – che magari tra una settimana cambierà nuovamente avviso, com’è tipico dei lunatici – o piuttosto aver concordato con lui di utilizzare lo schema “poliziotto buono-poliziotto cattivo” per confondere il nemico (è la tesi non inverosimile di Nicolai Lilin), ammesso e non concesso che il Presidente USA sia in grado di elaborare una strategia. Potrebbero anche voler sfruttare l’atmosfera da guerra imminente per motivare scelte impopolari e liberticide (l’emergenza Covid è stata un ottimo allenamento), mentre escludo che scorgano nella crisi l’opportunità, riarmando, di affrancarsi dal predominio americano: “machiavellizzare” questa banda di guitti significa tributarle un onore immeritato.

Residua un’ipotesi – credo – meno strampalata delle precedenti: che a istruire il leaderismo di servizio sia stato non un tronfio passante di nome Donald Trump, bensì la cupola affaristica che da generazioni signoreggia sull’Occidente e – rinnovandosi continuamente senza cambiare natura – detta alla politica le priorità da perseguire. Si ritiene (ci viene assicurato dai media) che la Russia e persino la Cina siano Paesi capitalisti: può darsi che entro certi limiti ciò sia vero, ma saremmo comunque di fronte a una diversa specie di capitalismo, che prevede un ruolo direttivo e non servente dello Stato nei confronti della (grande) iniziativa economica privata. Se questo modello “eretico” si affermasse assieme ai BRICS, le grandi entità societarie che, dipartendosi dal sedicente mondo libero, estendono i loro tentacoli sino ai confini del globo e decidono a capriccio il destino delle nazioni si troverebbero d’improvviso relegate in un ghetto periferico. L’affermazione del multipolarismo sconvolgerebbe gli equilibri di potere mondiale, ed è verosimile che la mera ipotesi di un siffatto rovesciamento atterrisca coloro che quel potere attualmente detengono. Questa cricca sovranazionale può avvalersi di un’alleanza militare offensiva, la NATO, imperniata sull’inesauribile arsenale degli Stati Uniti, che di essa sono il garante e l’emanazione politico-militare. Trump sarà pure un outsider incline ai colpi di testa, ma riveste un ruolo – e qualcuno ogni tanto deve ricordarglielo, magari uno schiavo “volenteroso” che, con accento tedesco o francese, sussurri al suo orecchio ferito: “Ricordati che sei soltanto un uomo”.

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