Fai una donazione

Questo sito è autofinanziato. L'aumento dei costi ci costringe a chiedere un piccolo aiuto ai lettori. CHI NON HA O NON VUOLE USARE UNA CARTA DI CREDITO può comunque cliccare su "donate" e nella pagina successiva è presente (in alto) l'IBAN per un bonifico diretto________________________________

Amount
Print Friendly, PDF & Email
Print Friendly, PDF & Email

marxismoggi

Il processo Stalin. L’ultimo libro di Ruggero Giacomini

di Salvatore Tinè

stalin8764Il libro di Ruggero Giacomini Il processo Stalin (Castelvecchi, 2019) costituisce un importante contributo ad una riflessione critica sul ruolo e le stesse responsabilità personali di Stalin in alcuni dei momenti insieme più drammatici e controversi della storia dell’URSS degli anni ’30 e ’40. La prospettiva da cui tale riflessione viene sviluppata si differenzia infatti radicalmente da un’ottica puramente e aprioristicamente demonizzante o criminalizzatrice della figura di Stalin, favorendo piuttosto una valutazione critica di essa non solo più oggettiva e fondata sulla documentazione storica oggi disponibile ma anche più attenta alla straordinaria complessità e contraddittorietà degli oggettivi processi storici in cui la direzione politica del dirigente comunista si dispiegò lungo quei due terribili decenni.

La serrata critica condotta da Giacomini di quel vero e proprio “processo a Stalin” post mortem, che Kruscev tentò di costruire nel suo celebre “rapporto segreto” al XX Congresso del PCUS nel febbraio del 1956, delle sue contraddizioni e delle sue stesse falsificazioni, mira in questo senso a collocare la personalità e l’opera di Stalin non solo nel contesto del più generale processo di edificazione del socialismo in Urss e delle lotte di classe che lo scandiscono drammaticamente ma anche nel quadro internazionale, insieme europeo e mondiale, segnato già nel corso dei primissimi anni ’30. dalla prospettiva, avvertita dal gruppo dirigente sovietico come ormai incombente, della guerra.

Print Friendly, PDF & Email

la citta futura

Cinquant’anni di impunità per strage di Stato

di Carla Filosa

Prima di Piazza Fontana gli eccidi dei lavoratori erano stati normalizzati nella dinamica delle lotte di classe tollerate dal sistema, dopo lo Stato si assunse in prima persona il ruolo di garante dei profitti, scoraggiando attraverso le stragi ogni possibile rivendicazione

01clttttttttttttttttttttttttttttttttttIn seguito all’attentato del 12 dicembre 1969 alla Banca dell’Agricoltura a Milano, dal giorno successivo al 13 maggio 1970, fu elaborata da militanti della sinistra extraparlamentare una controinchiesta che uscì in un libro intitolato La strage di stato, Samonà e Savelli (La Nuova sinistra), Perugia 1970, dedicato a Giuseppe Pinelli, ferroviere e a Ottorino Pesce, magistrato. Alla quarta edizione nel ’70 ne erano state vendute già 60.000 copie. Per chi non c’era e/o non sa, Pinelli, in quanto anarchico, fu “suicidato” dal quarto piano d’una questura milanese intorno alla mezzanotte del 15 dicembre 1969, e Pesce morì d’infarto poco dopo, il 6 gennaio 1970, in seguito al linciaggio della stampa “indipendente” unita all’invito alla prudenza e al tatticismo dei suoi colleghi “progressisti”. Aveva infatti dichiarato pubblicamente che la giustizia italiana è una giustizia di classe, di fronte allo spettacolo della caccia all’anarchico e al maoista, operata dalla sinistra istituzionalizzata di allora.

Intanto, sin dal 3 gennaio 1969 l’Italia era già stata dilaniata da “145 attentati – come si riferisce nel libro citato – dodici al mese, uno ogni tre giorni, e la stima forse è per difetto”. La “strategia della tensione” venne così elaborata per mettere a punto un colpo di Stato reazionario da realizzarsi, se necessario, con l’intervento dell’esercito. Dato che non si era in America Latina, non fu necessario. Nonostante la maggior parte di queste bombe fosse stata riconosciuta di marca fascista, fu inventato un capro espiatorio anarchico, Pietro Valpreda, e vennero accusati “i rossi”, chiamati poi “massimalisti impotenti” dagli spalti di un Pci subito pronto a smarcarsi da eventuali sospetti di connivenza.

Print Friendly, PDF & Email

operaviva

Le lotte operaie degli anni Settanta

di Sergio Bologna

Sabato 23 novembre, ore 11.00, al Macro Sergio Bologna terrà una lectio magistralis dal titolo Da Mirafiori alle Happy Hours. Il declino del conflitto e la sua necessità. A seguire una assemblea di discussione (con Peppe Allegri, Giso Amendola, Ilaria Bussoni, Papi Bronzini, Amedeo Ciaccheri, Ilenia Caleo, Roberto Ciccarelli, Elena Doria, Giovanna Ferrara, Dario Gentili, Roberto Giuliani, Gianfranco Guidi, Maria Rosaria Marella, Andrea Masala, Nicolas Martino, Cosimo D. Matteucci, Enrico Parisio, Rachele Serino, Stefano Simoncini, Serena Soccio, Giulio Stumpo, Lorenzo Teodonio, Viviana Vacca, Elvira Vannini). Per l’occasione pubblichiamo un estratto dal libro Il lungo autunno caldo, pubblicato dalla Fondazione Feltrinelli, gratuitamente scaricabile in versione e-book dal sito della Fondazione stessa

Claire Fontaine Untitled Thank you 2004 800x750Dopo l’autunno caldo: le condizioni di lavoro in fabbrica

È opportuno seguire il filone della soggettività operaia, per capire meglio quel che succede in fabbrica dopo l’autunno caldo, la costituzione dei Consigli e l’elezione dei delegati. Con tutti i suoi limiti, era in atto una rivoluzione nella mentalità della massa operaia, che seguiva un suo percorso indipendente dalle strategie sindacali. Coglierne le caratteristiche richiede un’indagine a livello di base. Nel 1972 la Fiom lancia un’inchiesta tra i delegati, pubblicata nel ’74 con prefazione di Bruno Trentin. Che bilancio traggono i delegati dei primi due anni successivi all’autunno caldo?

Nella Prefazione, Trentin non usa mezzi termini: “Non siamo quindi solo di fronte alla crisi del padronato e dell’imprenditorialità italiani, ma a tutta una crisi politica, alla volontà o all’incapacità politiche di non tentare almeno un confronto [il corsivo è mio, N.d.A.] e un rapporto nuovo, che non sia quello subordinato, coi lavoratori e col movimento operaio”.

Sarà il leitmotiv del sindacato negli anni successivi: la controparte non vuole prendere atto del cambiamento dei rapporti di forza. Per gli operai intervistati l’unico cambiamento sta nel minore potere dei capi. Il punto dolente è invece rappresentato dalle condizioni ambientali.

Print Friendly, PDF & Email

limes

‘La nostra vita all’ombra delle stelle e strisce’

A. Aresu e L. Caracciolo intervistano Pietro Craveri

Il Pazzo mondo a stelle e strisceLIMESLa Prima Repubblica nasce e muore con la guerra fredda. In quella fase, l’Italia è un semiprotettorato americano. Condivide questo giudizio?

CRAVERI Francesco Cossiga è stato il primo a formulare il giudizio di un’Italia «semiservente». Un giudizio radicale giunto alla fine della guerra fredda come contraccolpo alla situazione interna, politicamente sempre più debole. È difficile non condividerlo. Nel corso della Prima Repubblica, dal 1946 al 1992 l’Italia è parte integrante della sfera d’influenza americana, cercando tuttavia di ritagliarsi i suoi spazi, di difendere i suoi interessi. Talvolta con successo.

 

LIMES L’Italia esce dalla seconda guerra mondiale sconfitta e umiliata. La sua costituzione geopolitica è il trattato di pace del 1947, che sancisce la catastrofe, malgrado la retorica pubblica che ci vorrebbe riscattati agli occhi dei vincitori dalla Resistenza.

CRAVERI Infatti il problema di Alcide De Gasperi e del suo ministro degli Esteri Carlo Sforza è mitigare le conseguenze del trattato di pace, che segna la condizione geopolitica di partenza della Prima Repubblica. Al Congresso di Parigi del 1946, De Gasperi riesce a chiudere solo la questione altoatesina, perché aiutato dal ministro degli Esteri sovietico Molotov. I sovietici avevano problemi in Austria, dove si trovavano di fronte un governo filo-occidentale. Su tutti gli altri fronti, nel dopoguerra immediato l’Italia è isolata: dagli inglesi filo-jugoslavi sull’Istria, ai francesi che non ci aiutano affatto, anzi cercano di sottrarci dei territori.

Print Friendly, PDF & Email

voxpopuli

A 30 anni dalla caduta del Muro di Berlino

Una riflessione marxista

di Compagno Pier

berlin mauerEsattamente trent’anni fa, il 9 Novembre 1989, accadde un evento di fondamentale importanza: la caduta del Muro di Berlino. Tale data simbolica, nonostante essa si riferisca prevalentemente agli eventi che portarono all’estinzione della Repubblica Democratica Tedesca e all’unificazione della nazione teutonica, contiene e rappresenta un significato molto più ampio, i cui esiti si ripercuotono nella società ancora oggi. Questo giorno viene celebrato ed accolto con gaudio dai media nostrani, i quali identificano questa data come «la fine della dittatura totalitaria comunista» e come «la prova oggettiva del fallimento socialista e della vittoria del capitalismo, unico sistema economico sostenibile». «La libertà ha vinto» esclamano in coro le principali testate occidentali, ben consapevoli che con questa data non si celebra solamente una mera riacquisizione da parte dei popoli orientali di questa famosa “libertà”, parola millantata e falsificata dai liberali , bensì viene soprattutto celebrata la libertà dell’occidente capitalista, che non aveva più sistemi economici con i quali competere (ora invece lo spauracchio degli americani è la Cina), di portare avanti quel processo di deregulation, costante finanziarizzazione dell’economia che ha causato l’evoluzione di una nuova forma di capitalismo, molto più aggressiva e feroce rispetto a quelle precedenti.

Il 9 Novembre del 1989 costituisce quindi uno spartiacque nella storia contemporanea: mediante la legittimazione fornita dai presunti insuccessi del cosiddetto socialismo reale applicato in Unione Sovietica e nelle democrazie popolari dell’Europa orientale, l’élite capitalista mondiale ha sfruttato la debolezza del movimento socialista e proletario per poter accelerare la transizione ad uno spinto ordoliberismo.

Print Friendly, PDF & Email

contropiano2

Berlino, 30 anni dopo

di Claudio Conti

In calce l'editoriale di Guido Salerno Aletta

nb m mlmclv nklxcnklnjkSe i maestri sono in crisi, proprio mentre celebrano la storica vittoria sull’avversario numero uno (il socialismo, seppure nella sua versione più grigia, quella “reale”), è bene guardare con occhio clinico alle ragioni della sua crisi.

Che sono poi, nell’insieme, il suo normale modo di funzionare.

Ancora una volta vi proponiamo un fulminante editoriale di Guido Salerno Aletta su Milano Finanza, che impietosamente affonda il bisturi nel modello mercantilista tedesco. Un dispositivo di rapina all’interno (verso i propri lavoratori) e all’esterno (verso i paesi-partner dell’Unione Europea, e ovviamente verso i loro lavoratori) che va in crisi per aver avuto troppo successo.

Che non vuol dire aver avuto ragione, ma semplicemente di essersi potuto “finalmente” sviluppare senza avversari; né come classe contrapposta (i lavoratori, appunto), né come “sistema economico e di valori” (il socialismo).

Chi mastica di dialettica capisce senza sforzi che il momento migliore dell’economia tedesca ed europea – perché di questo sostanzialmente si parla – coincida con il periodo pre-caduta del Muro. Quando, insomma, welfare e salari furono elargiti con generosità, magari anche a scapito dei profitti, che “furono ridotti, sì, negli anni Cinquanta e Sessanta, ma solo per paura del Comunismo”.

Il capitalismo, insomma, rende meglio quando è sottoposto a una non volontaria “cura dimagrante”, a una condivisione degli utili che è poi diventata bestemmia dopo l’89. Ma anche in quelle condizioni non funzionava benissimo…

Dopo l’Anschluss della Ddr e la facile imposizione a tutta l’Unione Europea delle regole più vantaggiose per sé, non troppo paradossalmente, quel meccanismo si è inceppato.

Print Friendly, PDF & Email

lantidiplomatico

A 30 anni dalla caduta del muro

di Antonio Di Siena

w01 0RTRPVM2Mancano due giorni alle solenni celebrazioni per il trentennale della caduta del Muro di Berlino, e siamo già tutti pronti a sentirci raccontare come gli eventi che presero il via il 9 novembre 1989 cambiarono per sempre la storia del continente europeo.

Ma la narrazione dell'informazione dominante ci racconterà del crollo non di un semplice muro, ma di un intero Paese comunista con un sistema economicamente al collasso, la Repubblica democratica tedesca (DDR - meglio conosciuta come Germania Est), che fu magnanimamente soccorso da un altro Paese, generoso e democratico.

Di come un popolo oppresso e affamato da un sistema totalitario, che scappava a gambe levate in direzione ovest, sia stato liberato dal giogo del socialismo reale e accolto nella moderna, florida e democratica Repubblica federale tedesca. Quella Germania Ovest che, con grande generosità, tese la mano ai suoi fratelli più sfortunati e, grazie ad una imponente politica di investimenti pubblici, riuscì a ricostruire e integrare un paese distrutto da mezzo secolo di economia socialista, portando a compimento il processo di riunificazione delle due Germanie.

Ma dopo trent'anni è passata abbastanza acqua sotto i ponti della storia per poter guardare a quell'evento epocale con uno sguardo lucido e disincantato, potendosi rendere facilmente conto che le cose non sono andate proprio così. E soprattutto che fra la vicende dei tedeschi dell'est e la moderna storia dell'Unione europea si possono tracciare importanti parallelismi.

Nel 1989 la Germania Est era sicuramente un Paese in crisi, politica ed economica, come altri del blocco socialista. I suoi cittadini chiedevano profonde riforme del sistema politico, più libertà e soprattutto la democratizzazione dello Stato. Non di certo una svolta capitalista.

Print Friendly, PDF & Email

marxismoggi

La riscrittura dei fatti e la realtà della storia

A proposito della mozione votata a Bruxelles

di Alexander Höbel

La Battaglia di Berlino min1. La mozione “sull’importanza della memoria” (un titolo davvero beffardo!) approvata dal Parlamento europeo coi voti di gran parte dell’emiciclo (compresi quasi tutti i rappresentanti del Pd, tra cui quel Giuliano Pisapia che come "criminali" comunisti contribuimmo a eleggere alla Camera nelle liste del Prc) costituisce un documento di estrema gravità, il cui significato non può essere sottovalutato.

Di fatto, nell’anniversario dello scoppio della Seconda guerra mondiale, nella quale la barbarie nazifascista fu battuta anche e soprattutto grazie al contributo decisivo dell’Unione Sovietica, coi suoi circa 25 milioni di caduti e pagine epiche come la resistenza dei leningradesi a 900 giorni di assedio o la vittoria di Stalingrado, si anticipa la data di inizio del conflitto, che viene fissata al patto Molotov-Ribbentrop anziché all'aggressione tedesca contro la Polonia, il 1° settembre 1939 (solo dopo 16 giorni, l’Urss penetrò a sua volta in territorio polacco, evidentemente a scopo difensivo, ossia in reazione all’attacco hitleriano, che imponeva – può essere duro dirlo, ma è la concreta realtà storica – di non lasciare che le truppe tedesche dilagassero in tutta la Polonia giungendo ai confini dell’Urss, il che peraltro aveva costituito uno dei motivi del patto Molotov-Ribbentrop). Questa modifica della data di inizio del conflitto costituisce ovviamente un atto del tutto arbitrario, una vera e propria riscrittura della realtà di stampo orwelliano.

Ma se proprio dovessimo anticipare l’inizio della guerra a prima dell’avvio delle operazioni militari, allora perché non fissarne l'inizio alla Conferenza di Monaco del 1938 dove Gran Bretagna e Francia lasciarono mano libera a Hitler? O magari farla coincidere con l'Anschluss tedesco dell'Austria? O con l’annessione hitleriana dei Sudeti?

Print Friendly, PDF & Email

sinistra

Dall'URSS alla Russia

di Fabrizio Poggi

Se almeno un solo elemento della immensa lezione leniniana ho potuto assimilare (e tentare sempre di applicare) è quello della necessaria e costante analisi dei rapporti tra le classi nell'esame di ogni fenomeno reale. Così che, invogliato dal commento al pezzo di Alexander Höbel - “Inefficienze e difetti dell’economia sovietica” - fatto da Eros Barone, che giustamente mette in rilievo la doverosa analisi dei rapporti di classe nell’analisi della storia sovietica e della sua involuzione a partire dalla degenerazione khruščëviana, propongo questo pezzo, uscito su nuova unità nel 2017 (n. 4), qua e là rivisitato per l'occasione, ma non aggiornato, sperando di dare un piccolo contributo alla discussione

2ebb60473cd67e8167083273a3863e75Dietro le quinte di una cosiddetta “formazione dei militanti” sul tema della storia dell'URSS, si contrabbandano spesso trotskismo, khruščëvismo e gorbačëvismo. Presentando la storia sovietica come un percorso “Dal capitalismo al socialismo e viceversa”, da posizioni idealistiche si attribuisce l'evoluzione e la successiva involuzione dell'esperienza socialista in URSS a soli fattori soggettivi, secondo la vulgata di una presunta “bontà innata” di chiunque si sia opposto a quelle che vengono definite le “criminali” scelte politiche ed economiche della leadership sovietica durante il trentennio in cui Stalin fu alla testa del VKP(b).

Di contro, si è tentato di illustrare sommariamente come quelle scelte riflettessero reali rapporti tra le classi sociali, così come si evince da alcune fonti sovietiche. Delimitazione cronologica e schematizzazione tematica sono soggettive e solo indicative del tema.

* * * *

Nel 1932, sul numero 1-2 della rivista “Pod znamenem marksizma” (“Sotto la bandiera del marxismo”), compare l'articolo di M. Korneev Il secondo Piano quinquennale e l'eliminazione delle classi, che illustra la politica di trasformazione delle campagne in URSS, basata sulla collettivizzazione delle piccole aziende individuali e la definitiva eliminazione dell'ultima classe sfruttatrice rimasta, quella del kulak, i contadini ricchi.

Tra il 1973 e il 1979, intrattenendosi con lo storico Felix Čuev, l'ex membro del Politbjuro, ex presidente del Consiglio dei commissari del popolo ed ex Ministro degli esteri sovietico Vjačeslav Molotov afferma: “contrappongono Stalin a Bukharin e a Dubček. Sono i destri che lo fanno – i residui di kulak non liquidati. Tra Bukharin e Dubček c'è molto in comune”. E poi: “Khruščëv non è stato casuale. Il paese è contadino e la deviazione di destra è ancora forte.

Print Friendly, PDF & Email

ilcomunista

Inefficienze e difetti dell’economia sovietica

di Alexander Höbel

29062617 1863373277067169 7761528854794993664 nLa crisi e il crollo dell’URSS sono stati in buona misura la crisi e il crollo dell’economia sovietica. I successi di quest’ultima erano stati notevoli: anche dopo il “grande balzo” dell’industrializzazione staliniana (che portò l’URSS a diventare già nel 1937 la seconda potenza del mondo per produzione industriale)1, i progressi sono stati costanti, almeno fino agli anni ’602. L’economia sovietica era caratterizzata dal predominio dell’industria sull’agricoltura, e dal predominio dell’industria pesante, produttrice di macchine, su quella leggera, produttrice di beni di consumo. Questa “sproporzione” finì per costituire uno dei suoi maggiori problemi3.

L’attenzione degli studiosi peraltro si è focalizzata sul funzionamento interno del sistema pianificato, nel quale – a partire dagli anni ’60 – emergono sempre di più frammentazione e forze centrifughe, interessi settoriali e aziendali: insomma il “dipartimentalismo” e i “localismi”. Di fatto, esistevano “conflittualità tra organi e incompatibilità tra obiettivi e strumenti di piano”: i “ministeri della produzione”, intermediari tra i settori produttivi e l’organo di pianificazione (Gosplan), agivano come “gruppi di interesse”, inducendo il Gosplan ad “apportare correzioni, cioè tagli alle forniture richieste”; queste infatti erano sempre in eccesso rispetto alle esigenze di imprese e settori produttivi, che le gonfiavano in modo da premunirsi da “irregolarità delle consegne, strozzature e tagli delle forniture”. Dunque le informazioni dal basso verso l’alto, essenziali per una corretta pianificazione, erano falsate, oltre che “imprecise, saltuarie e insufficienti”; gli organismi pianificatori, che conoscevano queste tendenze, a loro volta imponevano piani di produzione eccessivi rispetto a risorse e capacità produttive denunciate; e questo induceva i ministeri a sviluppare una rete di forniture parallela, al di fuori del piano e spesso della legge, basata su scambi, favori, corruzione, ecc.4.

Print Friendly, PDF & Email

sinistra

Carlo Cafiero, il figlio del sole

di Salvatore Bravo

Carlo CafieroCarlo Cafiero (Barletta, 1º settembre 1846– Nocera inferiore 1892) ha vissuto con pienezza lo spirito di scissione, non è mai stato parte di nessun movimento in toto, ha sempre mantenuto distanza critica rispetto ad ogni appartenenza, si sentiva legato piuttosto all’umanità, ha messo la sua cultura, il suo impegno al servizio degli esseri umani. E’ la testimonianza viva, su cui si dovrebbe riflettere, che l’essere umano non è l’effetto del modo di produzione, ma vi è un’eccedenza, una resistenza al potere ed ai condizionamenti che permette la libertà critica.

Di famiglia agiata, i Cafiero erano una delle famiglie più rilevanti di Barletta e di Puglia, già avviato alla carriera diplomatica, ha il coraggio della scissione, abbandona le certezze e le agiatezze per impegnarsi politicamente a favore degli ultimi, di coloro che non hanno le parole per testimoniare e denunciare la violenza dello sfruttamento. La sua vita è stata tragica, termina i suoi giorni in manicomio, ciò malgrado la sua breve parabola vitale dimostra che la natura umana è capace di vivere l’universale fino alle estreme conseguenze. In un pianeta che è ormai un immenso mercato, in cui le istituzioni formano il consumatore e non la persona, Cafiero è un esempio vivo che vi sono possibilità imprevedibili nell’essere umano. Conobbe direttamente, forse Marx, sicuramente Engels con cui partecipò all’organizzazione dell’internazionale, ma il potere, in qualsiasi forma era per Cafiero il male del mondo, per cui si schierò con gli anarchici avvicinandoci a Bakunin conosciuto nel 1872. Lo divise dall’Internazionale e da Engels il modello di organizzazione che secondo Cafiero non doveva essere accentrato, ma libertario. Al collettivismo comunista, allo stato erogatore dei servizi predilesse il federalismo di società produttive: la libertà prima di tutto.

Nel 1877 a San Lupo nel Matese organizza un moto anarchico che non ha successo, ma sperimenta la propaganda del fatto, ovvero non si incoraggia l’insurrezione con verbosi proclami, ma con azioni effettive: gli archivi comunali furono bruciati, in quanto in essi vi erano documenti e dati che permettevano l’ingiusta tassazione. In carcere legge il Capitale di Marx, ne fa un compendio pubblicato da La Plebe, compendio che ha avuto una ventina di edizioni.

Print Friendly, PDF & Email

marxismoggi

“Il processo Stalin”. L’ultimo libro di Ruggero Giacomini

di Fosco Giannini

stalin8764Nel 1897 lo scrittore irlandese Bram Stoker pubblica un romanzo, “Dracula”, dal carattere gotico e romantico, che avrebbe segnato di sé tanta parte della futura letteratura europea e mondiale e tanta parte dell’arte e del cinema, sino ai nostri giorni. Segnando di sé anche il senso comune, la cultura, di centinaia di milioni di uomini e donne, non solo in Europa ma nel mondo.

Il grande successo del romanzo convince intere generazioni che Dracula sia stato davvero, storicamente, un vampiro assetato di sangue, un terrificante demone della notte. Ma l’opera di Stoker è di una totale falsità, che attraverso l’immensa popolarità a cui giunge, produce uno dei più grandi inganni di massa che mai la letteratura, l’arte, la filosofia abbiamo prodotto. Il Dracula storico, infatti, quello che tuttora tutti i giovani liceali della Romania studiano, è stato un grande rivoluzionario rumeno, un liberatore dalle qualità intellettuali di un Machiavelli e dalle capacità militari di un Garibaldi, un condottiero che nella seconda metà del 1.400 caccia gli ottomani invasori liberando e unificando la Romania. È difficile capire il motivo per cui Stoker mette in campo una così grande menzogna, peraltro per lui fruttifera. Un dato può forse aiutarci: Stoker è uno scrittore di lingua inglese, un intellettuale dell’occidente che vede i Carpazi, la terra di Dracula, con lo sguardo dell’imperialista, del colonialista, attraverso il quale i Carpazi son già di per sé la terra dell’orrore e del sangue, l’anti occidente.

Chi scrive è convinto che scientemente, con gli stessi strumenti della menzogna totale ed organizzata, della manipolazione, anche Stalin abbia subito, da parte dell’intero apparato ideologico, culturale, politico dell’occidente (con l’aiuto decisivo di Chruščëv, come vedremo) lo stesso processo di demonizzazione che Dracula subì ad opera di Stoker e della cultura occidentale dominante. Sino al punto che ancora oggi è difficilissimo misurarsi con quel senso comune, disseminato in profondità dal pensiero americano ed europeo, secondo il quale Stalin sarebbe stato quel dittatore sanguinario raccontato dal Rapporto Chruščëv e poi sapientemente divulgato dai mille Stoker al servizio, sin dagli anni ’50, dell’anticomunismo e dall’antisovietismo.

Print Friendly, PDF & Email

micromega

Quando la Socialdemocrazia tedesca tradì se stessa

Bad Godesberg e il ripudio della democrazia economica

di Alessandro Somma

spd bad godesberg 510Nel 2019 ricorrono due importanti anniversari tondi che i tedeschi stanno celebrando con una certa enfasi: cento anni fa veniva promulgata la Costituzione di Weimar, la prima in Europa a parlare di diritti sociali e di democrazia economica, mentre settant’anni fa vedeva la luce la Costituzione di Bonn, l’unica nata dalla sconfitta del fascismo a non menzionare i diritti sociali e la democrazia economica.

Un altro anniversario tondo è stato invece tenuto un poco in sordina. Sessant’anni or sono il Partito socialdemocratico tedesco (Spd) varava il Programma di Bad Godesberg che formalizzava l’accettazione dell’economia di mercato e con ciò il ripudio della democrazia economica come suo orizzonte programmatico.

 

Democrazia economica

La democrazia economica è stata a lungo un cavallo di battaglia dei Socialdemocratici tedeschi, che coniarono l’espressione ai tempi della Repubblica di Weimar nell’ambito del movimento sindacale[1], per indicare una forma di risocializzazione dell’economia non ridotta alla mera richiesta di un primato della politica. Quel primato era per molti aspetti una realtà: all’epoca i Paesi capitalisti avevano in massima parte riconosciuto la pianificazione come ineludibile[2], motivo per cui occorreva impegnarsi per renderla un’attività frutto di decisioni partecipate. Di qui il primo fondamento della democrazia economica: l’individuazione attraverso il circuito democratico delle scelte produttive complessive e di lungo periodo (Gesamtwirtschaftsplan)[3].

Non si trattava di superare il capitalismo. La pianificazione comportava il coinvolgimento del Parlamento nelle scelte complessive circa il «cosa produrre», per realizzare l’interazione tra meccanismo concorrenziale e meccanismo democratico. Il «come produrre» restava invece ancorato ai fondamenti che contraddistinguono il capitalismo: esso «può e deve essere affidato all’economia di mercato, che presumibilmente si muoverà in modo sensato e proficuo fondandosi sulla libera concorrenza»[4].

Print Friendly, PDF & Email

laboratorio

A cento anni dal biennio rosso

I moti per il caro-viveri

di Domenico Moro

1920 Guardie rosseLo studio della storia del movimento operaio e rivoluzionario è importante non solo per ricordare le proprie radici e affermare la propria identità ma anche e soprattutto come ammaestramento per le scelte politiche tattiche e strategiche per l’oggi e per il futuro.

Proprio in questo inizio di estate 2019 cade il centenario dell’inizio del biennio rosso (1919-1920), che rappresenta uno dei momenti di più alta tensione rivoluzionaria delle classi subalterne italiane degli ultimi cento anni, sia per la profondità sia per la diffusione delle lotte sul territorio nazionale. Per certi aspetti, molto probabilmente il biennio rosso rimane superiore anche rispetto agli altri due altri grandi movimenti delle classi subalterne, sia quello sviluppatosi durante la Resistenza, che fu limitato al Centro-Nord e con caratteristiche anche di lotta di liberazione nazionale oltre che di lotta di classe, sia quello che ebbe luogo tra il 1969 e il 1977-80, cioè tra l’Autunno caldo e l’occupazione della Fiat.

Il biennio rosso si articola in una serie di eventi, che hanno inizio nel giugno-luglio 1919 con i moti per il caro-viveri e proseguono con la lotta per la terra, con l’ammutinamento dell’Esercito e culminano con l’occupazione delle fabbriche nel 1920. Dedichiamo questo primo articolo ai moti per il caro-viveri, ma prima è necessario chiarire i precedenti e il contesto in cui nasce il biennio rosso.

 

Il contesto generale e la Prima guerra mondiale

Così come in Russia la rivoluzione del 1917 fu preceduta dalla sua “prova generale” del 1905, anche in Italia i sommovimenti del biennio rosso furono preceduti, prima dello scoppio della Prima guerra mondiale, da un importante moto insurrezionale, la cosiddetta settimana rossa (1914). La stessa entrata in guerra dell’Italia fu contrassegnata da una importante opposizione da parte popolare, in cui la lotta alla guerra si unì alla lotta per il pane. Di particolare importanza furono gli avvenimenti accaduti durante la guerra, nel 1917.

Print Friendly, PDF & Email

carmilla

Rosa Luxemburg e la rivoluzione impossibile

di Fabio Ciabatti

luxemburg sfondo gialloIn un periodo come quello attuale in cui è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo può essere utile riprendere le parole di Rosa Luxemburg a proposito della rivoluzione:

“non esiste nulla di più inverosimile, di più impossibile, di più fantasioso di una rivoluzione un’ora prima che scoppi. Non esiste nulla di più semplice, di più naturale e di più evidente di una rivoluzione nel momento in cui ha sferrato la sua prima offensiva e ha riportato la sua prima vittoria”.

A partire da queste righe dedicate agli avvenimenti russi del 19171 si potrebbe dire, utilizzando un linguaggio che non appartiene alla Luxemburg, che la rivoluzione si configura come evento. Cos’è un evento? Seguiamo Badiou. Si tratta di un immanente rovesciamento delle leggi dell’apparire che ha come conseguenza di far esistere in una data situazione un termine prima inesistente. Si tratta, in altri termini dell’imprevedibile inizio di una rottura che si impone su tutti gli elementi che contribuiscono a creare la sua esistenza.2 Detto in modo ancora diverso, un evento è ciò che porta alla luce nuove possibilità che prima erano invisibili e addirittura impensabili. Non è in sé stesso la creazione di una nuova realtà, ma soltanto la creazione di una imprevista possibilità, ponendo in essere nuove soggettività e dando il via ad una serie di avvenimenti che aprono una nuova sequenza storica.3

Come noto il pensiero della Luxemburg è stato spesso accusato di spontaneismo. Però, se si può applicare, almeno in parte, la categoria di evento alla sua opera, allora parlare di spontaneismo non è la cosa più appropriata. Certo l’autrice contrappone spesso l’attività spontanea delle masse e la loro capacità di innovare la prassi politica all’inerzia e alla funzione frenante del partito e del sindacato. Ma se volessimo parlare in senso proprio di spontaneità dovremmo presupporre un tipo di comportamento che appartiene ad un soggetto come suo necessario attributo. Nel mettere in atto questo modo di agire il soggetto dovrebbe rimane identico sé stesso. Quello che compare nello sciopero di massa e nella rivoluzione si configura, invece, nello spirito della Luxemburg, come un vero e proprio “termine nuovo”.