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poliscritture

Speranza e violenza

di Ennio Abate

Che il mondo potesse essere salvato dai ragazzini si è dimostrato impossibile. Che dopo il ‘68 potesse nascere in Italia un partito rivoluzionario come quello di Lenin è stata l’illusione delle generazioni che hanno fatto politica negli anni Settanta del Novecento. Che la riproposta della lunga marcia nelle istituzioni contenuta ne Il Sessantotto e noi di Luperini e Corlito sia sbagliata è la mia opinione che ho già argomentato.

Qui controbatto per punti alle obiezioni che Corlito ha mosso al mio Compianto sul Sessantotto https://www.poliscritture.it/2025/05/26/compianto-sul-sessantotto/

 

1. Affermi: «Come a dire che la violenza del potere borghese, che non abbiamo mai sottovalutato tanto meno ora in questa epoca di guerra, richiede inevitabilmente l’uso di un altrettanto potente uso della violenza rivoluzionaria.». Non esito a rispondere di sì. Dove si è vista mai una rivoluzione che non abbia dovuto contrapporre una violenza capace di spezzare la violenza dei dominatori?

 

2. «Non è un caso che, pur nella sua precisione esegetica, Abate non citi mai direttamente la questione cilena, che è invece centrale nelle nostre conclusioni».

Non mi sono soffermati perché davo per scontato che il caso cileno non sfugge affatto al principio storico che nessuna rivoluzione si è affermata senza violenza; e anzi ne è una incontestabile prova. Da chi ò stato sconfitto Allende? E non è stato sconfitto per non aver saputo o potuto avere a disposizione una violenza capace di sconfiggere quella degli Usa e di Pinochet, che hanno stroncato la sua “lunga marcia nelle istituzioni”?

 

3. Trascurerei «il passaggio teorico decisivo a cui [io e Luperini] dedichiamo un intero capitolo del saggio sul rapporto tra “democrazia e rivoluzione (pp. 101-108)». Non è così. Sull’importanza del «“pacifismo attivo”» che «non disarmava» non mi ero pronunciato; e ho precisato adesso che non ne nego il valore, pur non dimenticando il suo limite. Nel caso del Cile non disarmò, però non seppe fronteggiare il golpe di Pinochet. «Puntò alla mobilitazione di massa, e non escludeva come extrema ratio la difesa armata” (pp. 118-119)», Certo, ma quella extrema ratio restò teorica e il problema della costruzione di una forza militare autonoma venne, per la fiducia che Allende riponeva nell’esercito, rimandato a un futuro indefinito.

 

4. Trovo quasi offensiva questa tua affermazione sgangherata: «Gli ultimi tre paragrafi della recensione di Abate tendono in vario modo a giustificare il ricorso alla violenza e alla lotta armata, fino al punto da mettere sullo stesso piano tutte le variabili messe in campo dal movimento del ‘68 in poi. PCI, Democrazia Proletaria, Autonomia Operaia e Brigate Rosse sono tutte indistintamente state sconfitte e quindi perché fare distinzioni? “Tutti sconfitti”, scrive Abate».

Sì, ripeto: tutti sconfitti. Ma con varie responsabilità. E le responsabilità degli uni ( i “lottarmatisti”) sono quelle di aver puntato esclusivamente alla lotta armata di piccolo gruppo (anche, ma non subito, terroristico), mentre quelle degli altri (sinistra storica e nuova sinistra) vanno cercate nella cancellazione o esorcizzazione della questione della violenza. E perciò, è ingiusto da parte tua parlare di «notte in cui tutte le vacche sono nere e si vede solo buio davanti agli occhi.». O di una intenzione da parte mia di «giustificare il terrorismo, che per noi è stata una delle due ganasce della tenaglia che ha stroncato il movimento.».

Quello che non vedi o non volete vedere è che il movimento, anche senza il “terrorismo”, non sarebbe andato molto più oltre. E lo dimostra proprio il fallimento della nuova sinistra (come quello ben più grave del PCI). E’ troppo comodo scaricare la colpa delle rispettive e distinte sconfitte sui “terroristi” e non interrogarsi – (anzi escluderlo a priori) – sulla possibilità di condizionare o influenzare quell’area politica estremista che era presente nel movimento. E, ancora oggi, limitarsi a dire: «sicuramente non servirono alla causa della rivoluzione. Non mi pare che la lezione di Lenin fosse così indulgente verso i terroristi della sua epoca.». E senza neppure chiedersi e precisare da quali anni, in base a quali reazioni nei loro confronti, i “lottarmatisti” divennero “terroristi” o ci fu «il conseguente avvitamento sulla riproposizione acritica e dogmatica del modello insurrezionalista».

 

5. «Era possibile un recupero del potenziale rivoluzionario delle BR come tentarono alcuni leader di Autonomia Operaia? Direi proprio di no. Esse non erano fasciste (non lo abbiamo mai detto), probabilmente erano a rischio di essere infiltrate dai servizi segreti come tutte le organizzazioni clandestine, ma su questo non abbiamo ancora una “verità storica” accertata». E Lotta Continua non fu infiltrata? E Avanguardia Operaia non lo fu? Non lo furono o sono i partiti o i sindacati democratici? Non si capisce perché questo rischio delle infiltrazioni riguarderebbe esclusivamente le BR o le formazioni armate che sorsero in quegli anni.

 

6. Affermi «Non trovo “oscuro” ciò che avvenne, se per questo intendiamo il passaggio alla lotta armata clandestina di quale esigua frazione del movimento. Mi sembra che è scritto chiaramente nel libro: fu il frutto di un errore di valutazione della fase, che non era rivoluzionaria e quindi imponeva realisticamente di privilegiare la lotta legale su quella illegale (è ancora la lezione leninista)». Ma con lato oscuro del 68 intendevo alludere proprio all’atteggiamento ambiguo e di rimozione della violenza nella storia da parte di sinistra storica e della nuova sinistra. Voi insistete a voler indicare la ragione della sconfitta nell’uso della violenza e in particolare accusate la tradizione terzinternazionalista, che l’avrebbe teorizzata e praticata in modi da stravolgere l’idea stessa di comunismo. Sugli stravolgimenti si tratta di ragionare su analisi storiche precise. E non mi sento di sorvolarli. Ma il punto decisivo della polemica è che dalla critica a un uso terroristico (e romantico) della violenza voi passate alla neutralizzazione e messa in mora del pensiero realistico sul fenomeno della violenza nelle vicende storiche -(quello che trovo ancora vivo nelle posizioni assunte negli anni ‘70 da Fortini e da pochi altri o altre) –; e che accogliete senza più remore la scelta di muovervi esclusivamente nell’orizzonte di una lotta democratica e “pacifica”, a meno che l’avversario non scelga la via “fascista”. Solo in quel caso vi dite favorevoli alla lotta armata. Non valutando, secondo me, che di fronte alla strapotenza militare certa del nemico (e torna ancora in mente l’esperienza cilena) non si farà mai più in tempo ad approntare una resistenza in grado di affrontare la violenza repressiva dei dominatori dispiegata in tutta la sua potenza. 

 

Postilla 

Aggiungo che Il Sessantotto e noi mi ha deluso anche perché ci vedo la cancellazione di ogni ipotesi comunista, a cui finora collegavo i nomi di Corlito, Luperini e altri della rivista Allegoria, sulla quale in passato pure mi sono formato.

Io continuerò a pensare e a lavorare in quella direzione. (Si veda il resoconto che ne ho fatto in Nei dintorni di Franco Fortini, gennaio 2025).

Quanto al messaggio di speranza alle nuove generazioni, mi chiedo che tipo di speranza viene alimentata da Il Sessantotto e noi, se non tiene conto della spada di Damocle, militare e repressiva, che pesa quotidianamente sui dominati e persino la Resistenza partigiana, in Italia e in Europa viene ridotta soltanto alla «difesa anche armata della democrazia» (119).

Lo mando io pure un messaggio di speranza, ma poggiato sul riconoscimento della sconfitta del ‘68, avvenimento non più mitizzabile, e di tutta la sinistra, [1] e svincolato, però, da un pacifismo o una concezione della democrazia che chiamerei di sudditanza.

Al di là della breve e sfortunata vicenda del ’68, comunque, il rompicapo della violenza resta: e si riproporrà in ogni tentativo dei dominati di emanciparsi dai dominatori.

Sarà anche poca cosa difendere o ribadire una interpretazione realistica della violenza non inquinata da eroicismi e volontà di potenza. E sicuramente oggi questa mia testimonianza apparirà paradossale, gratuita, intempestiva, inopportuna e anacronistica a molti, specie in un momento come l’attuale, in cui la possibilità di esercitare violenza costruttiva da parte dei dominati è ridotta a zero; e, anzi, sono venute meno persino le condizioni per difendere pacificamente alcuni elementari bisogni umani.

Eppure, tenere in debito conto l’asimmetria dei rapporti di forza tra dominati e dominatori, studiare bene le circostanze concrete, usare con intelligenza e magnanimità sia la lotta pacifica che quella violenta significa non farsi ghettizzare nella risposta pacifista e non rinunciare alla lezione dell’esperienza storica comunista. E questo è un tipo di speranza che ha il vantaggio di non illudersi e non illudere.


Nota 
[1] Da un’intervista allo storico Enzo Traverso:
Quindi sì, l’emergere del post-fascismo si basa su questa crisi politica e strategica della sinistra. Ma non è solo questo. Questa crisi fa parte di un processo molto più lungo, di una sequenza di sconfitte storiche accumulate. Se guardiamo al lungo periodo, stiamo vivendo le conseguenze della chiusura di un ciclo storico, quello delle rivoluzioni del XX secolo. Si tratta di sconfitte di lungo respiro, i cui effetti continuano a condizionare il nostro presente. Le battute d’arresto del 2015 e del 2016 appartengono a una congiuntura particolare, ma allo stesso tempo si inseriscono in una tendenza strutturale, quella di una sconfitta storica dalla quale la sinistra – su scala globale – non è stata in grado di uscire con nuovi modelli.
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