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maelstrom

Il lungo viaggio degli uomini della moneta

Le radici del presente nell'analisi di Rita di Leo

di Damiano Palano

tankIl giorno di Ferragosto del 1971 l’allora presidente degli Stati Uniti Richard Nixon annunciò da Camp David la sospensione della convertibilità tra dollaro e oro. Molti lessero allora quella clamorosa decisione come il segnale dell’imminente declino dell’«impero americano», impantanato nella guerra del Vietnam e alle prese con le forti tensioni sociali interne, con un’inflazione galoppante, con l’aumento della spesa pubblica. La sospensione della convertibilità – confermata definitivamente nel 1973 – sembrava inoltre concludere la quasi trentennale vicenda del sistema delineato a Bretton Woods nel 1944, quando si fissarono i cardini del nuovo ordine internazionale liberale, fondato sul ruolo egemone degli Usa. Quello che parve allora un tramonto può invece oggi essere considerato come il momento di avvio della globalizzazione (o quantomeno della sua fase più recente), oltre che come il punto di partenza di quella rivoluzione ‘neo-liberale’ che si manifestò compiutamente con la presidenza di Ronald Reagan a partire dagli anni Ottanta. L’ordine internazionale liberale si rivelò infatti molto più vitale di quanto molti avessero previsto, anche se modificò almeno in parte la propria logica. E proprio allora la partita della Guerra fredda conobbe per molti versi una mossa decisiva, destinata a rivelare le proprie conseguenze solo più tardi.

È anche per questo che, nel corso degli ultimi anni, molti studiosi sono tornati alla svolta degli anni Settanta per ripercorrere la genesi del nuovo assetto ‘neo-liberale’ e per individuare le radici della crisi contemporanea. Nel suo nuovo libro, L’età della moneta. I suoi uomini, il suo spazio, il suo tempo (Il Mulino, pp. 197, euro 19.00), Rita di Leo propone invece una rilettura più ambiziosa, che procede ben più indietro rispetto al 1971 e alla sospensione della convertibilità tra dollaro e oro.

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sinistra

Perché il ’68 è stato sconfitto

di Eros Barone

862824 kFlB 835x437IlSole24Ore WebLa borghesia non riesce a educare i suoi giovani (lotta di generazione): i giovani si lasciano attrarre culturalmente dagli operai e addirittura se ne fanno o cercano di farsene i capi («inconscio» desiderio di realizzare essi l'egemonia della loro propria classe sul popolo), ma nelle crisi storiche ritornano all'ovile.
Antonio Gramsci

Non c’è eredità senza eredi, non si è eredi se non si sa di esserlo e se non ci si situa in prospettiva fra un ieri e un domani, un donde e un dove.
Franco Fortini

Un quesito che spesso mi viene posto dai giovani che conosco è quello concernente le ragioni della sconfitta del ’68. Proverò ad abbozzare una risposta nelle note che seguono.

In primo luogo, occorre tenere presente che, dopo il grande ciclo di lotte operaie, popolari e studentesche degli anni ’60 e ’70 del secolo scorso, durissima fu la reazione delle classi dominanti: la trama reazionaria (il ‘filo nero’ che percorre tutta la storia dello Stato italiano) si concretò in stragi (a partire da quella di piazza Fontana, che ebbe luogo a Milano il 12 dicembre 1969), attentati, tentativi golpisti, repressione e intimidazioni senza fine. La sanguinosa ‘strategia della tensione e del terrore’ fu l’arma con cui le classi dominanti cercarono di intimorire e disorientare il proletariato e le masse studentesche per fermarne il movimento di lotta. Il gruppo dirigente del Pci, intimorito dalla reazione borghese e dal colpo di Stato militare in Cile, che aveva dimostrato il fallimento delle teorizzazioni riformiste sulla ‘via pacifica al socialismo’, elaborò, a questo punto, per impulso e sotto la direzione di Enrico Berlinguer, la strategia del ‘compromesso storico’, cioè del patto di governo con la Dc.

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carmilla

URSS, una storia che non possiamo rimuovere

di Fabio Ciabatti

Sviluppo e declino dell’economia sovietica, a cura della redazione di Countdown. Studi sulla crisi, Asterios 2018, pp. 365, € 29,75

urssDi fronte alla rapida dissoluzione dell’URSS, con il classico senno di poi, il senso comune liberale ha decretato che la crisi era inevitabile e iscritta sin dall’inizio nelle fondamenta di un sistema sostanzialmente contronatura. Questione chiusa. E con ciò si è preteso di chiudere anche ogni prospettiva di modifica radicale degli assetti politico-economici dominanti. Che ci piaccia o no il crollo dell’Unione Sovietica ha dato un contributo essenziale a consolidare la convinzione che “non c’è alternativa” al sistema capitalistico. Non è un caso che di fronte alla crisi iniziata nel 2008, la più grave dopo quella del ‘29, siano state proposte solo pallide repliche di un riformismo keynesiano. Per tornare a parlare in modo credibile di una ipotesi di trasformazione reale sarebbe stata necessaria un’elaborazione collettiva della vicenda storica dell’Unione Sovietica. La questione, invece, è stata sostanzialmente rimossa. Ci sono però delle lodevoli eccezioni tra cui la redazione di Countdown che ha curato la raccolta di saggi dal titolo Sviluppo e declino dell’economia sovietica.

I curatori del volume hanno un consolidato gusto per la provocazione nei confronti delle più radicate convinzioni della sinistra. Cosa che traspare dal giudizio che viene dato dei soviet nell’articolo di Paolo Giussani: “Strumenti di lotta e sistemi di riferimento per la massa dei lavoratori, erano del tutto estranei al funzionamento dell’economia” e dunque non potevano essere altro che organismi adatti a un “rivoluzionamento politico”.1 La presa del potere da parte di un governo rivoluzionario è però soltanto la premessa per la gestione associata dei produttori dell’apparato produttivo e distributivo. Per raggiungere questo scopo occorrono forme politiche adeguate che dovrebbero essere elaborate, almeno in parte, nel corso della presa del potere politico.

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trad.marxiste

‘Tutto il potere ai Soviet!’. Parte quarta

Tredici a due: i bolscevichi di Pietrogrado discutono le Tesi di aprile

di Lars T. Lih

Si veda anche, in calce a questo stesso post, l’appendice ‘Le Tesi di aprile: i bolscevichi mettono le cose in chiaro’

image 49885604 soviet propaganda wallpaperOvunque e in ogni momento, quotidianamente, dobbiamo mostrare alle masse che sin quando il vlast non sarà trasferito nelle mani del Soviet dei deputati degli operai e dei soldati, non vi sarà speranza di una conclusione a breve della guerra, né possibilità alcuna per la realizzazione del loro programma.

Sergei Bagdatev così spiegava le sue apprensioni circa le Tesi di aprile di Lenin nel corso della Conferenza di aprile del partito bolscevico.

In quasi tutti i resoconti delle attività del partito bolscevico, nella primavera del 1917, si troverà una frase che afferma quanto segue: le Tesi di aprile di Lenin risultarono a tal punto scioccanti per i membri del partito che, nel corso di una riunione del Comitato di Pietrogrado tenutasi l’8 aprile, vennero respinte con un voto di tredici a due (e un astenuto). Un episodio al quale viene dedicata niente più che una singola frase, ma una frase che, anche solo presa di per sé, costituisce certamente un pugno nello stomaco. Tredici a due! – I bolscevichi dovevano essere rimasti davvero scandalizzati dal nuovo e radicale approccio di Lenin.

Il potere di una buona storia non dovrebbe essere sottovalutato. L’aneddoto sul voto di tredici a due, dopo il rientro di Lenin, si può collocare a giusto titolo accanto a quello sulla presunta “censura” delle sue Lettere da lontano prima del suo ritorno in Russia. Lo statuto di questi due aneddoti quali fatti indiscussi, probabilmente, conferisce alla consueta narrazione del riarmo più sostegno di qualsiasi seria argomentazione. Precedentemente, in questa serie di testi, prendendo in esame l’episodio delle Lettere di Lenin, ho dimostrato come si tratti di un “documento volubile”, che cambia dunque aspetto laddove messo in questione.

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carmilla

Le false promesse del “capitalismo di Stato”

di Sandro Moiso

Mark Harrison, Ulrich Herbert, Larry Liu, Otto Nathan, Peter Robinett, La politica economica del nazionalsocialismo, Countdown Studi sulla crisi/2, Asterios, Trieste 2018, pp. 270, euro 30,00

comedonchisciotte controinformazione alternativa auschwitz cancelli 300x225Ciclicamente tornano in scena i dibattiti, sia da sinistra in chiave keynesiana che da destra con richiamo orgoglioso ai fasti statalisti del Ventennio, sull’utilità dell’intervento dello Stato nell’economia, esattamente come è avvenuto nei giorni successivi al crollo del ponte Morandi a Genova. Tale dibattito rimuove sempre la funzione ultima dello Stato, relegandolo al ruolo di agente neutrale della regolazione del sistema economico, ma dimenticando che, in realtà, fin dalla sua prima apparizione ha avuto come scopo ultimo quello di garantire che la ricchezza socialmente prodotta forse drenata quasi esclusivamente verso un solo polo della società: quello dei detentori dei mezzi di produzione, siano questi ultimi sotto forma di capitale costante oppure di capitali finanziari. Siano questi rappresentati da individui, aziende, società per azioni o partiti.

Lo dimenticano anche coloro che si esaltano per i “socialismi nazionali”, dimenticando così che dall’URSS di staliniana memoria a tutti gli altri esperimenti condotti in seguito, dalla Cina al Sud America, tale nazionalizzazione degli apparati produttivi ha svolto la funzione di un’accumulazione capitalistica primigenia giunta in ritardo, ma poi svoltasi spesso, anche se non sempre, in maniera accelerata rispetto a quella originale dell’Occidente. Appare così utile, ai fini di una riflessione più ampia e meno superficiale, la pubblicazione del testo della casa editrice Asterios di Trieste, nella collana Countdown -Studi sulla crisi /2, dedicato alla disanima della politica economica nazionalsocialista.

Countdown, il cui sottotitolo recitava e continua a recitare Studi sulla crisi, è stata fin dalla sua prima comparsa nel 2016, all’epoca per le edizioni Colibrì, una rivista attenta ai motivi della crisi economica che travaglia l’economia mondiale da diversi anni a questa parte, che ha indagato con articoli quasi sempre legati ad una lettura non ‘ufficiale’ e non superficiale della stessa.

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orizzonte48

Mussolini the original: tra liberalismo e sovranità senza popolo

di Arturo

Fondamentale post "fenomenologico" di Arturo. Inutile dire che nella lettura occorre prendersi il dovuto tempo di riflessione. E non trascurare i links. Neppure uno

8188340751. Continuano a moltiplicarsi, in forme anche grottesche, le accuse di fascismo rivolte al governo, alla maggioranza, ai suoi elettori ma anche agli italiani in generale.

Visto che il fascismo storico fu un impasto confuso di filoni politici diversi – sindacalismo, nazionalismo, combattentismo, idealismo, elitismo, eccetera – esso si presta bene ad analisi che si concentrino sul coté ideologico, individuino questo o quell’elemento astrattamente ritenuto essenziale per ricostruire una genealogia in grado di isolare il virus malefico e formulare atti d’accusa.

Con l’impiego di metodologie siffatte si è riusciti nella notevole impresa di identificare le origini del fascismo nell’opera di De Maistre (Isaiah Berlin), come in quella di Marx (Settembrini). Risultati tanto disparati dovrebbero però far sorgere qualche perplessità sul metodo.

Di puro buon senso mi paiono quindi le riserve in proposito formulate dal più noto storico dell’ideologia fascista, Emilio Gentile:

Nessuno può prevedere a quali altri esiti potrebbe condurre questo modo di studiare le origini dell’ideologia fascista su un piano esclusivamente teorico-intellettualistico, accentuando ora l’uno ora l’altro degli elementi - o dosando in proporzione differente gli elementi - che si reputano essenziali per definire l’essenza di un «fascismo idealtipico».” (Le origini dell’ideologia fascista (1918-1925), Il Mulino, Bologna, 1996, pag. 19).

 

2. Da parte nostra, abbiamo provato a ricollocare il fascismo sul terreno dei rapporti materiali e del conflitto sociale. Un approccio che, se non può vantare l’appeal della novità, mi pare ancora fornito di un certo potere esplicativo.

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gyorgylukacs

Crisi parallele

Intervista a György Lukács

In «L’utopia concreta. Rivista quadrimestrale», I, n. 1, ottobre 1993 [da «New Left Review», n°60, marzo – aprile 1970]

1 paolo morso da un vipera dopo il naufragio a malta roma basilica di san paoloCompagno Lukács, come giudica la sua vita e l’epoca storica in cui ha vissuto? In cinquantanni di lavoro scientifico e rivoluzionario ha avuto la sua parte di onori e di umiliazioni. Sappiamo anche che è stato in pericolo dopo l’arresto di Béla Kun nel 1937. Se dovesse scrivere un’autobiografia o delle memorie personali, quale lezione fondamentale ne trarrebbe?

Per rispondere brevemente, direi che è stata una mia grande fortuna aver vissuto una vita intensa e densa di avvenimenti. Lo considero come un particolare privilegio di cui ho avuto esperienza negli anni 1917/1919. Poiché provenivo da un ambiente borghese – mio padre era un banchiere di Budapest – e pur attuando un’opposizione piuttosto individuale in «Nyugat»1 – facevo parte tuttavia dell’opposizione borghese.

Non arriverei a dire – non potrei – che il puro e semplice impatto della prima guerra mondiale sarebbe stato sufficiente a fare di me un socialista. Fu senza dubbio la Rivoluzione russa e i movimenti rivoluzionari che ne seguirono in Ungheria che mi spinsero a diventarlo, e a ciò sono rimasto fedele. Ritengo che questo sia uno degli aspetti più positivi della mia vita. È un’altra questione se, oppure no, essa, nel suo insieme, abbia subito degli alti e bassi, in qualsiasi direzione, si può dire però che abbia avuto una certa unità. Guardando indietro, posso individuare le due tendenze che hanno prevalso lungo tutto l’arco della mia esistenza: in primo luogo, esprimere me stesso, poi, essere al servizio del movimento socialista – così come io l’ho inteso in ogni momento. Queste due tendenze non si sono mai disgiunte, né sono mai stato assillato da un qualche conflitto tra di esse.

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marxismoggi

Il massacro di Tlatelolco: io c’ero

di Nunzia Augeri

Da “Marxismo Oggi”, n.3/2008

Tlatelolco En plena matanza 2Il 2008 ha portato gradi rievocazioni, discussioni e bilanci sugli avvenimenti del 1968, una data considerata spartiacque nel corso degli avvenimenti del secolo scorso. Sono stati anche ampiamente ricordati gli avvenimenti internazionali, sia il maggio francese che l’invasione della Cecoslovacchia, il 20 di agosto: un fatto che toccò molto da vicino l’opinione pubblica in Italia. Quasi nessuno però, nella stampa italiana, ha ricordato la strage avvenuta a Città del Messico il 2 ottobre 1968, pochi giorni prima dell’inizio delle Olimpiadi, quando gli occhi di tutto il mondo erano puntati sul paese che in America Latina deteneva una fama non del tutto immeritata di libertà e di apertura democratica, soprattutto per l’opera del leggendario presidente Lazaro Cardenas, negli anni Trenta del secolo scorso.

Dieci anni fa, in occasione del trentennale, la stampa un poco ne aveva parlato, ma per reiterare quella che era stata la tesi del governo di Gustavo Diaz Ordaz, il presidente del Messico in carica nel 1968: una congiura comunista, stroncata con una repressione resa necessaria dalle particolari circostanze, e che si era conclusa con 26 morti.

Nel 1968 io abitavo da due anni a Città del Messico, nel quartiere di Tlatelolco, proprio nell’edificio Chihuahua, prospiciente la Piazza delle Tre Culture, al quinto piano. Da pochi giorni avevo traslocato da un appartamento affacciato sulla piazza a un altro contiguo, sulla parte posteriore.

Quel 2 di ottobre il pomeriggio ero uscita per fare acquisti, lasciando in casa la bambina di due anni e il bimbo di quattro mesi con la domestica, un’anziana india. Intorno alle cinque era caduta qualche goccia di pioggia e mi ero affrettata a prendere un taxi per tornare a casa. Ricordando che sulla piazza era prevista una manifestazione, scesi dall’auto sulla Calzada de Nonoalco, il viale che passava davanti al grattacielo del Ministero degli esteri, e feci a piedi le poche decine di metri che mi separavano da casa.

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micromega

Cambiare la vita o conquistare il potere?

Foa, Trentin e il futuro della sinistra

di Giorgio Pagano

Vittorio Foa, “La Gerusalemme rimandata”, Einaudi, Torino, 1985
Bruno Trentin, “La città del lavoro”, Feltrinelli, 1997

images830La sinistra, oggi a rischio avanzatissimo di irrilevanza, vive solo se ricrea una dimensione sociale a partire dalle persone che lavorano. “La città del lavoro” di Bruno Trentin e “La Gerusalemme rimandata” di Vittorio Foa sono due libri che non ebbero fortuna quando uscirono. Riletti oggi, ci forniscono preziose riflessioni non solo sul passato ma anche sul presente e sul futuro.

Vittorio Foa e Bruno Trentin si conobbero a Milano il giorno prima della Liberazione. Insieme scrissero l’appello alle Brigate di “Giustizia e Libertà” per l’insurrezione di Milano che inizia con la frase “La bandiera rossa sventola su Berlino”. Si frequentarono assiduamente nei due anni di esistenza del Partito d’Azione, per poi prendere strade diverse allo scioglimento del partito nell’autunno 1947: Foa aderì al partito Socialista, Trentin si laureò e si iscrisse al Pci probabilmente nel 1950. Alla fine del 1949 Foa, diventato vicesegretario della Cgil con l’incarico di seguire l’ufficio studi, chiamò Trentin in questo ufficio con l’incarico di ricercatore. Il loro comune maestro fu Giuseppe Di Vittorio, segretario della Cgil. Foa fu dirigente della Cgil fino al 1970, Trentin ne fu segretario dal 1988 al 1994.

Nell’ultima fase delle loro vite, entrambi tornarono a studiare e a riflettere sulla loro esperienza sindacale e politica, sulla sconfitta del movimento operaio dopo le grandi lotte degli anni Sessanta e Settanta di cui furono protagonisti, e soprattutto sul socialismo libertario, l’”altra strada” per la sinistra. Foa pubblicò “La Gerusalemme rimandata” nel 1985, dopo quattro anni di studi in Inghilterra. Trentin pubblicò “La città del lavoro” nel 1997, dopo un lavoro durato tre anni. Sono due libri che, quando uscirono, non ebbero successo: furono quasi “clandestini”. Riletti oggi, ci forniscono preziose riflessioni non solo sul passato ma anche sul presente e sul futuro.

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Coordinamenta2

E questo è quanto

di Silvia De Bernardinis

salvo“E questo è quanto. Storie di rivoluzionarie e rivoluzionari”. Il titolo della nuova collana edita da Bordeaux e curata da Ottone Ovidi esordisce con questo primo volume dedicato a Salvatore Ricciardi. Una storia e una vita di militanza, iniziata nelle piazze, con le grandi manifestazioni contro il governo Tambroni nel 1960 e la rivolta degli edili a Piazza SS. Apostoli nel 1963, stesso carattere e stessi contenuti della più nota Piazza Statuto torinese dell’anno precedente, uno snodo importante che comincia a dare fisionomia ad una nuova soggettività operaia, quella che farà da traino e sarà il collante del movimento di classe che emergerà chiaramente durante il biennio 68-69. La crescita politica di Salvatore, come lui stesso racconta, avviene nel contesto di queste lotte operaie, prima con gli edili e poi, soprattutto, nelle ferrovie, dove svolge attività sindacale nella Cgil e successivamente, cacciato dal sindacato, nel Cub-ferrovieri, di cui è uno dei fondatori. Sono gli anni, quelli tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta, che sanciscono il passaggio dalla non ostilità alla rottura con la sinistra istituzionale, ed in particolare con il Pci, che nel corso degli anni 70 diventerà sempre più profonda. Nel 1977, l’entrata nella colonna romana delle Brigate Rosse. Sarà arrestato nel 1980, e come tutti i prigionieri politici sperimenterà il circuito delle carceri speciali e l’ultima grande rivolta carceraria, quella di Trani che, legata al contemporaneo sequestro D’Urso, porterà alla chiusura dell’Asinara. Ultima battaglia unitaria delle BR, dopo la quale si consumerà la scissione dell’organizzazione, diretta dall’interno del carcere, con la formazione del Partito Guerriglia al quale, diversamente dalla maggioranza dei prigionieri politici BR, Salvatore non aderirà. È un processo, questo che porta alla scissione, che Salvatore vive in parte fuori e in parte dentro il carcere, che inizia nel 1979 con una dura critica dei prigionieri politici all’Esecutivo, espressa attraverso le 20 tesi del “documentone” elaborate nel carcere di Palmi, con le quali si accusava l’organizzazione all’esterno di incapacità di innalzare lo scontro sociale e guidare un movimento che si immaginava, astrattamente ed erroneamente, fosse all’offensiva.

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trad.marxiste

‘Tutto il potere ai soviet!’. Parte seconda

Il proletariato e il suo alleato: la logica dell’«egemonia bolscevica»

di Lars T. Lih

Karl Kautsky 02I bolscevichi erano essenzialmente preparati, sulla base dei loro precedenti punti di vista, ad affrontare le sfide del 1917? Per rispondere a questo interrogativo è necessario, innanzitutto, giungere ad una piena comprensione della strategia politica del vecchio bolscevismo. Una strategia politica che, per ritenersi coerente, doveva rispondere a due quesiti fondamentali:

1. Quali sono le forze motrici della rivoluzione in Russia – vale a dire, quali classi della società russa sarebbero in grado di determinare il corso della rivoluzione, quali sono i loro interessi e grado di organizzazione, in che modo queste classi si scontrerebbero e interagirebbero?

2. Quali sono le prospettive dell’imminente rivoluzione – ovvero, in quali risultati progressisti possono ragionevolmente sperare i socialisti e quali, invece, è improbabile si ottengano?

Alla fine del 1906, Karl Kautsky pubblicava un articolo col quale rispondeva proprio a tali interrogativi, come evidente sin dal titolo: “Le forze motrici e le prospettive della rivoluzione russa”. Un’analisi, quella di Kautsky, accolta dall’ala sinistra della socialdemocrazia russa con grande entusiasmo e approvazione senza riserve. Lenin e Trotsky si fecero carico entrambi di una traduzione russa, oltre a dedicargli commenti lusinghieri, così come fece Iosif Stalin per un’edizione georgiana. A proposito dell’articolo di Kautsky, Lenin scriveva: “è la più brillante conferma del principio fondamentale del bolscevismo… L’analisi di Kautsky ci soddisfa pienamente”. Nel suo commento, Trotsky equiparava fermamente il punto di vista di Kautsky con quello che egli stesso aveva espresso in Bilanci e prospettive, la sua classica esposizione del concetto di “rivoluzione permanente”: “Non ho ragione alcuna per respingere anche una sola delle posizioni formulate nell’articolo di Kautsky che ho tradotto, poiché lo svilupparsi del nostro pensiero in questi due testi e identico”. Ancora, in una lettera privata a Kautsky del 1908, a proposito dell’articolo di quest’ultimo, così si esprimeva Trotsky: “è la migliore esposizione teorica dei miei punti di vista, ed è per me fonte di grandi soddisfazioni”.

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rifonda

1968: la Cecoslovacchia e il Pci

di Guido Liguori*

praga2Sono 50 anni dall’invasione della Cecoslovacchia da parte dei paesi del Patto di Varsavia guidati dall’Unione Sovietica. Era il 1968, il mondo era in fermento, si combatteva duramente in Vietnam, e negli Stati Uniti era nato un forte movimento, molto variegato, contro la guerra e contro la discriminazione razziale. In Europa gli studenti scendevano in piazza, si protestava da Parigi a Roma a Berlino.

Anche oltre la “cortina di ferro” vi era aria di novità. Soprattutto a Praga, in Cecoslovacchia. Fu considerato un ’68 in tono minore, anche dal “movimento del ’68”, ma fu un grave errore. Ciò che stava succedendo in quel paese avrebbe cambiato profondamente la percezione del “socialismo reale” (come si sarebbe in seguito autodefinito) e anche del comunismo, del movimento comunista, delle speranze di comunismo: si era a un bivio. La domanda fondamentale era la seguente: il “socialismo fino allora realizzato” (come più giustamente lo chiamerà poi Enrico Berlinguer) può autoriformarsi? Può recuperare elementi di democrazia (sia pure di tipo nuovo), di autogestione, di dibattito politico e culturale non ingessato? A dodici anni dalla invasione dell’Ungheria si stava provando a realizzare un tentativo in questo senso. Ma le differenze con l’Ungheria erano chiare: a Budapest si era stati di fronte a un processo ambiguo, pieno di genuine spinte popolari e di torbidi tentativi reazionari di utilizzarle (il che non vuol dire giustificare l’invasione del 1956, ma sottolineare che a quel punto non si doveva arrivare). In Cecoslovacchia invece il rinnovamento era saldamente nelle mani dei comunisti, era portato avanti da un partito comunista e dal suo giovane segretario, Alexander Dubček, da poco eletto, che riscuoteva grande consenso e partecipazione popolare.

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trad.marxiste

‘Tutto il potere ai soviet’, una storia in sette parti

di Lars T. Lih

Il seguente articolo è il primo di una serie di sette. Un’appendice a questo stesso articolo, “Mandato per le elezioni al soviet”, pubblicata separatamente nel caso dell’originale inglese, viene qui pubblicata in calce

all power to the soviets“Tutto il potere ai soviet!”, senza alcun dubbio uno dei più celebri slogan nella storia delle rivoluzioni. A giusto titolo a fianco di “Liberté, égalité, fraternité” quale simbolo di un’intera epoca rivoluzionaria. Nel presente saggio, e in altri che seguiranno, prenderò in esame la genesi di questo slogan nel suo contesto originario, quello della Russia del 1917.

Il nostro slogan consiste di tre parole: вся власть советам, vsya vlast’ sovetam. “Vsya” = “tutto”, “vlast’ = “potere” e “sovetam” = “ai soviet”. La parola russa sovet significa semplicemente “consiglio” (anche nel senso di suggerimento) e, da questo, “consiglio” (nel senso di assemblea). Oramai siamo ben abituati a questo termine russo, poiché evoca tutta una serie di significati specifici derivanti dall’esperienza rivoluzionaria del 1917.

In questa serie di articoli, ricorrerò spesso all’originale russo di una delle parole presenti nello slogan in questione, vlast’ (che d’ora in poi verrà traslitterata senza segnalare il cosiddetto jer molle [Ь] con l’apostrofo). “Potere” non ne dà una traduzione del tutto adeguata; difatti, nel tentativo di coglierne le sfumature, vlast viene spesso tradotto con la locuzione “il potere” (ad esempio da John Reed in I dieci giorni che sconvolsero il mondo). Il russo vlast riguarda un ambito più specifico rispetto al termine “potere”, ovvero quello dell’autorità sovrana di un particolare paese. Perché un soggetto sia ritenuto in possesso del vlast, deve avere il diritto di assumere decisioni definitive, essere dunque in grado di prenderle e vederle eseguite. Il vlast, per essere effettivo, richiede un fermo controllo delle forze armate, un forte senso della legittimità e missione assunte, nonché una base sociale. L’espressione di Max Weber sul “monopolio della violenza legittima” va dritto al cuore della questione.

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carmilla

Resistenza: una lotta dimenticata e una vittoria tradita

di Armando Lancellotti

Cecco Bellosi, Sotto l’ombra di un bel fiore. Il sogno infranto della Resistenza, Milieu edizioni, 2018, pp. 239, € 16,90

CECCO ombra 3d copiaIl senso complessivo ed il messaggio principale del libro di Cecco Bellosi stanno entrambi già nel sottotitolo – Il sogno infranto della Resistenza – del suo romanzo – Sotto l’ombra di un bel fiore – e nella breve Introduzione, in cui l’autore espone ed argomenta il tema del tradimento della lotta partigiana, di una guerra cioè che, vittoriosa sulle montagne, nella campagne e nelle città italiane a nord della Linea Gustav e della Linea gotica, ha conosciuto poi una sostanziale sconfitta politica subito dopo il 25 aprile e la Liberazione del paese dal fascismo e dall’occupazione nazista.

Nelle considerazioni iniziali ed introduttive, così come in tutto il romanzo, risuona l’eco delle analisi di Claudio Pavone, tanto quelle che articolano la Resistenza sui tre piani della “guerra patriottica”, “di classe” e “civile” e che a inizio anni Novanta – all’uscita del suo Una guerra civile – hanno suscitato soprattutto a sinistra accese discussioni, poi ampiamente superate, quanto quelle che dettagliano lo scontro “civile” all’interno del Paese dall’8 settembre ’43 al 25 aprile ’45 come una contrapposizione tra la continuità con il passato e la rottura con esso, tra chi avrebbe desiderato mutare in profondità le strutture economico-sociali e la basi giuridico-politiche di un’Italia finalmente repubblicana che usciva dal ventennio fascista, dai suoi crimini e dalle sue guerre e coloro che, abbandonato il regime al suo ineluttabile destino, auspicavano una sostanziale continuità tra il vecchio e il nuovo Stato.

Per Cecco Bellosi, come per Pavone, la continuità con il passato fascista e la conservazione dello Stato pre-repubblicano hanno prevalso nettamente sulle istanze di rinnovamento e di trasformazione di cui il movimento partigiano si era fatto portavoce e per le quali aveva coraggiosamente combattuto.

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paroleecose

La Comune e la somma dei possibili

di Mario Pezzella

Esce in questi giorni nelle librerie il numero speciale della rivista Il Ponte “Il tempo del possibile: l’attualità della Comune di Parigi” a cura Di F. Biagi, M. Cappitti, M. Pezzella. Pubblichiamo un estratto dell’articolo di Mario Pezzella, La Comune e la somma dei possibili

b57e2b1bd2ea2e9f6fe1cfe1f6992731 1024x718“Diciannove marzo 1871: la più bella aurora che mai abbia dato luce a una città, l’alba più splendente in cui si compivano le attese, i presentimenti, gli annunci dei tempi nuovi: i sogni, le ‘utopie’“(289)[1]. Con queste parole Lefebvre ricorda la nascita della Comune e possiamo chiederci cosa gli detti un tale entusiasmo: in fondo la Comune ha avuto breve durata e si è conclusa in una triste tragedia. Il fatto è che –sia pure in un tempo così breve- essa ha dato realtà a un possibile, che si è impresso per sempre nella memoria storica degli oppressi: è concepibile una vita senza rapporti di servitù e sfruttamento, senza il dominio esclusivo del danaro, senza Stato e senza capitale. Con tutti i limiti e le contraddizioni che hanno contribuito alla loro sconfitta, gli uomini della Comune hanno comunque avuto “questo merito immenso…mostrare che una grande città moderna può fare a meno dello Stato”(293), “l’uomo si libera dall’economia”(388). Ciò che sembrava fantasma e immagine di sogno si mostra invece come utopia concreta. La Comune ha realizzato una rivoluzione e una riorganizzazione della vita quotidiana, nella sua pratica sociale, molto più rilevante di qualsiasi atto di governo.

La Comune –e il suo tentativo di rivoluzionare lo spazio urbano e sociale- rappresenta per Lefebvre un possibile sconfitto, ma leggibile nel nostro presente: la realtà storica è composta da una pluralità di possibili coesistenti e non segue la linea univoca del progresso imposta dai vincitori. Un possibile dimenticato può riattualizzarsi e modificare retrospettivamente la nostra percezione complessiva del passato, ricostruirne il senso; d’altra parte esso non è una fantasia arbitraria, ma possiede una sua oggettività storica documentabile e ricostruibile, anche se esclusa dal dicibile: “Il passato diviene o ridiviene presente in funzione della realizzazione dei possibili oggettivamente inclusi nel passato. Esso si svela e si attualizza con essi”(36).