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Škola kommunizma: i sindacati nel Paese dei Soviet
di Paolo Selmi
Quindicesima parte. “Ammettere i propri difetti è privilegio dei forti”: l’intervento di Tomskij al XIV Congresso del Partito Comunista di tutta l’Unione (bolscevico) PARTE V
e. Le Commissioni su tariffe e conflitti (RKK): non solo arbitrato
Le Commissioni su tariffe e conflitti… già, perché esistevano anche quelle: le RKK non erano, nonostante la funzione arbitrale di entrambe si presti ad analogie, l’equivalente dei nostri Collegi di conciliazione e arbitrato.
Anche qui, potremmo fregarcene altamente e andare avanti, che di strada da qui alla fine del periodo considerato da questa ricerca, ovvero la fine stessa dell’URSS, ce n’è ancora da fare, ma sorge sempre la stessa domanda… che senso ha, in un lavoro sui sindacati di anni, aggiornato al 2025, fatto fuori dall’orario di lavoro e da tutti gli altri impegni quotidiani, prendersi in giro ancora una volta, far finta di niente per l’ennesima volta, sempre per l’ennesima volta farsi bastare formulette e stereotipi vecchi, nella migliore delle ipotesi, di oltre mezzo secolo? Tanto valeva non affrontarlo nemmeno, se è già “tutto scritto”. Davàj, quindi, come dicono da Kaliningrad a Vladivostok: esaminiamo anche le RKK.
L’unica analogia delle RKK con i nostri Collegi è la comune vocazione all’arbitrato, ovvero alla risoluzione di contenziosi senza il ricorso al giudizio di un tribunale: per il resto, tutto cambia.
Partiamo dal nome: Rascenočno-konfliktnaja komissija. Rascenit’ (laddove la “c” è una z aspirata) viene da cena (medesima accortezza, traslitterabile come “tsena”) e vuol dire “stabilire il prezzo”, che nel caso del giovane Paese dei Soviet era ancora legato alle tariffe salariali del cottimo, più che a un salario fisso; konflikt, invece si presenta da solo. Una komissija chiamata, pertanto, a svolgere compiti ben più ampi dei licenziamenti “non per giusta causa”. Komissija figlia della NEP, figlia di quel momento storico in cui i bolscevichi capirono che, per riprendersi dalle macerie della guerra d’invasione, della guerra civile e del comunismo di guerra, la loro breve esperienza di autogestione operaia e le loro ancora scarse conoscenze in materia non sarebbero bastate, così come il semplice mettere qualche “tecnico” a guinzaglio stretto a eseguire i loro ordini: non sarebbero bastate a garantire il ripristino di quella maledetta ruota che, fino a prima della Rivoluzione, aveva macinato terra, sangue e produzione e riproduzione merce dispensando, ogni tanto, qualche briciola alla “plebe sempre all’opra china” che la faceva girare.
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La Sinistra Negata 02
Sinistra rivoluzionarla e composizione di classe in Italia (1960-1980)
a cura di Nico Maccentelli
Redazionale del nr. 18, Dicembre 1998 Anno X di Progetto Memoria, Rivista di storia dell’antagonismo sociale
Parte prima. Gli Anni Sessanta. (Seconda parte, la prima parte la trovate qui)
(Avvertenza: le note non corrispondono nella numerazione a quelle del testo originale, ma partono in ordine progressivo relativamente a questa parte)
3. PRIMI PASSI.
L’esplorazione dell’universo di fabbrica e della nuova composizione di classe inizia con l’apparizione, nel 1961, del primo numero dei “Quaderni Rossi”. L’uscita della rivista è preceduta da un’inchiesta condotta alla FIAT da alcuni membri del futuro gruppo redazionale, al fine di scoprire le cause dell’apparente passività rivendicativa regnante negli stabilimenti torinesi. «Si trattava di capire – chiariranno poi i redattori dei “Quaderni Rossi” – se questa mancanza di lotta corrispondeva a una situazione di effettiva “integrazione” degli operai nel sistema aziendale, o se esisteva una spinta di lotta che non era in grado di realizzarsi concretamente, e per quali ragioni»1.
È da notare che questa inchiesta «non si sviluppava direttamente su problemi direttamente politici, ma consisteva principalmente in un’analisi (che veniva fatta dagli intervistati attraverso le risposte al questionario) dell’organizzazione del lavoro e dei rapporti sociali (conflittuali o meno) che si sviluppavano in riferimento a essa»2. Già in queste premesse sono contenute molte delle linee di fondo della successiva esperienza del “Quaderni Rossi”. I filtri ideologici, specie di natura ottocentesca, che la sinistra adotta per organizzare in schemi politici il conflitto di classe, sono seccamente respinti. Lo strumento dell’inchiesta, condotta assieme agli stessi operai (la cosiddetta “con-ricerca”), diviene fondamentale al fine di solidificare un preciso “punto di vista operaio” dal quale l’azione politica deve necessariamente discendere.
Nel caso della FIAT questa impostazione conduce a risultati inattesi. Se “integrazione” c’è, essa riguarda gli operai di una certa età, già protagonisti delle roventi lotte degli anni ‘50 e fortemente sindacalizzati; mentre quel che connota gli operai più giovani è una crescente estraneità, potenzialmente conflittuale, all’azienda e al mito FIAT, in gran parte dovuta a procedure di lavoro spersonalizzanti.
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Škola kommunizma: i sindacati nel Paese dei Soviet
di Paolo Selmi
Quattordicesima parte. “Ammettere i propri difetti è privilegio dei forti”: l’intervento di Tomskij al XIV Congresso del Partito Comunista di tutta l’Unione (bolscevico) PARTE IV
Terminata (momentaneamente) la pars destruens, Tomskij passa alla construens e si occupa di un rapporto causa-effetto ormai dimenticato. La negligenza, la superficialità, l’opportunismo, di chi dovrebbe tutelarci, peggio ancora, rappresentarci, si combattono con la nostra partecipazione, operaia e di massa ai processi gestionali e decisionali! Per farlo, occorre coinvolgere grandi masse operaie, buona parte delle quali appena giunta in fabbrica e con in testa ancora più il paesello che la propria, nuova vita:
Per coinvolgere ampie masse operaie nel lavoro di gestione economica, oltre che nella discussione di questioni economiche, dobbiamo muoverci su due direttrici. La prima è portare la discussione dei contratti collettivi proprio dove sta chi di tali contratti è parte, ovvero nel cui nome tali contratti sono stipulati. A siglare il contratto collettivo siamo in due:
il dirigente, che si assume la responsabilità di dire, “prometto di pagare questo e questo, di non modificare le condizioni di lavoro, né tantomeno peggiorarle nel corso del tempo”
il sindacato che, nel firmare il contratto collettivo, si assume la responsabilità e promette che i suoi iscritti lavorino per tutta la validità del contratto in un certo modo, a certe condizioni, senza provare a cambiarle in tale lasso di tempo.1
Ripartiamo dall’ABC, invita i suoi Tomskij, dal chi siamo e cosa dobbiamo saper fare, e bene, senza strafare, senza snaturarci; ripartiamo anche da per cosa lottiamo, qual è il nostro scopo. Altro che “cinghia di trasmissione”, verrebbe da dire.
Dobbiamo “coinvolgere ampie masse operaie nel lavoro di gestione economica, oltre che nella discussione di questioni economiche”. “Lavoro di gestione economica” (хозяйственно-экономическая работа) è già un termine che, di per sé, illustra bene le due sfere dell’economia (l’aggettivo composto, infatti, comprende sia il termine slavo che quello greco, per cui un traduttore automatico va in tilt e traduce “economico-economico”...): la chozjajstvo, che non è solo “economia” o “azienda”, o “casa” (da cui il calco linguistico dal greco che segue) ma, nella forma verbale chozjastvovat’ padroneggiare, gestire. Che cosa? L’economia.
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Škola kommunizma: i sindacati nel Paese dei Soviet
di Paolo Selmi
Tredicesima parte. “Ammettere i propri difetti è privilegio dei forti”: l’intervento di Tomskij al XIV Congresso del Partito Comunista di tutta l’Unione (bolscevico) PARTE III
d. La critica al lavoro sindacale
Riprendiamo la relazione fiume di Tomskj da dove ci siamo lasciati. Già nei primi punti toccati, appare in modo estremamente chiaro come egli attacchi coerentemente, rispetto al proprio punto di vista, ogni approccio di tipo superficiale, approssimativo, stereotipato, alla questione del lavoro sindacale.
Prosegue quindi sulla stessa falsariga, criticando la troppa condiscendenza rispetto agli sprechi e agli scarti, ancora troppo alti e del cui problema il sindacato deve farsi carico, per rendere gli operai sempre più coscienti della loro importanza nel processo produttivo e non solo: infatti, BEN PIÙ A MONTE, occorre renderli anzitutto consapevoli che, in un’azienda socializzata, i mezzi di produzione sono loro e quelli che stanno buttando via son soldi loro. Prosegue quindi specificando quale dovesse essere, compiutamente, il lavoro economico dei sindacati, che ricorda essere “la questione più importante”:
Mi permetto di soffermarmi sulla questione più importante dell’attività sindacale, ovvero il suo lavoro economico, questione su cui qualche sindacalista nutre ancora dei dubbi. Qualcuno ha provato, infatti, di fronte al nostro mettere davanti a tutti gli altri compiti dei sindacati proprio quello di essere l’organismo di difesa degli interessi economici dei lavoratori, anche nelle imprese statali, ed esigere dai sindacati che non si dimenticassero neppure un minuto di questo loro, più importante, compito, a rappresentarci quasi come promotori di una terza linea, tredunionistica… gli stessi che peraltro, allo stesso tempo, dicono ai sindacati: “della vostra partecipazione alla produzione noi ce ne freghiamo”. Il perché rappresentino il lavoro dei profsojuz in questa maniera ci è ignoto, eppure molti parlano così.
Penso che qualsiasi persona che si sia trovata a parlare davanti a operai, in fabbrica o stabilimento, e che conosca la vita di fabbrica e di stabilimento, non potrà negare che, da qualche parte (кое-где), esista la cosiddetta “triplice”, ovvero il blocco direzione-partito-sindacati, laddove i sindacati si muovono all’unisono con la direzione e declamano: “Qui va tutto alla grande, qui c’è il fronte unito”.
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Škola kommunizma: i sindacati nel Paese dei Soviet
di Paolo Selmi
Dodicesima parte. “Ammettere i propri difetti è privilegio dei forti”: l’intervento di Tomskij al XIV Congresso del Partito Comunista di tutta l’Unione (bolscevico) parte II
b. Sul giustificare problemi reali con motivazioni stereotipate
Abbiamo lasciato Tomskij carico come una molla, contro non tanto GLI ERRORI, ma L’ATTEGGIAMENTO, L’APPROCCIO AI PROBLEMI dei propri compagni: in particolar modo, di alcuni che per nascondere le proprie magagne cercavano il “nemico interno”.
Con chi ce l’aveva ora?Occorre entrare un attimo nel vivo delle polemiche sorte durante e attorno quel Congresso, con il ruolo della NEP nelle campagne a fare da piatto forte. Il kulak, il contadino arricchito, era divenuto nelle campagne l’equivalente del nepman cittadino. Sembra strano parlare oggi di questo, anzi, come dicono in gergo, “FA strano”, tirare in ballo ancora una volta la lotta di classe: specialmente, quando a livello mondiale il gruppo di Paesi se-dicenti socialisti è guidato dal turbocapitalismo con caratteristiche cinesi; e lì l’armonia confuciana he 和DEVE regnare, al pari e come nel vicino se-dicente capitalistico Giappone. Va bene tutto, finché non si pestano i piedi a chi non si devono pestare… QUI NO. Immaginiamoci noi fra il Sessantotto e il Settantotto, così forse ci capiamo. Del resto, abbiam già constatato come qui bastasse molto, ma molto meno per sollevare vespai NON INDIFFERENTI, e NON SOLO IDEOLOGICI.
A differenza, INFATTI, del nostro decennio Sessantotto – Settantotto, la situazione socioeconomica era completamente DIVERSA. Non si era in BOOM economico, ma SI LAVORAVA ANCORA FRA LE MACERIE FUMANTI.
E IN QUEL CLIMA SI PARLAVA DI “NEP”! IL KULAK TORNAVA IN GICO, IL PADRONE, IL NEPMAN, SCENDEVA IN CAMPO! CE N’ERA DI BEN DONDE, PER INCAZZARSI.
Tornando alle campagne, un bracciante non aveva combattuto fino a pochi anni prima, patito fame e freddo, visto i propri compagni morti ammazzati, per poi lasciare che un altro contadino particolarmente dritto, “scarpe grosse e cervello fino” prendesse il posto del pomeščik a sfruttare lui e i suoi ex-compagni, prendendo il posto di quel proprietario terriero, a cui – e al carissimo prezzo di cui sopra! – si era riusciti a confiscare le terre e a redistribuirle!
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La Sinistra Negata 01
Sinistra rivoluzionarla e composizione di classe in Italia (1960-1980)
A cura di Nico Maccentelli
Redazionale del nr. 18, Dicembre 1998 Anno X di Progetto Memoria, Rivista di storia dell’antagonismo sociale
Introduzione all'opera
Il senso di questa pubblicazione, per la rubrica Altroquando, non è altro che quello che ha animato Carmilla sin dai suoi esordi: ravvivare la memoria storica attraverso la letteratura di genere, ma anche con l’analisi e il ripercorrere i passaggi storici e politici di un’epoca che sembra ormai sepolta: quella dell’antagonismo sociale e della lotta politica rivoluzionaria di fine secolo. Ovviamente potete trovare questo contributo che ora mi accingo a introdurvi, insieme a tutti i numeri della rivista Progetto Memoria, di cui La Sinistra Negata rappresenta un po’ il canto del cigno. E per scaricare l’intera raccolta in pdf dovete andare qui1. Il fatto però di pubblicare La Sinistra Negata, significa riportare al pubblico, alla sua attenzione, un contributo d’analisi ancora molto attuale, ma anche molto utile per la comprensione delle fasi politiche a cui fa riferimento: un lasso di tempo che va da Piazza Statuto, anni ’60 fino almomento in cui usciva l’ultimo numero di Progetto Memoria. Infatti dal 1960 al 1980 è un refuso poiché non comprende anche tutta la fase successiva, che invece nel saggio viene analizzata. Ma andiamo con ordine.
Un po’ di storiografia
Nel dicembre del 1998 usciva l’ultimo numero di una rivista bolognese, Progetto Memoria, che è stata di fatto la madre politica e culturale di Carmilla e che ha accompagnato la nostra rivista di letteratura antagonista e cultura d’opposizione per alcuni anni.
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Quei ‘sovversivi’ degli anni Settanta
di Lelio Demichelis
Cosa significa sovversivo e cosa e chi è davvero sovversivo? Certo è un concetto scivoloso, contraddittorio, soprattutto pericoloso. Ma anche chiarissimo.
Libertà, diritti dell’uomo (in tutte le declinazioni possibili), autonomia, autogoverno, anticapitalismo, uguaglianza, emancipazione e liberazione, pensiero critico, responsabilità verso la Terra e gli altri, solidarietà, immaginazione, utopia, resistenza anche passiva (e quindi non solo quella che celebriamo ogni 25 aprile), empatia, solidarietà, sciopero, lotta di classe, persino democrazia sono concetti e principi considerati spesso e sempre più sovversivi – per tacere di rivoluzione. Sovversivi ovviamente per chi associa a sovversione la distruzione dell’ordine dato, o una minaccia ai propri interessi e privilegi, al proprio potere – come Trump che manda i marines a combattere quelli che considera i sovversivi criminali di Los Angeles che protestano contro le disumane deportazioni in massa dei migranti e quindi contro le sue politiche autocratiche e fasciste. Ma sovversive anche per quei molti che preferiscono fuggire dalla libertà (e rimandiamo a Erich Fromm) e dalla fatica di pensare con la propria testa (e rimandiamo a Kant) e cercano/invocano qualcuno (oggi un populista/sovranista, un neo-fascista/tecno-fascista o un tecnocrate o una app o l’intelligenza artificiale o un coach o un influencer) che pensi e decida e agisca per loro, tanto basta pagare, perché la minorità (come la rassegnazione) è comoda e non crea problemi.
Ma sovversivo ha – etimologicamente – anche un senso positivo di alterare/rimuovere qualcosa di sbagliato, ovvero: sovvertire illibertà, ingiustizia, eteronomia, sfruttamento, ecocidio dovrebbe essere un principio e un imperativo umano e politico di indubitabile e universale potenza etica e morale. E quindi – in questo senso appunto positivo e trasformativo – sovversivo è stato certamente Socrate; sovversivi sono stati Gandhi e Martin Luther King e prima di loro Marx, e poi la Scuola di Francoforte – arrivando (elenco molto parziale) a Greta Thunberg e agli scienziati del clima che ci allarmano sulla devastazione ambientale che il sistema tecno-capitalista e tutti noi con esso stiamo producendo e che ci chiedono quindi di cambiare radicalmente il modello economico.
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Škola kommunizma: i sindacati nel Paese dei Soviet
di Paolo Selmi
Undicesima parte. “Ammettere i propri difetti è privilegio dei forti”: l’intervento di Tomskij al XIV Congresso del Partito Comunista di tutta l’Unione (bolscevico) parte I
La NEP è anche un periodo in cui emergono, in modo particolarmente rilevante, questioni e problemi a ogni livello, dal più superficiale e risolvibile con cambi di mansione o correzione di singoli comportamenti, a quello più profondo e strutturale, irrisolvibile senza modifiche sostanziali, ovvero altrettanto strutturali, al modo di produzione stesso.
Un modo di produzione ibrido non è destinato a durare a lungo: su questo concorda l’attuale storiografia incentrata sull’esperienza sovietica, prevalentemente autoctona (anche perché fuori dal perimetro russo han preso l’argomento, preparato la colata di cemento e chiuso tutto nella prima cassaforma a disposizione), ivi compresa la sua maggior parte revisionistica:
Parliamo, nella fattispecie, di quella storiografia russa démodé, figlia della restaurazione capitalistica di fine secolo, che declina alla sua maniera l’accademismo liberale-liberista-libertario di inizio anni Novanta e che tutt’ora campa nelle sue università e “fondazioni” eterofinanziate (e con marcato accento anglofono).
Parliamo però anche di una storiografia più recente, più à la page che, pur non disdegnando quanto fatto dalla “gestione precedente”, a partire dal Nobel con la voglia sulla pelata fino all’ubriacone che finì il lavoro sporco, è tuttavia nostalgica dei bei tempi andati, più che altro in termini di prestigio e potenza internazionali.
Entrambe queste storiografie, sulla falsariga della “libertà” o dell’esperienza cinese, periodicamente convergono su come sarebbe potuta essere la propria NEP se avesse vinto Bucharin, magari passando direttamente da Bucharin a Soros, nel primo caso, o da Bucharin a Putin, nel secondo, senza passare dal via del socialismo realizzato1. Di fatto, auspicando una transizione al capitalismo, e poco conta se oligarchico e transnazionale o capitalistico di Stato, che sarebbe dovuto essere la morte naturale della NEP, anziché e al posto dell’instaurazione della proprietà interamente sociale dei mezzi di produzione e della conduzione pianificata degli stessi. Come diceva un sensei nippo-statunitense in un film d’altri tempi, non si può camminare a lungo in mezzo alla strada. O di qua, o di là.
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7 luglio 1960-7 LUGLIO 2025, Morti di Reggio Emilia. La Repubblica delle nostalgie
di Fulvio Grimaldi
…Di nuovo a Reggio Emilia
Di nuovo là in Sicilia
Sono morti dei compagni per mano dei fascisti
Di nuovo come un tempo
Sopra l’Italia intera
Fischia il vento e infuria la bufera…
Sono morti sui vent’anni
Per il nostro domani
Son morti come vecchi partigiani
Lunedì sera, 7 luglio, a Reggio Emilia, riuniti dalla Costituente contro la Guerra e il Riarmo, da tutte le realtà antifasciste e resistenziali, abbiamo ricordato quanto lo Stato, già allora di Polizia, aveva commesso in termini di violenza sulla vita e sulla coscienza civile democratica.
1960, 7 luglio, Reggio Emilia, 5 lavoratori, che manifestavano pacificamente, sono trucidati da forze dell’ordine, nei secoli fedeli al potere e, in questo caso al governo Tambroni, il primo dalla liberazione e dalla Costituzione antifascista che si regge grazie ai fascisti in maggioranza. Nessun potere atlantico lo disturba. Solo operai e contadini. Il Potere Atlantico interverrà solo per rimuovere Aldo Moro, uomo dell’unità nazionale. Per il resto, tutto a posto. Grazie a Gladio, Anello, P2, Servizi, mafie, governanti obbedienti e, ora, di nuovo fascisti.
1960, 5 luglio, Licata, le forze dell'ordine reprimono nel sangue una manifestazione unitaria di braccianti e operai, sparando contro il corteo guidato dal sindaco Dc Castelli. Ci sarà un morto, Vincenzo Napoli, la prima vittima del "luglio della memoria".
1968, 2 dicembre, Avola, Sicilia, due braccianti, Angelo Sigona e Giuseppe Scibilia, vengono uccisi durante uno sciopero di braccianti, e altri 48 rimangono feriti, in seguito all’uso delle armi da fuoco da parte delle forze dell'ordine
28 dicembre, Reggio Emilia, i fratelli Cervi, 7, partigiani, fucilati dai repubblichini.
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Škola kommunizma: i sindacati nel Paese dei Soviet
di Paolo Selmi
Decima parte. I profsojuz durante la NEP: il settore socializzato (parte II)
Ci eravamo lasciati con Vladimir Il’ič, ripartiamo da lui. Guarda caso subito dopo aver rimesso i paletti tolti in tempo di guerra civile e comunismo di guerra, parla del diritto di sciopero nelle aziende nazionalizzate. Il suo è un capolavoro di EQUILIBRIO tra dovere di rappresentanza sindacale e senso di responsabilità nei confronti della nuova collettività di cui si fa parte, lo Stato degli operai e dei contadini:
Finché ci saranno le CLASSI, la LOTTA DI CLASSE sarà inevitabile. L’esistenza stessa delle classi sarà inevitabile, nel periodo di TRANSIZIONE dal capitalismo al socialismo, e il programma del PCR afferma in modo inequivocabile che noi siamo solo AI PRIMI PASSI DI QUESTA TRANSIZIONE.
Per questo sia il partito comunista, sia i soviet, così come i sindacati, devono riconoscere apertamente l’esistenza della lotta di classe e la sua inevitabilità, almeno fino a quando, fosse anche solo nelle sue linee fondamentali, non sarà completata l’elettrificazione dell’industria e dell’agricoltura e, con essa, saranno completamente sradicati (подрезаны все корни) gli interi comparti della piccola imprenditoria e del commercio. Da ciò discende che, allo stato attuale, NON POSSIAMO IN ALCUN MODO ESIMERCI DAL LOTTARE SCIOPERANDO, e NEPPURE CONSENTIRE LA PROMULGAZIONE DI UNA LEGGE che LO SOSTITUISCA OBBLIGATORIAMENTE con un TAVOLO DI MEDIAZIONE STATALE.
D’altro canto, è evidente che l’obbiettivo finale della lotta tramite sciopero nel capitalismo è la distruzione dell’apparato statale e il rovesciamento di quel potere statale in mano alla borghesia. IN UNO STATO PROLETARIO DI TRANSIZIONE come il nostro, invece, L’OBBIETTIVO FINALE DELLA LOTTA TRAMITE SCIOPERO non può che essere il RAFFORZAMENTO DELLO STATO PROLETARIO ovvero DEL POTERE STATALE IN MANO AL PROLETARIATO, per mezzo di una LOTTA SERRATA CONTRO LE DISTORSIONI BUROCRATICHE DI TALE STATO, CONTRO I SUOI ERRORI, LE SUE DEBOLEZZE, GLI APPETITI DI CLASSE DEI CAPITALISTI CHE SFUGGONO AL SUO CONTROLLO, ECCETERA1.
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Škola kommunizma: i sindacati nel Paese dei Soviet
di Paolo Selmi
Nona parte. I profsojuz durante la NEP: il settore socializzato (parte I)
Torniamo ai nostri profsojuz e alla loro duplice funzione in questa fase. Oltre a far venire i sorci verdi al nepman NEL SETTORE PRIVATO, erano presenti anche NEL SETTORE PUBBLICO per con un ruolo decisamente più attivo.
Aziende, quelle socializzate negli anni precedenti, che volenti o nolenti erano coinvolte in un altro tipico frutto della NEP: il cosiddetto “calcolo economico” (chozjajsvtennyj razčët da cui la contrazione chozrazčët хозразчёт), che non è solo “bilancio” e basta, ma tutto ciò che a esso concerneva, in un’ottica di crescente “autonomia finanziaria”: ciascuna unità produttiva, piccola o grande che fosse, doveva essere in grado di stare in piedi da sola, dovendo progressivamente fare a meno di sovvenzioni, aiuti economici esterni e, per farlo, doveva avere anzi tutto un bilancio non in perdita e, prima ancora... un bilancio fatto come si deve.
A tutto questo, però, si arrivò PER GRADI e NON SENZA CONFLITTO FRA LE PARTI. Il passaggio delle aziende allo chozrazčët, all’autonomia di bilancio, mise tutti di fronte a un guado, al classico “Hic Rhodus, hic salta!”, profsojuz compresi. Uno dei primi passaggi critici fu proprio LO STESSO ENTRARE in questa nuova visione, ovvero di-visione dei compiti.
SI PROVENIVA DA UN COMUNISMO DI GUERRA, QUINDI EMERGENZIALE dove l’importante era
- restare in piedi, non importa come
- regolare conti in qualsiasi maniera, in natura, in soldi, sulla parola, bastava raggiungere l’obbiettivo primario di cui sopra;
- che quei pochi rimasti in fabbrica (ovvero non deceduti, ovvero non impegnati al fronte, ovvero non tornati nelle campagne... dove un po’ di boršč lo si rimediava sempre e si faceva meno fame che nelle città), fossero in grado di “fare tutto” (e lo facessero poi per davvero! ARRANGIANDOSI, nel bene o nel male… ma lo facessero!).
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Škola kommunizma: i sindacati nel Paese dei Soviet
di Paolo Selmi
Ottava parte. I profsojuz durante la NEP: il settore privato
Gli anni che seguirono videro il sindacato schierato su nuovi fronti. La NEP aveva abolito le requisizioni ai contadini, introdotto la tassa in natura e permesso nuovamente il commercio privato, con conseguente ripristino di un’economia monetaria, insieme al reingresso in economia sia del capitale privato nazionale, incarnato nella figura del nuovo borghese, il nepman, che di quello straniero.
In tale contesto il graduale, progressivo, ripristino di un’economia sofferente in tutti i suoi settori e affamata di investimenti, si collocavano all’interno di un modo di produzione sostanzialmente capitalistico, seppur “di Stato” e fortemente orientato dalla volontà politica del partito comunista di dirigere, indirizzare, condizionare l’andamento socio-economico con tutti i mezzi e le proprie capacità di azione e mobilitazione (SOPRATTUTTO la LOTTA DI CLASSE, per esempio completamente assente nel capitalismo con caratteristiche cinesi, a cui spesso questo periodo si accosta per analogia), lungo l’asse di una transizione e trasformazione continue, orientate a gettare le basi e far crescere sino ad allora i germogli di quel modo socialistico di produzione da esso auspicata.
E in un modo capitalistico di produzione, in un modo dove si riapriva alla possibilità di investire sia da parte del capitale privato, il nepman, che di quello straniero, anche la DIALETTICA CAPITALE-LAVORO, che come abbiam visto nel corso della Guerra civile e del Comunismo di guerra a qualcuno era parsa un termine ormai superato, anacronistico, tornava ora in auge.
Contestualmente a tale “ritorno”, anche la lotta di classe e, al suo interno, la questione salariale, assumevano di nuovo una sempre maggiore importanza: in tale quadro, anche i profsojuz tornavano a giocare NON SOLO un ruolo economico chiave, in quanto luogo deputato alla definizione e risoluzione di dinamiche contrattuali e rivendicazioni salariali, MA ANCHE un ruolo politico estremamente importante, mantenendo quella funzione mobilitante, costruttiva, NON SEMPLICEMENTE TRADUNIONISTICA, bensì ORIENTATA, MEGLIO, PROIETTATA VERSO LA COSTRUZIONE DEI PRESUPPOSTI (sia in termini di dotazione di risorse, che di costruzione di competenze) PER LA TRANSIZIONE AL MODO SOCIALISTICO DI PRODUZIONE.
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Adriano Prosperi, Cambiare la storia
di Gabriele Talami
Adriano Prosperi, Cambiare la storia. Falsi, apocrifi, complotti, Torino, Einaudi, 2025
Adriano Prosperi, storico italiano di formazione modernista, nel suo ultimo saggio Cambiare la storia, edito da Einaudi, affronta gli aspetti principali relativi all’arte di falsificare la storia. In questo viaggio attraverso varie epoche l’autore accompagna il lettore indagando gli aspetti, i contesti e le motivazioni che portano alla nascita di un falso storico. Nella breve premessa sono attenzionati alcuni aspetti della cancel culture, una tendenza sorta negli ultimi anni e approfondita in particolare dagli storici di World History. Secondo Prosperi questa visione, sulla carta tesa a migliorare la storia umana epurandola da violenze passate e personaggi sgraditi, oltre a semplificare la realtà ha di fatto trasformato il ruolo dello storico in quello di giudice. Se, come sosteneva già Aristotele, il passato non può essere modificato, è un’operazione mentale contorta e rischiosa giudicare il passato con gli occhi del presente.
Figure del calibro di Cristoforo Colombo e Winston Churchill hanno compiuto quelle che noi, in base alle nostre sensibilità odierne in materia di parità e diritti, senza alcun dubbio riteniamo essere atti razzisti e nefasti. Questa forma mentis conduce inevitabilmente alla cosiddetta “civiltà di vergogna” che, ignorando il dato storico, vuole colpevolizzare l’Occidente cercando di relegare all’oblio le tracce meno nobili del suo passato. Nel primo capitolo di Cambiare la storia Prosperi affronta quello che è ritenuto universalmente il falso di maggior successo e durata nella storia, ovvero la donazione di Costantino. Secondo quanto affermato dal documento, nel 315 d.C. l’Imperatore Romano Costantino, guarito dalla lebbra in seguito al battesimo cristiano elargito da parte di Papa Silvestro I, avrebbe in segno di riconoscenza donato al vescovo di Roma la parte occidentale dell’Impero.
Questo dono fece seguito alla conversione di Costantino nel 312 d.C., in un periodo in cui solo una parte minoritaria degli abitanti dell’impero era di fede cristiana. Se come affermava Paul Veyne l’audace conversione dell’imperatore fu un avvenimento decisivo in grado di spostare il baricentro della storia mondiale, la falsa donazione ebbe un peso considerevole nell’espansione territoriale e nel potere temporale della Chiesa.
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Škola kommunizma: i sindacati nel Paese dei Soviet
di Paolo Selmi
Settima parte. Idee di transizione (e di profsojuz) a confronto: il dibattito sui sindacati
Quella propugnata da Lenin non era l’unica concezione di sindacato, all’interno del variegato e vivace mondo bolscevico di allora. Vale la pena rammentarlo, se non altro perché già all’epoca notiamo non tanto una diversità di progetto rivoluzionario, su cui peraltro si spesero in passato fiumi di inchiostro (e di rispettivi, a ben vedere poco “rivoluzionari”, mali di fegato e polemiche assortite), quanto di MUTAZIONE DEL RUOLO STESSO DEL SINDACATO IN FUNZIONE DEL PROGETTO RIVOLUZIONARIO CONSIDERATO.
PRESTIAMO ATTENZIONE A QUESTO PASSAGGIO, PERCHÉ È MOLTO, MA MOLTO ATTUALE. Alla luce del fatto che oggi, 2025, non esiste alcun “progetto rivoluzionario”, all’interno di una ancorché minima “teoria della transizione” al socialismo.
“Le nozze non si fanno coi fichi secchi”, recita un antico adagio popolare, preso a scusa da chi avrebbe continuato (e qualcuno di questi “difensori” continua tutt’ora!) a guardare alle “condizioni oggettive” che rendevano “storicamente necessari” venti, trenta, quarant’anni di NEP (ma volendo anche un secolo intero!) durante il quale un MODO CAPITALISTICO di produzione impiegato in maniera STATALISTICA E DIRIGISTICA avrebbe portato un Paese a essere la prima potenza industriale al mondo… “MA NON ANCORA PRONTO PER LA TRANSIZIONE AL SOCIALISMO” (Marx scriveva Gotha un secolo e mezzo fa… ma pazienza… era un “profeta”).
Questa è stata l’excusatio non petita che, storicamente, e a partire dai partiti comunisti ancora al potere, si sollevò all’epoca. Nessuno, dopo Tian’an men, disse più nulla. Ed è da oltre trent’anni che “non importa che il gatto sia nero o bianco, se acchiappa i topi è un bravo gatto” (不管黑猫白猫,捉到老鼠就是好猫)1. N’est-ce pas?
Oltremuraglia, peggio che andar di notte. Caduto infatti il Muro, caduta l’URSS… “ANDAVA BENE COSÌ”, GATTI BIANCHI, GATTI NERI, TOPI, ANDAVA BENE TUTTO, CARA GRAZIA CHE C’ERA ANCORA QUALCOSA CHE SI MUOVEVA, che non tutto era perduto…
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Škola kommunizma: i sindacati nel Paese dei Soviet
di Paolo Selmi
Sesta parte. I profsojuz durante la guerra civile
L’inasprimento ulteriore del conflitto portò all’azione congiunta delle classi spodestate e degli imperialisti stranieri, ovvero dell’esercito dei “bianchi” e di quelli stranieri, fino alla guerra civile dei primi e all’invasione imperialistica dei secondi.
Tutto questo non poteva non ripercuotersi anche sulla politica economica del giovanissimo governo dei Soviet: la nazionalizzazione di grande industria, banche e infrastrutture fu il passo logico successivo.
In tale contesto, i profsojuz furono costretti a cambiare nuovamente obbiettivi e strategie:
- da un lato, la lotta per il controllo operaio sulla produzione DIVENNE la lotta
1. per l’OCCUPAZIONE FISICA delle fabbriche e
2. per la DIFESA ANCHE ARMATA DEL POSTO DI LAVORO;
- dall’altro, la nazionalizzazione della grande industria portò a un’ULTERIORE RIDEFINIZIONE DI RUOLO E MANSIONI del sindacato in quei luoghi, dal momento che lì la controparte era sparita, non c’erano più i padroni.
Quanto appena affermato si ripercosse sull’aumento dell’autogestione operaia: nel 1920, il 63,5% delle industrie del Paese dei Soviet era a completa direzione operaia1.
In particolare, il 100% di gestione operaia si aveva nel settore dei trasporti, dove i profsojuz furono incaricati della gestione e risoluzione di un problema di cruciale importanza, nonché estremamente complesso: approvvigionamento materiale e rifornimento su più versanti, dalle campagne alle città e viceversa, dalla produzione ai fronti militari e viceversa.
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