Print Friendly, PDF & Email

trad.marxiste

‘Tutto il potere ai Soviet!’. Settima e ultima parte

‘Esigiamo la pubblicazione dei trattati segreti’: biografia di uno slogan gemello

di Lars T. Lih

Si veda anche, in calce a questo stesso post, l’appendice “Gli editoriali sulla guerra pubblicati nel marzo 1917 da Kamenev e Stalin”

lenin aIl 4 marzo 1917 (secondo il vecchio calendario russo), Paul Miliukov, ministro degli esteri del Governo provvisorio appena insediato dalla Rivoluzione di febbraio, inviava un telegramma alle ambasciate russe all’estero. Vi si ribadiva ciò che i governi alleati volevano sentirsi dire: i nuovo governo post-zarista intendeva onorare pienamente i trattati tra loro e la Russia. Agli occhi di Miliukov, difatti, il punto era che la rivoluzione doveva essere in grado di assolvere più efficacemente gli obblighi imposti dai trattati. Eppure, nella sua fretta di rassicurare gli alleati, egli aveva innescato una bomba a orologeria – per sé stesso e, nel giro di pochi mesi, per il Governo provvisorio.

In quel momento, il telegramma in questione e altri simili passarono inosservati in Russia. Tuttavia, alcuni rivoluzionari in esilio in Europa colsero immediatamente la centralità della questione dei trattati zaristi. Il bolscevico Grigorii Zinoviev, residente a Berna, impugnava le dichiarazioni di Miliukov quale prova che nessuna rivoluzione era avvenuta nella politica estera. Un articolo sulla questione dei trattati scritto da Zinoviev giunse in Russia prima del rientro del suo autore: venne pubblicato sulla Pravda il 25 marzo, subito dopo la pubblicazione della Lettera da lontano di Lenin. Il leader socialista rivoluzionario Viktor Chernov, anch’egli in esilio, comprese la discrepanza tra l’immagine dal Governo provvisorio proiettata all’estero e quella che rimandava in patria. Una discrepanza che non mancò di sottolineare con forza non appena ritornato nel suo paese all’inizio di aprile. Sebbene tanto Zinoviev che Chernov ritenessero uno scandalo i trattati segreti, i due trassero lezioni politiche drammaticamente differenti da tale scandalo.

Alla metà di marzo, due bolscevichi di primo piano, Lev Kamenev e Iosif Stalin, facevano ritorno a Pietrogrado dall’esilio interno in Siberia. I due dirigenti erano estremamente seri circa il prendere il potere e mantenerlo. Come ebbe a dire Kamenev, parlando confidenzialmente a un sodale bolscevico, “ciò che conta non è tanto prendere il vlast – ciò che conta è mantenere il vlast” [1].

Entrambi i leader compresero ben presto che guadagnare il sostegno dei soldati era la chiave di volta dei loro piani. Non si trattava di un compito semplice: i bolscevichi dovevano sfatare l’immagine di “disfattisti” che li faceva apparire nemici dei soldati e, d’altra parte, esporre la guerra come “imperialista”. Al fine di risolvere tale dilemma, Kamenev e Stalin ricorsero alla tradizionale tecnica socialista delle campagne di agitazione, mirando a presentare al Governo provvisorio rivendicazioni concrete perché avanzasse autentiche proposte di pace. Il loro calcolo era schietto: l’inevitabile fallimento da parte del Governo provvisorio ad agire nel senso di simili rivendicazioni avrebbe esposto, in maniera drammatica e visibile, i reali motivi della guerra.

Alla fine di marzo, queste tre correnti – la lealtà di Miliukov agli impegni zaristi, l’attenzione di Zinoviev ai trattati segreti e la campagna di agitazione lanciata dai bolscevichi di Pietrogrado – iniziarono a convergere in modo esplosivo. Immediatamente dopo la pubblicazione sulla Pravda, il 25 marzo, dell’articolo di Zinoviev, i trattati segreti occuparono il centro della campagna bolscevica. La prime risoluzione emanata da raduni di massa di operai e soldati, richiedente la pubblicazione dei trattati segreti, si ebbe a fine marzo. Nel mentre, lo scontro tra il Soviet di Pietrogrado e il Governo provvisorio riguardo agli obiettivi della guerra si accelerava. Eppure, tra i vertici socialisti del Soviet, la risposta a questa crisi prese due direzioni assai diverse. Il 29 marzo, alla prima conferenza nazionale dei soviet, il bolscevico Viktor Nogin fece appello al consesso perché si richiedesse la pubblicazione dei trattati segreti. In risposta, un altro appena rientrato leader socialista – Irakli Tsereteli, in procinto di divenire portavoce del “difensismo rivoluzionario”, nonché esponente chiave dei vertici “moderati” del Soviet – argomentava contro la pubblicazione. Una solida maggioranza sostenne Tsereteli.

Così – alla viglia dell’arrivo di Lenin e Zinoviev agli inizi di aprile – il dado era tratto, le linee della battaglia tracciate. La rivendicazione della pubblicazione dei trattati segreti divenne un contrassegno dell’identità dei bolscevichi e un indicatore della loro crescente influenza tra la base del soviet. Uno dei primi atti del nuovo governo sovietico instaurato in ottobre consistette nel soddisfare tale rivendicazione, pubblicando appunti i trattati. Lo slogan dei trattati segreti merita pienamente di essere definito come il gemello di “Tutto il potere ai soviet!”, ma si tratta di una storia mai raccontata – fino ad ora.

 

I trattati segreti e il conciliatorismo

“Concialitorismo” era un concetto chiave nella politica del 1917, sebbene la sua centralità sia stata occultata da traduzioni inadeguate quali “compromesso” o “conciliazione”. Il termine russo soglashatelstvo si basa direttamente sul vocabolo comune per “accordo” (soglashenie). È pur vero che la terminazione della parola russa connota una disapprovazione ben maggiore rispetto a “-ismo”. Ciò nonostante, i conciliatoristi – ossia, i socialisti moderati – peroravano la propria causa insistendo sula necessità di un accordo tra forze politiche socialiste e non. Per tanto, si può ricorrere a “conciliatorismo come termine di analisi relativamente non partigiano. A ogni buon conto, un sostituto adeguato è difficile da trovare.

Nel contesto del 1917, il conciliatorismo emergeva da due linee di frattura politiche. La prima era quella tra “democrazia rivoluzionaria” e “società censitaria” – fra il narod e i tsentsoviki. La “democrazia rivoluzionaria” (o semplicemente “democrazia”) includeva operai, contadini e soldati e le classi basse urbane in generale. Il termine tsentsoviki o “censitari”, in origine, si riferiva a coloro che possedevano sufficienti proprietà per votare sotto sistemi elettorali restrittivi. Sebbene tsentsoviki fosse una parola comune nel 1917, qui faro ricorso alla meno vivida locuzione “società d’élite”.

Le due facce della società russa – la “democrazia rivoluzionaria” e la parte istruita, l’élite del paese – avevano abitudini, modi e visioni del mondo fortemente contrapposte, come riflesso nelle rispettive rappresentanze politiche: i socialisti avevano il monopolio di una parte, i non-socialisti dell’altra. Ma questa linea di demarcazione sottotraccia conduceva direttamente alla seconda, interna alla democrazia rivoluzionaria: possiamo compiere il nostro programma entrando in una qualche sorta di accordo con parti della società d’élite, o dovremmo rigettare una simile intesa? Si trattava di una scelta imposta no da tale o talaltro teorico socialista, bensì dalla logica dei fatti.

L’anti-conciliatorismo, quindi, costituiva il rovescio della medaglia del pieno potere al soviet – o meglio, l’anti-conciliatorismo spiega perché tutto il potere, l’intero vlast, doveva andare ai rappresentanti politici della democrazia rivoluzionaria. Non era sufficiente dire a un governo interamente “borghese” o a una coalizione di governo: questo è il nostro programma, realizzatelo. No, il programma del soviet non poteva in alcun modo essere realizzato per mezzo di un accordo con forze politiche d’élite indipendenti, poiché la loro vera natura le portava al sabotaggio di tale programma. Questo è quanto sostenevano gli anti-conciliatoristi.

Come riconoscere una strategia politica anti-conciliatoriststa? Non certo attraverso qualche particolare termine o moto – il che è vero sopratutto riguardo ai primi giorni della rivoluzione, prima che il vocabolario politico si coagulasse. Un conciliazionista avrebbe potuto dire: sosteniamo il Governo provvisorio “nella misura in cui” (postolku-poskolku) realizza il nostro programma – e tuttavia non abbiamo mai avuto alcuna intenzione di ritirare il sostegno, qualunque cosa accada. Un anti-conciliazionista avrebbe potuto dire esattamente la stessa cosa, nella fiduciosa aspettativa che il Governo provvisorio avrebbe ben presto mostrato la propria natura controrivoluzionaria. O si prenda una parola come kontrol, ovvero, il controllare se il governo sta tenendo fede ai suoi impegni. Si consideri quanto segue:

Kamenv, 14 marzo: Facciamo appello alla democrazia rivoluzionaria, sotto la guida del proletariato, a esercitare il più strenuo kontrol su tutte le azioni del vlast, sia nel centro che nelle varie località. Dobbiamo renderci conto che le vie della democrazia e del Governo provvisorio divergeranno – quando la borghesia si riprenderà, tenterà inevitabilmente di fermare il movimento rivoluzionario, e non gli consentirà di svilupparsi al punto di soddisfare i bisogni essenziali del proletariato e dei contadini [2].

Comitato del partito di Mosca (bolscevichi), 25 marzo: Attraverso l’imposizione del kontrolsu ogni passo compiuto dal Governo provvisorio, il proletariato espone qualsiasi tentativo di schiacciare, nell’interesse delle classi dominanti, l’ulteriore sviluppo della rivoluzione, preparando le condizioni necessarie al trasferimento del vlast nelle mani della democrazia rivoluzionaria [3].

Woytinsky, 29 marzo: Sin tanto che abbiamo il kontrol [sulle azioni compiute dal Governo provvisorio], esso realizzerà il nostro programma. Il governo non vuolesvolgere i compiti della rivoluzione, ma [nonostante ciò] sarà in grado di svolgerli sotto il kontrol della democrazia rivoluzionaria [4].

Nei primi due passi citati, il kontrol era una tecnica mirante a esporre il governo, dunque sovvertire qualsiasi possibile accordo. Nel terzo passo, invece, kontrol era inteso come mezzo finalizzato a rassicurare la base del soviet: non preoccupatevi, persino un governo borghese realizzerà il nostro programma perché vi siamo noi a tenerlo strettamente sott’occhio – si tratta solo dell’impiegato (prikazchik) assunto dal soviet. L’oratore, in quest’ultimo caso, Wladimir Woytinsky, il quale fece tale dichiarazione nel corso di una conferenza bolscevica tenutasi a fine marzo, si rese ben presto conto di trovarsi nel partito sbagliato e lo abbandonò – prima del rientro di Lenin. Finì per divenire uno dei principali portavoce del conciliatorismo socialista nel 1917.

La questione dei trattati segreti costituiva una cartina di tornasole delle linee di frattura politiche, tanto all’interno della società nel suo complesso, quanto in seno alla democrazia rivoluzionaria. Nel 1921, Edward Allsworth Ross, un sociologo statunitense che soggiornò in Russia nel 1917 e scrisse alcuni libri sulla sua esperienza, descriveva il divario apertosi tra la democrazia rivoluzionaria e la società élite riguardo la politica estera:

Esiste una completa contraddizione fra la teoria borghese della guerra e quella socialista, a malapena si è ritirato il primo flutto della rivoluzione prima che ciò conduca a uno sconvolgente confronto tra classi sociali opposte. Secondo la teoria borghese, la Germania e l’Austria, aspirando al dominio mondiale, stanno cercando di soggiogare le libere democrazie dell’Europa: l’Inghilterra, la Francia e il Belgio. Per assicurare loro la futura sicurezza è necessario per gli alleati ottenere una “completa vittoria”. Secondo i socialisti, la guerra è il risultato della competizione tra le classi al potere in Inghilterra, Francia e Russia, da una parte e, dall’altra, in Germania e Austria, le quali mirano a conquistare e assoggettare terre e popoli stranieri [5].

I trattati segreti facevano brillare vistosamente tale linea di demarcazione politica. Viktor Chernov, uno dei fondatori dei Socialisti rivoluzionari, più tardi avrebbe descritto il suo messaggio indirizzato alla base del soviet non appena rientrato dall’esilio ai primi di aprile, circa una settimana dopo che era apparso sulla Pravda l’articolo di Zinoviev (per una qualche ragione, Chernov si riferisce a se stesso in terza persona):

I rivoluzionari russi esuli stavano giusto rientrando in Russia attraverso l’Inghilterra e la Scandinavia e, nel Comitato esecutivo [del Soviet di Pietrogrado], Chernov fece un rapporto spiegando che tutti i comunicati, interviste, ecc., del Ministero degli affari esteri russo non significavano se non una sola cosa: la rivoluzione non aveva assolutamente cambiato la politica estera e gli obiettivi di guerra della Russia zarista, gli accordi diplomatici da quest’ultima conclusi erano ancora considerati inviolabili dalla Russia rivoluzionaria; nessuno all’estero ha sentito della proclamazione degli obiettivi di guerra, intesa solo per uso interno [6].

Tutta la democrazia rivoluzionaria, dunque, era fortemente contraria ai trattati segreti in quanto tali. Ma richiederne la pubblicazione faceva emergere immediatamente la linea di demarcazione interna al campo del soviet. Chernov, così eloquente su “tutto il lerciume, l’indegna avidità e i saturnali degli appetiti predatori, espressi nei trattati segreti”, argomentava tuttavia contro la pubblicazione:

Il bolscevismo avanzava la brusca rivendicazione rivoluzionaria: pubblicare immediatamente questi documenti, dando così uno schiaffo morale alla guerra mondiale… la democrazia sovietica unita, guidata dal blocco dei rivoluzionari sociali e dei socialdemocratici, non poteva seguire né Lenin né Miliukov.

La pubblicazione unilaterale dei documenti segreti dell’Intesa prima della fine della guerra o della Rivoluzione tedesca, che avrebbe simultaneamente esposto i segreti della diplomazia guglielmina, era considerato uno schiaffo, non alla guerra in quanto tale, ma solo a uno dei belligeranti. Significava disgregare l’Intesa dall’interno e, consapevolmente o inconsapevolmente, favorire la Germania degli Hohenzollern [7].

La stessa logica veniva avanzata, durante tutto quell’anno, da portavoce conciliatoristi come Tsereteli e Woytinsky. L’accordo con gli alleati veniva presentato come il corollario logico all’accordo con il partito liberale in patria [8]. Guardando da vicino la razionalità conciliatorista, ci accorgiamo rapidamente che la più robusta motivazione non era una qualche ottimistica fiducia nell’efficacia di una coalizione, o di qualche accordo simile, ma semmai una paura dell’isolamento – isolamento dalla società istruita in patria e, al’estero, dagli alleati. E bisognerebbe aggiungere che tali paure avevano un solido e realistico fondamento – i costi dell’isolamento politico si dimostrarono assai alti. Sfortunatamente, questo fato nel 1917 non rese il conciliatorismo più attuabile.

Per rendere onore al merito: Zinoviev notò istantaneamente le implicazioni della questione dei trattati segreti, e ciò non appena ebbe modo di leggere le istruzioni di Miliukov agli ambasciatori russi ai primi di marzo. Da esperto agitatore quale era, Zinoviev inquadrava la questione come un oltraggio e un insulto a operai e contadini. Inoltre, lungi dal preoccuparsi di un isolamento della rivoluzione dagli alleati, egli dipingeva questi ultimi come nemici mortali:

La santità dei trattati conclusi con stati esteri! Compagni! Chi credete abbia fatto questi trattati? Non è forse stato lo stesso Nicola il sanguinario con la sua cricca? Il narod e la classe operaia conoscono forse il contenuto di questi trattati – nove decimi dei quali sono segreti? Lo stesso Miliukov e quelli del suo stampo conoscono questi trattati nei loro dettagli?

E se li conoscono, perché allora non li pubblicano così che tutti possano vedere, in modo che il narod possa giudicare e dire: li approviamo o li ripudiamo? O forse il signor Miliukov parte dallo stesso assunto dei vecchi ministri zaristi: il narod è “spazzatura ottenebrata” che dovrebbe solo morire sui campi di battaglia, mentre la politica e la conclusione di trattati andrebbero lasciati ai ministri dell’élite?

Gli operai e i soldati concordano con tale opinione? È forse per questo che sono morti nelle strade di Pietrogrado?…

Il signor Miliukov pubblicherà questi vecchi trattati segreti, quelli di cui ha proclamato la santità? Non credo proprio! Egli non può farlo. Non può dire agli operai, ai contadini e ai soldati: andate, morite sul campo di battaglia, perché vogliamo continuare a saccheggiare; andate e morite, perché noi, borghesie russe, inglesi e francesi rifiutiamo di condividere il malloppo con quelle tedesca e austriaca. E pubblicare i trattati segreti significherebbe dire al narod russo esattamente questo.

Inoltre, la stretta connessione tra i due slogan gemelli – “tutto il potere ai soviet!” ed “esigiamo la pubblicazione dei trattati segreti” – non era difficile da tracciare. Zinoviev se ne occupò in un discorso tenuto subito dopo il suo rientro (Lenin era presente in tale occasione):

Innanzitutto, dobbiamo chiarire perché la guerra si sta svolgendo, chi le ha dato inizio, chi ne ha bisogno? Quando la maggioranza dei soldati comprende questo, la guerra è fatta per…

Ciò di cui abbiamo necessità in Russia è che vi sia un solo vlast: un governo dei soviet dei deputati degli operai e dei soldati. Deputati dei soldati: questi sono i rappresentanti dei contadini. Operai e contadini, impiegati, lavoratori delle ferrovie e così via – questa è la stragrande maggioranza dell’intera popolazione della Russia. Tutto il vlast dovrebbe appartenere a loro. Poi Affronteremo la questione della guerra in modo differente. Operai e soldati! Affidate la questione della pace a voi stessi, al governo dei deputati degli operai e dei soldati. Voi pubblicherete i trattati dello zar mostrandone la vergogna dinanzi a tutto il mondo. Dopo ci dirigeremo con passo rapido verso una pace autenticamente democratica [9].

La costante vitalità dei trattati segreti come slogan anticonciliatorista venne garantita dal vistoso collasso della politica estera conciliatorista. Questa storia viene ricostruita nel suo complesso in The Russian Search for Peace di Rex Wade, un precoce (1969) ma tuttora indispensabile resoconto. Un titolo altrettanto valido per lo studio di Wade sarebbe stato “La ricerca da parte conciliatorista di una risposta coerente alla questione della guerra”. Con entrambi i titoli il risultato è lo stesso: entro la fine dell’estate, una completa “baraonda” (per riprendere il termine usato da Wade) [10].

I conciliatoristi sostenevano che la revisione degli obiettivi di guerra si poteva ottenere senza compire passi con cui ci si sarebbe inevitabilmente alienati gli alleati – ad esempio, pubblicando i trattati. Dunque, Assicuravano la base del soviet che potevano e volevano costringere il Governo provvisorio ad attuare la politica appropriata. Si prefigurava un approccio duplice: una conferenza inter-alleata sugli obiettivi di guerra e una conferenza socialista internazionale. Nessuno dei due approcci aveva la minima possibilità di raggiungere un qualche risultato. Ancor peggio – attraverso una logica contorta eppure irresistibile, i conciliatoristi si erano convinti a sostenere la disastrosa offensiva militare di giugno. Se la Russia voleva portare gli alleati a una revisione degli obiettivi di guerra, allora doveva dimostrare che l’opinione della Russia meritava di essere presa in considerazione. Al fine di dimostrare che la Russia rivoluzionaria aveva ancora un esercito potente, era necessario lanciare un’offensiva. Sfortunatamente, l’offensiva di giugno rivelò il contrario: l’esercito russo era sull’orlo della disintegrazione.

La politica era un disastro non solo in termini di risultati, ma anche a causa della malafede permeante l’intera operazione. L’accurato resoconto di Rex Wade rivela ben poco oltre a ingenuità, illusione e conclamato inganno. Persino i successi dei conciliatoristi – come forzare la rimozione del signor trattati segreti, Paul Miliukov – rafforzarono soltanto il messaggio anticonciliatorista. E. A. Ross ha riassunto gli effetti della “crisi di aprile” conclusasi con l’abbandono da parte di Miliukov e l’insediamento di un governo di coalizione:

Il contrasto di atteggiamento nei confronti della pace tra le esigue classi agiate e le enormi masse denutrite, decimate, sofferenti e disperate era sotto gli occhi di tutti. La questione postasi tra il Governo provvisorio e il Soviet, vide la borghesia radunata attorno al primo e la democrazia al secondo. I nove decimi del popolo, costituiti da lavoratori, avrebbero segnato e tenuto a mente il significato del fatto che quel decimo, formato dalla borghesia, guardava al Governo provvisorio come il suo governo. Lo spettro della guerra civile che per due giorni si era librato sulla capitale svaniva per una stagione, ma sarebbe ritornato…

Il Soviet emetteva un proclama esprimente “piena fiducia” nel nuovo governo [di coalizione] raccomandandolo alla nazione. Così, con i suoi sei socialisti contro dieci liberali, il ministero esordiva con rinnovato vigore; ma ogni giorno da mille angoli di strada e pulpiti improvvisati si diffondeva l’idea: “Tutto il potere ai soviet!” [11].

 

Lenin e il ‘difensismo onesto’

Dall’inizio del 1914 sino al suo rientro agli inizi di aprile, Lenin appoggiò con forza lo slogan del “disfattismo”. Dopo il suo ritorno dall’esilio, la parola svaniva improvvisamente dal suo vocabolario per non essere più sentita. Si trattava di un cambiamento non meramente verbale, poiché Lenin e i bolscevichi sempre più criticavano il Governo provvisorio precisamente per la sua incompetenza nel gestire la difesa della Russia. Lenin era del tutto aperto circa le motivazioni di tale cambiamento: costruire un messaggio che avrebbe raggiunto la base di massa del soviet, in particolare i soldati.

Questi fatti forniscono il contesto essenziale alla comprensione della tattica bolscevica nel marzo 1917. Una prima ricostruzione, oltre mezzo secolo fa, la si deve a uno storico e attivista di scuola trotskysta, Hal draper, con un magistrale studio sullo slogan del disfattismo [12]. Ad oggi, tuttavia, le sue conclusioni hanno a malapena penetrato la coscienza tanto degli storici accademici della Rivoluzione russa che di quelli militanti. Draper non aveva consultato le fonti in lingua russa, eppure, tanta era la sua accuratezza, perspicacia e preoccupazione di seguire le evidenze, che le sue conclusioni ne escono rafforzate dalle fonti in lingua russa a lui non disponibili. Per sottolineare questo risultato notevole, esporrò i fatti utilizzando solo la documentazione di Draper e, successivamente, aggiungerò ulteriori prove sulla base delle mie indagini.

Nei dibattiti concernenti il Trattato di Brest-Litovsk all’inizio del 1918, Lenin rispondeva al socialista rivoluzionario di sinistra Kamkov con il seguente commento (le osservazioni tra parentesi sono di Draper):

Ha sentito dire [Kamkov] che noi eravamo disfattisti, e se ne è ricordato ora che abbiamo cessato di esserlo… Noi eravamo disfattisti sotto lo zar, ma non lo eravamo più con Tsereteli e Chernov [ovvero, sotto il regime di Kerensky]. Noi pubbblicammo sulla Pravda l’appello che Krylenko, allora ancora perseguitato, aveva diffuso nell’esercito: «Perché vado a Pietroburgo». Egli diceva: «Non vi esortiamo ad ammutinarvi».

Questo non era disgregare l’esercito. Hanno disgregato l’esercito quelli che proclamarono grande e santa quella guerra [vale a dire, gli imperialisti che portarono alla guerra]… Ed io affermo che noi, cominciando con quell’appello di Krylenko, che non fu il primo e che ricordo perché mi è rimasto particolarmente impresso nella mente, noi non abbiamo disgregato l’esercito, ma abbiamo detto: tenete il fronte, quanto prima prenderete il potere, tanto più facilmente resisterete; [13].

La ragione di tale svolta nel tipo di messaggio non va ricercata lontano. Al suo rientro in Russia, Lenin vide da sé che i bolscevichi costituivano un’esigua minoranza tra la base del soviet. La loro impopolarità non poteva attribuirsi alla repressione e agli ostacoli nel diffondere il messaggio, poiché “in nessun luogo c’è una tale libertà come c’è da noi” [14]. No, la ragione era il difensismo “in buona fede” del narod:

Da noi [in Russia] il Soviet dei deputati degli operai e dei soldati fa trionfare la sua politica ispirata al difensismo rivoluzionario perché gode della fiducia delle masse e non perché ricorre alla violenza… In Europa non c’è difensismo rivoluzionario «in buona fede» come in Russia, dove il popolo ha ceduto il potere alla borghesia per ignoranza, per inerzia, per l’abitudine al bastone, per tradizione [15].

La situazione imponeva un dilemma tattico: o rilanciare sul disfattismo e rimproverare le masse per il loro ingenuo difensismo, o trovare un modo per portare il messaggio antimperialista direttamente ai soldati. La scelta di Lenin era chiara:

Le masse affrontano la questione [della guerra] non in modo teorico, ma pratico. Il nostro errore è di affrontarla in modo teorico… Con i rappresentanti della massa dei soldati bisogna porre la questione in termini pratici, e non altrimenti… Noi bolscevichi siamo abituati a prendere l’atteggiamento più rivoluzionario. Ma questo non basta [16].

Draper ha fatto emergere ciò che stava accadendo: nel suo esilio europeo, Lenin si trovava completamente ingolfato nelle polemiche intra-socialiste, senza alcuna possibilità di mobilitare una base di massa. In Russia, mobilitare una massa nuova alla politica non era solo una possibilità – bensì una necessità.

L’enfasi principale da parte di Lenin [nel suo polemizzare con i socialisti europei dal 1914 al 1917] è costantemente posta sul tracciare la più dura e netta linea contro i leader pro-guerra e contro chiunque faccia loro concessioni. Solo raramente egli sembra prestare attenzione a un compito differente: come colmare il divario fra l’intransigente linea di opposizione alla guerra e il sentire delle masse di lavoratori sotto l’incantesimo del difensismo, ovvero come presentare loro le sue idee…

Slogan che in precedenza gli sembravano pericolose concessioni al social-patriottismo ora assumevano un diverso colore, come ponte necessario col social-patriottismo delle masse, come approccio “pratico”… Ciò che motivava la sua nuova linea sulla guerra, direttamente, era piuttosto il fenomeno complementare del difensismo “in buona fede” – vale a dire, la necessità di plasmare una politica di opposizione rivoluzionaria alla guerra in grado di far presa sul sentire delle masse [17].

Draper documenta come i bolscevichi rapidamente si allontanarono dal sostenere “persino la difesa è illegittima sotto un governo borghese”, per passare ad argomentare che “il governo borghese è dannoso perché non può organizzare una difesa efficace”. Ad esempio:

Nel maggio 1917, Lenin, facendo appello ai contadini perché prendessero la terra, aggiungeva che dovevano farlo “compiendo tutti gli sforzi per incrementare la produzione di grano e carne, al fine di alleviare la spaventosa miseria dei soldati al fronte”. Dunque, chiedeva loro di prendere la terra e lavorarla adeguatamente perché: “Questo è necessario per migliorare il vitto dei soldati al fronte” [18].

I contadini avrebbero dovuto sostenere l’esercito, affermava ora Lenin, e il Governo provvisorio cacciato perché non lo faceva. Nel settembre 1917, egli scriveva che la rivolta di Kornilov dimostrava al popolo che “i grandi proprietari fondiari e la borghesia… sono pronti a commettere e commettono i delitti più inauditi, a cedere Riga (e poi Pietrogrado) ai tedeschi, ad aprire il fronte ai tedeschi, a far fucilare i reggimenti bolscevichi, a iniziare la rivolta, a far marciare sulla capitale le truppe con la «divisione selvaggia» alla testa, ecc., tutto per concentrar il potere nelle mani della borghesia” [19].

Draper cita anche il pamphlet di Trotsky, Dopo i giorni di luglio: cosa succederà?, nel quale si attaccava ferocemente l’offensiva militare autorizzata in giugno dal Governo provvisorio di coalizione, definendola un criminale e incompetente indebolimento delle effettive difese russe.

Questo per quanto riguarda Draper. Nella prossima sezione, vedremo come i dirigenti bolscevichi, in marzo, si trovarono a fronteggiare la stessa dura verità circa la condizione minoritaria bolscevica, giungendo a conclusioni tattiche simili. Ma una domanda sorge spontanea: se i bolscevichi rigettavano il disfattismo sostenendo che potevano garantire alla Russia la più salda delle difese, rimaneva qualcosa di sostanziale a distinguerli dal “difensismo rivoluzionario” di menscevichi e socialisti rivoluzionari? La risposta e ovviamente sì, e sappiamo già di cosa si tratta: il conciliatorismo. Conciliatoristi come Tsereteli e Woytinsky argomentavano che, al fine di avere una difesa efficace, non si potevano rifiutare gli accordi con l’élite in patria e rompere con gli alleati all’estero. Per i bolscevichi invece, affinché la difesa fosse effettiva, si doveva rigettare ogni sorta di accordo con l’élite russa, nonché rompere con gli alleati “imperialisti”. E, come abbiamo visto, la richiesta di pubblicare i trattati segreti pone mirabilmente in evidenza tale divergenza fondamentale.

Mi si consenta di aggiungere alcuni ulteriori elementi a supporto di quanto sostenuto da Draper. Quest’ultimo parla delle “masse”, ma in realtà la principale sfida era quella di conquistare il consenso dei soldati. La loro decisiva influenza sul Soviet di Pietrogrado era un aspetto centrale della politica rivoluzionaria nel 1917 – un aspetto che sfidava lo scenario prebellico prefigurato dai bolscevichi. Da un punto di vista strettamente teorico, i soldati potevano essere identificati come “contadini in uniforme” e conseguentemente inseriti nello scenario. Ma in pratica, occuparsi di quella parte della base del Soviet di Pietrogrado costituita da soldati spinse i bolscevichi fuori dalle loro certezze acquisite, come quella dei “lavoratori avanzati”, e dentro il dominio della politica di massa. Come osservato dalla Kollontai, dopo il suo rientro il 18 marzo, in una lettera indirizzata a Lenin:

L’umore qui è dettato dai soldati, e sempre i soldati creano l’atmosfera unica dove vediamo, tutti mischiati insieme, la grandiosità delle libertà democratiche vigorosamente espresse, il risvegliarsi di una consapevolezza civica di eguali diritti e una completa incomprensione della complessità del momento che stiamo vivendo [20].

Secondo Draper, l’appoggio di Lenin al disfattismo è documentato per l’ultima volta nel dicembre del 1916. Sappiamo oggi come il leader bolscevico era ancora aggressivamente impegnato sulla linea del disfattismo dopo la Rivoluzione di febbraio. Nella bozza originale della sua prima Lettera da lontano (non disponibile a Draper) egli scriveva: “I dichiarati servitori della borghesia o semplicemente gli uomini senza carattere, che strepitavano e urlavano contro il “disfattismo”, sono stati posti oggi dinanzi al fatto del nesso storico che costringe la disfatta della monarchia zarista più arretrata e più barbara con l’inizio dell’incendio rivoluzionario” [21].

Questo passo venne escisso (o dovrei dire esorcizzato) prima della comparsa della lettera sulla Pravda avvenuta il 21/22 marzo. Come ho osservato nel mio studio sulla pubblicazione di questo testo, si tratta del solo esempio di censura del pensiero di Lenin da parte dei bolscevichi di Pietrogrado. Data la situazione politica all’interno del Soviet di Pietrogrado, tessere le lodi del disfattismo era esattamente ciò di cui non vi era bisogno. E, come abbiamo avuto modo di vedere, Lenin se ne rese conto personalmente appena sceso dal treno alla Stazione Finlandia.

La documentazione di Draper circa l’enfasi posta dai bolscevichi su un’efficace difesa della rivoluzione si può moltiplicare centinaia di volte. Avendo letto tutti gli scritti di Trotsky risalenti al 1917, posso affermare come egli ritornasse di continuo sulla disastrosa offensiva di giugno, indicandola come un colpo alla difesa della Russia. La sua collera a tal proposito era solo uno dei tanti esempi del suo difensismo anticonciliatorista. Un altro eclatante esempio della posizione bolscevica è un pamphlet scritto da Stalin e pubblicato in estate, il quale confutava le accuse secondo cui i bolscevichi erano responsabili per la disintegrazione dell’esercito. Nell’opuscolo veniva indicato l’eccellente comportamento tenuto in battaglia delle unità in cui maggiore era l’influenza bolscevica [22]. O si potrebbero citare dei passi da “Una questione fondamentale”, l’articolo pubblicato da Lenin in aprile che abbiamo analizzato in precedenza in questa serie di post.

Può la maggioranza dei contadini pronunciarsi in Russia per la fusione di tutte le banche in una banca unica? esigendo che in ogni villaggio vi sia la succursale di una banca statale unica? Può farlo, perché i vantaggi e l’utilità che deriverebbero al narod da questa misura sono indubbi. Persino i «difensisti» potrebbero propugnare questa misura, perché essa accrescerebbe di molto la capacità «difensiva» della Russia.

Lasciamo questo soggetto con un commento di Lenin, risalente al 1921, che sembra quasi puntellare l’argomentazione di Draper decenni prima che questa venisse da lui avanzata. Questo commento – non pubblicato fino agli anni Cinquanta – getta una luce decisamente inaspettata sulla natura di un qualsivoglia “riarmo” del partito avvenuto nell’aprile 1917:

All’inizio della guerra noi bolscevichi seguivamo una sola parola d’ordine: guerra civile, e per di più spietata. Bollavamo come traditore chiunque non si pronunziasse per la guerra civile. Ma quando, nel marzo 1917, tornammo in Russia, cambiammo completamente la nostra posizione. Quando tornammo e parlammo con i contadini e con gli operai, vedemmo che essi erano tutti per la difesa della patria, ma in un senso completamente diverso dai menscevichi, s’intende, e non potevamo chiamare mascalzoni e traditori questi semplici operai e contadini. Noi definimmo questo fenomeno «difensimo in buona fede»…

Il 7 aprile pubblicai delle tesi nelle quali dicevo: prudenza e pazienza. La nostra posizione iniziale al principio della guerra era giusta, allora bisognava creare un determinato nucleo decisivo. Anche la nostra posizione successiva era giusta. Essa partiva dalla necessità di conquistare le masse [23].

L’assunto della “necessità di conquistare le masse” si era presentato con forza a Lenin a seguito della sua esperienza di prima mano della situazione a Pietrogrado. La stessa esperienza di prima mano, lo stesso shock dato dall’impopolarità dei bolscevichi, nonché lo stesso assunto della necessità di conquistare le masse, si potevano osservare nei dirigenti bolscevichi presentatisi a Pietrogrado un paio di settimane prima di Lenin.

 

Kamenev e Stalin lanciano una campagna

Lenin non fu il solo né il primo dirigente bolscevico a confrontarsi col fenomeno del “difensismo in buona fede”. Due veterani bolscevichi in Russia, Lev kamenev e Iosif Stalin, si trovarono a dover fronteggiare le stesse sfide una volta giunti a Pietrogrado, alla metà di marzo, dal loro esilio siberiano. Ebbero infatti modo di rendersi conto, sbigottiti, che i bolscevichi – a suo tempo voce dominante nella clandestinità del movimento operaio – si trovavano ora in una condizione molto differente e assai precaria nel Soviet dei deputati degli operai e dei soldati.

Siamo fortunati ad avere la reazione immediata di Kamenev a tale situazione inaspettata. Nel corso di una riunione di un comitato di partito, il 18 marzo, l’esponente bolscevico spiegava ai suoi sodali quella che ai suoi occhi era la sfida tattica [24]. Innanzitutto, dovevano confrontarsi con la dura realtà della loro momentanea impopolarità:

È sorprendente che i bolscevichi non occupino una posizione dominante nel Soviet dei deputati degli operai e dei soldati di Pietrogrado – e perché vi ammettono i liquidatori, i quali non esprimono il punto di vista degli operai? Noi siamo i rappresentanti dell’elemento rivoluzionario a Pietrogrado, ma, al contempo, sembra che le grandi masse non ci comprendano. Evidentemente, poiché siamo fondamentalmente nel giusto, formuliamo le nostre risoluzione e decisioni in un modo che le masse non capiscono.

Si comparino le parole di Kamenev al punto di vista di Lenin come descritto nelle precedenti sezioni. Kamenev non sosteneva che i bolscevichi dovevano cambiare la linea del partito così da ottenere maggiore popolarità, ma semmai che dovevano compiere un particolare sforzo al fine di rendere tale linea comprensibile alle grandi masse.

Kamenev procedeva dunque a illustrare gli aspetti fondamentali della situazione politica dal punto di vista bolscevico: il Governo provvisorio era condannato, il Soviet, presto o tardi, lo avrebbe rimpiazzato, ma poiché né quest’ultimo né i bolscevichi stessi erano ancora pronti per lo scontro finale, la priorità era data dall’urgenza dell’organizzazione su scala nazionale:

A mano a mano che gli venti si susseguono, uno dei due deve perire: o il Soviet dei deputati degli operai e dei soldati o il Governo provvisorio… il Governo provvisorio in carica non riuscirà a riorganizzare e ristabilire la vita normale. Su questo fatto si romperà la testa… Siamo giunti al punto in cui noi stessi posiamo dare vita a una dittatura proletaria? No. Ciò che conta non è tanto prendere il vlast – ciò che conta è mantenere [uderzhat’] il vlast [25].

Quel momento verrà, ma gioca a nostro vantaggio rimandarlo, dato che al momento le nostre forze sono ancora insufficienti… quando avremo la certezza che in tutta la Russia, in ogni angolo del paese, esistono cellule organizzate del Soviet dei deputati degli operai e dei soldati, ebbene allora avremo la forza [necessaria].

Kamenev e Stalin, al fine di raggiungere tali obiettivi, propugnavano una soluzione semplice. I bolscevichi dovevano urgentemente scrollarsi di dosso l’immagine del “disfattismo”. Per andare oltre il loro fondamentale messaggio “anticonciliatorista”, i bolscevichi dovevano ricorrere alla collaudata tecnica socialista delle campagne di agitazione organizzate attorno a una serie di “rivendicazioni”. Ognuna di queste rivendicazioni aveva un duplice scopo ulteriore: esporre la reale natura del Governo provvisorio e dimostrare che i bolscevichi avrebbero dovuto essere presi sul serio come partito di governo.

Il nuove orientamento venne lanciato dalla Pravda nel corso di due giorni successivi, il 15 e il 16 marzo. Quale motivo per questo annuncio in due fasi? Perché il primo tentativo da parte di Kamenev, del 15 marzo, risultava inadeguato circa degli aspetti cruciali, di modo che due articoli correttivi – uno di Stalin e uno senza firma – dovettero essere pubblicati il giorno dopo, così da rimuovere qualsiasi malinteso e ambiguità [26].

Il primo tentativo di editoriale a firma di Kamenev, 15 marzo, era intitolato “Senza diplomazia segreta” – una prefigurazione del prossimo ad apparire slogan sui trattati segreti. La prima metà di questo articolo aveva il compito negativo di liberare i bolscevichi dal marchio del “disfattismo”. Nel mezzo dell’articolo, si trova un fondamentale “ma…”: non siamo disfattisti, ovviamente, ma consideriamo anche l’attuale conflitto come una guerra imperialista condotta da un governo imperialista:

Ma [corsivo mio] un narod liberato ha il diritto di conoscere per cosa sta combattendo, ha il diritto di determinare i propri obiettivi e compiti in una guerra che non ha concepito. Dovrebbe annunciare, non solo ai suoi amici, ma anche ai suoi nemici, che non si batte per alcuna conquista né per l’acquisizione di alcuna terra straniera, e che offre a ogni nazionalità di decidere come costruire il proprio destino.

Kamenev, dunque, faceva appello a favore di una “ampia ed energica campagna”, finalizzata a chiedere che il Governo provvisorio non solo annunciasse nuovi obiettivi di guerra, ma anche perché si muovesse attivamente verso colloqui di pace. Fatto centrale, l’obiettivo delle “rivendicazioni” in una campagna di questo tipo non era cambiare l’atteggiamento del Governo provvisorio (scopo invece dei conciliatoristi), ma semmai di aprire gli occhi di “milioni di soldati e operai” circa la natura reale del governo, nonché incassare la necessità del pieno potere al soviet:

Ma sappiamo una cosa: solo allora [dopo che una risposta sarà data alle proposte di pace] i popoli, trascinati in una guerra imperialista contro la loro volontà, saranno in grado di dare un responso chiaro sulle ragioni per le quali tale guerra è stata combattuta. E quando milioni di soldati e operai in tutti i fronti vedranno nitidamente i reali obiettivi dei governi che li hanno sprofondati nella sanguinaria carneficina, ciò non significherà soltanto la fine della guerra, ma anche un passo decisivo contro il sistema di violenza e sfruttamento che causa le guerre [corsivo aggiunto].

Così Kamenev. Sfortunatamente per lui, tuttavia, il contenuto della sua proposta venne oscurato da uno scandalo emergente dal tono della porzione posta in apertura all’articolo, nella quale tentava di distanziare i bolscevichi dal disfattismo. Lo scandalo maggiore era dato da commenti come questo:

Quando un esercito è schierato contro un esercito, la politica più assurda è quella che propone che una parte alzi le braccia e sbandi verso casa. Tale politica non sarebbe una politica di pace, bensì’ una politica di schiavitù – una politica che un popolo libero [narod] rigetterebbe con indignazione. No – rimarrà saldo al suo posto, rispondendo con proiettile a proiettile e con granata a granata. Questo è indisputabile.

Come abbiamo visto nella sezione precedente, i suoi commenti in questa sede erano molto meno scandalosi di quanto potessero sembrare agli attivisti di partito in marzo: i bolscevichi – incluso Lenin – rigettavano qualsiasi disorganizzazione dell’esercito, si aspettavano che i soldati mantenessero la loro posizione, concordavano che un’invasione tedesca avrebbe paralizzato la rivoluzione, e così via. Ma il primo tentativo di Kamenev mirante a chiarire tali punti si rivelò a dir poco maldestro. Il suo editoriale causò una reazione che dovette lasciarlo sgomento. i “socialisti moderati” si rallegrarono, gli operai militanti rimasero allibiti. I vertici del partito convocavano per tanto una riunione urgente nel corso della quale, a seguito di una tempestosa discussione, si decideva di pubblicare il giorno dopo due articoli al fine di ridurre i danni, uno scritto da Stalin e l’altro non firmato. Quando compariamo l’articolo di Stalin con quello di Kamenev del giorno prima, vediamo facilmente cosa gli attivisti bolscevichi ritenevano andasse corretto e cosa invece no. (Il testo completo di entrambi gli editoriali è disponibile in calce a questo stesso post). Da un lato, ogni ambiguità retorica oscurante l’anticonciliatorismo e l’ostilità verso il “difensismo rivoluzionario” da parte bolscevica veniva rimossa. Ciò nonostante, la linea tattica di base espressa da Kamenev – disconoscimento del disfattismo, lancio di aggressive campagne di esposizione basate su proposte “concrete” – veniva riaffermata.

A differenza di Kamenev, l’articolo di Stalin esordiva subito attaccando sia la borghesia imperialista che i socialisti difensisti:

Rodzianko e Guchkov hanno rivolto in questa circostanza un proclama all’esercito e alla popolazione perché s preparino a combattere fino in fondo. E la stampa borghese ha lanciato un grido d’allarme: «La libertà è in pericolo, viva la guerra!». E inoltre anche una parte della democrazia rivoluzionaria russa si è associata a questo grido d’allarme… [27 op. compl., vol. 3, p. 14].

Una volta stabilite le proprie credenziali anticonciliatoriste, Stalin poteva sconfessare il disfattismo senza essere frainteso: se la libertà rivoluzionaria fosse realmente minacciata, allora, come i giacobini durante la Rivoluzione francese “non vi è dubbio che la socialdemocrazia, così come i rivoluzionari della Francia di allora, si leverebbe come un sol uomo a difendere la libertà. Perché è ovvio che la libertà conquistata col sangue deve essere difesa, con le armi in pugno, da tutti i colpi controrivoluzionari, da qualsiasi parte essi vengano. Ma è forse questa la situazione reale?”.

No, non era quella la situazione, poiché la guerra in corso era una guerra imperialista. La Russia del 1917 avrebbe dovuto essere comparata non alla Francia del 1972, bensì alla Francia del 1914:

Come adesso in Russia sulla stampa borghese così allora in Francia, nel campo borghese, si lanciò il grido d’allarme: «La repubblica è in pericolo, battiamo i tedeschi!». E come allora in Francia anche molti socialisti (Guesde, Sembat e altri) si lasciarono prendere da questo allarmismo, così oggi in Russia non pochi socialisti hanno seguito le orme dei banditori borghesi della «difesa rivoluzionaria»… Sarebbe doloroso se la democrazia rivoluzionaria russa, la quale ha saputo abbattere l’odiato regime zarista, cedesse difronte ai falsi allarmi della borghesia imperialistica, ripetendo gli errori di Guesde, di Sembat…

I redattori della Pravda così determinati a chiarire a tutti che i bolscevichi non erano “difensiti rivoluzionari” da includere nello steso numero un altro articolo, non firmato, per ribadire il punto in questione [28]. Articolo non firmato nel quale si rigettava esplicitamente la disorganizzazione diretta:

L’avanguardia della democrazia rivoluzionaria, la socialdemocrazia, non ricorre ai metodi che gli anarchici vedono come una panacea: la diserzione, atti individuali di disorganizzazione dell’esercito e così via – questi non sono metodi socialdemocratici per realizzare il principio “abbasso la guerra”.

Ma lo stesso articolo poneva anche una maggiore enfasi sul pericolo di farsi “ipnotizzare” da idee “nazionalistiche”:

Il “difensismo” di un tempo, appena l’altro giorno pacificatosi con lo zarismo o quantomeno non ostacolandolo, sta ora degenerando di fronte ai nostri occhi in “difensismo rivoluzionario”, il quale ultimo sta riuscendo a portare nella sua sfera d’influenza gruppi che non condividono simili idee.

L’intero episodio degli editoriali della Pravda duellanti conferma l’esistenza, in marzo, di un consenso di base tra gli attivisti bolscevichi. La forza di un consenso si rivela nel momento in cui qualcuno trasgredisce: sdegno immediato della comunità ritirata da parte del trasgressore. Proprio ciò che accadde, un responso indignato degli attivisti bolscevichi subito dopo la pubblicazione dell’articolo di Kamenev, irate sessioni di comitato e persino Kamenev non si prese la briga di difendere la sua malcapitata retorica. Gli articoli a riduzione del danno pubblicati il giorno successivo apportavano la correzione dovuta, ma esprimevano anche un consenso positivo circa le tattiche di base.

Poiché il presente saggio è un esercizio di sloganologia, rivolgiamo la nostra attenzione agli slogan proposti per l’allora incipiente campagna di agitazione. Il tradizionale slogan del partito clandestino era “Abbasso la guerra!”. Questa parola d’ordine venne ritenuta inopportuna per una campagna svolta alla luce del sole. All’epoca, e ancora oggi, tal giudizio veniva interpretato come un rifiuto del pensiero alla base dello slogan – equivalente dunque a sostenere quello contrario “Viva la guerra!”. Nonostante i chiari pronunciamenti in proposito contenuti negli editoriali, questi venivano presentati come un appoggio al “difensismo rivoluzionario” [29]. Questa interpretazione si basa su un fraintendimento di ciò che la campagna in questione si proponeva di fare.

In linea con la tradizionale, e prebellica, tecnica socialdemocratica delle campagne di agitazione, l’obiettivo di questa azione bolscevica era (nelle parole di Stalin) “Smascherare gli imperialisti, svelare alle masse la vera essenza di questa guerra, significa appunto dichiarare veramente guerra alla guerra, rendere impossibile la guerra attuale”. Ma (come argomentava l’articolo correttivo non firmato) anche se il “principio” sottostante allo slogan “Abbasso la guerra!” era valido, lo slogan stesso era considerato inadeguato, perché “troppo generico”. La base del soviet avrebbe invece dovuto costringere “il proprio [svoi] governo” ad avanzare proposte di pace concrete, con l’obiettivo ultimo di incitare la guerra civile rivoluzionaria in Germania e nei paesi alleati. Il che implicava: qualsiasi governo che avesse fallito nel fare proposte radicali di tal genere al proletariato avrebbe dovuto essere ripudiato, dalla base del soviet, in quanto “non suo”.

Kamenev e Stalin tenevano il punto: il pensiero politico alla base di “Abbasso la Guerra!” rimane valido, ma ciò che vogliamo per la nostra campagna è uno slogan che dimostrerà, in termini concreti, perché il Governo provvisorio deve essere rimpiazzato. Come diceva Kamenev:

Lo slogan “Abbasso la guerra!” richiede concretizzazione. Le masse non comprendono cosa c’è alla base di questa parola d’ordine – sebbene la borghesia lo capisca perfettamente [!] [il suo grido di battaglia è] “Una guerra per la libertà!” – anche se la prosecuzione del conflitto ucciderà la libertà… Abbiamo necessitò di creare una situazione nella quale il Governo provvisorio stesso voglia concludere la pace [30].

In altre parole, Kamenev voleva che la base di massa del soviet si rendesse conto che il Governo provvisorio in carica non voleva una pace democratica, o una rivoluzione su scala europea. Doveva quindi essere sostituito da un governo che voleva raggiungere tali obiettivi.

Allo stesso modo, l’articolo correttivo di Stalin metteva faticosamente in chiaro che i bolscevichi non stavano rimpiazzando lo slogan “Abbasso la guerra!” con “Viva la guerra!”. Semmai, il vecchio slogan avrebbe trovato un’espressione superiore nello “sfociare” in una campagna su vasta scala:

In questo caso soltanto [con una simile campagna] la parola d’ordine «abbasso la guerra» non corre il rischio di trasformarsi in pacifismo vuoto e privo di significato, in questo caso soltanto, questa parola d’ordine può sfociare in una potente campagna politica che smascheri gli imperialisti e riveli la vera essenza della guerra attuale.

Infatti anche se si suppone che una delle parti rifiuterà le trattative sulla base del principio enunciato, questo stesso rifiuto, e cioè la volontà di non abbandonare le velleità aggressive, servirà obbiettivamente come mezzo per liquidare più rapidamente lo «spaventoso massacro», perché in tal caso i popoli [narody] vedranno con i loro occhi la natura aggressiva della guerra e le mani lorde di sangue dei gruppi imperialistici per i cui avidi interessi sacrificano la vita dei propri figli.

Lo slogan “Abbasso la guerra!” venne di fatto abbandonato, abbandonato indefinitamente. Il ritorno di Lenin non alterò la situazione. Scorrendo la Pravda di quell’aprile, ho trovato solo poche menzioni di “Abbasso la guerra!”, quasi sempre in resoconti di manifestazioni o scontri di strada nelle province.

Ai fini della campagna proposta, “Abbasso la guerra!” venne sostituito da slogan più “concreti”, ovvero, parole d’ordine invocanti specifiche azioni da parte del governo. La prima opzione era quella di un appello a proposte di pace radicali da parte del governo, poiché l’idea di richiedere la pubblicazione dei trattati segreti non era ancora stata accarezzata dai vertici bolscevichi. Come vedremo nella prossima sezione, lo slogan sui trattati segreti salì rapidamente alla ribalta – sebbene la richiesta di aprire negoziati di pace mantenesse la sua prominenza.

A metà aprile, in risposta alle preoccupazioni di Lenin, Kamenev spiegava il ruolo delle “rivendicazioni” nelle campagne di agitazione. Vorrei che il lettore prestasse la massima attenzione a questo commento, in quanto getta una luce rivelatrice sul pensiero alla base delle campagne condotte a metà marzo 1917:

Come partito politico, dovremmo noi fare nostra la rivendicazione della pubblicazione dei trattati segreti, ovvero, annunciarla come nostra rivendicazione politica? Mi si dirà: con tutto il rispetto, stai chiedendo qualcosa di impossibile. Ma le rivendicazioni che io avanzo non sono basate sull’aspettativa che Miliukov mi dia risposta, e dunque pubblichi i trattati. La politica consistente nel porre rivendicazioni, da me sostenuta, è uno strumento di agitazione per lo sviluppo delle masse, un metodo di denuncia del fatto che Guchkov e Miliukov non possono agire in tal senso, non vogliono la pubblicazione dei trattati e sono contro una politica di pace. Si tratta di uno strumento utile a mostrare alle masse che, se vogliono realmente creare una politica rivoluzionaria a livello internazionale, ebbene, allora il vlast deve essere trasferito nelle mani del soviet. [31]

Kamenev faceva qui riferimento allo slogan sui trattati segreti, ma alla metà di marzo la parola d’ordine proposta era diversa: la richiesta rivolta al governo di aprire negoziati di pace. Ci si potrebbe chiedere: questo slogan iniziale è poi così differente da quanto andavano dicendo, e cercavano di realizzare, i conciliatoristi? Come sempre la differenza chiave tra conciliatoristi e anticonciliatoristi non era la rivendicazione, bensì l’obiettivo di fondo: cambiare l’atteggiamento del governo – o esporre la sua inabilità a modificarlo? Lo scopo di fondo di Kamenev e Stalin era sufficientemente chiaro nei loro articoli comparsi sulla Pravda.

Ma facciamo per un istante un passo indietro e chiediamoci: è remotamente plausibile che due veterani bolscevichi duri e puri fossero effettivamente conciliatoristi nel marzo 1917 – in altre parole, ritenevano davvero vi fosse anche uno straccio di possibilità che un Governo provvisorio, prevalentemente liberale, avrebbe realizzato una radicale e antimperialista politica di pace, persino a costo di alienarsi gli alleati?

Si notino i nomi di Aleksandr Guchkov e Paul Miliukov nelle osservazioni di Kamenev riportate più sopra. Pochi lettori odierni li riconosceranno o ne afferreranno l’importanza – ma Kamenev e il suo uditorio certamente sì. Si trattava delle due personalità di “imperialisti liberali” più prominenti della politica russa e lo erano da oltre un decennio. Probabilmente ben pochi russi, in quel decennio, avevano scritto quanto Kamenev circa la natura imperialista di queste due figure [32]. Se il dirigente bolscevico nutriva realmente una qualche illusione che le pressioni, da parte del Soviet, avrebbero indotto questi due indefessi imperialisti a implementare un programma di pace rivoluzionario, allora doveva essere stato lobotomizzato.

I liberali e i socialisti moderati, così sembrerebbe, trassero grande incoraggiamento dalla comparsa dell’editoriale di Kamenev il 15 marzo. Alla fine (questo si dicevano), le voci sane e ragionevoli tra i bolscevichi – non eravamo sicuri ve ne fossero! – stanno prendendo il controllo del partito, portandolo verso un accordo politico in linea col resto della democrazia rivoluzionaria. Ma se questi osservatori avessero compreso cosa realmente Kamenev aveva in mente, e cosa effettivamente stava accadendo tra le fila bolsceviche, la loro reazione sarebbe stata davvero ben più cupa.

I bolscevichi avevano appena rigettato due possibili alternative che avrebbero reso la loro situazione meno pericolosa. Avrebbero potuto rilanciare sul disfattismo, senza ritegno per gli “oscuri soldati contadini – e dunque rimanere un gruppo settario ai margini della politica nazionale. Oppure, avrebbero potuto decidere che la via per la popolarità tra i soldati consisteva nell’attraversare la linea di demarcazione tra anticonciliatorismo e conciliatorismo – non rappresentando in tal modo una reale minaccia rispetto a un esito moderato della rivoluzione. Sfortunatamente o fortunatamente, dipende dal punto di vista da cui ci si pone, in marzo i bolscevichi puntarono sulla loro possibilità di conquistare i soldati alla loro attitudine anticonciliatorista riguardo alla “guerra imperialista” della Russia.

 

Uno slogan sale alla ribalta

Gli editoriali di Kamenev e Stalin invocanti una campagna con proposte di pace concrete comparivano il 15 e il 16 marzo. Il 18 marzo Comitato centrale bolscevico autorizzava “l’organizzazione di una campagna contro la guerra, con mobilitazioni di massa nei distretti e la presentazione di risoluzioni” [33]. La campagna avrebbe dovuto ruotare intorno alla richiesta che il Soviet costringesse il governo a iniziare colloqui di pace – in altri termini, che il Soviet stesso agisse come un governo.

Lo stesso giorno, 18 marzo, Alexandra Kollontai arrivava a Pietrogrado con in mano l’articolo di Zinoviev sui trattati segreti [34]. Quasi immediatamente, il potenziale insito nella questione dei trattati segreti balzava agli occhi degli attivisti bolscevichi. Traccerò ora con puntigliosa esattezza come lo slogan sui trattati ebbe a diffondersi nel discorso bolscevico, nonché in quello del soviet più in generale. Una volta disposti tutti i punti fattuali specifici, saremo in grado di fare un passo indietro così da visualizzare lo schema generale.

Persino prima della pubblicazione dell’articolo di Zinoviev, l’influenza della sua argomentazione sui redattori della Pravda si faceva sentire. Un articolo non firmato del 21 marzo (un numero che includeva anche la Lettera da lontano di Lenin) menzionava per la prima volta il fallimento da parte del Governo provvisorio nel ripudiare i trattati segreti:

Ma quando fanno appello agli altri popoli perché muovano guerra contro il loro imperialismo, le masse lavoratrici russe dovrebbero innanzitutto dichiarare risolutamente guerra contro le aspirazioni imperialiste del loro paese. Al momento, le aspirazione annessioniste dello zarismo rimangono il programma ufficiale della Russia, poiché il nuovo governo del paese non ha fretta di ripudiarle. Per ora, i proletari cui vengono rivolti appelli al grido della sollevazione rivoluzionaria russa, sono stati ingannati dagli imperialisti e dai loro tirapiedi, i social-sciovinisti. Questi signori si avvalgono di un fatto vergognoso per la Russia libera: il Governo provvisorio non ha emesso neanche un pigolio sul ripudiare i trattati segreti [35].

L’articolo di Zinoviev “Guerra e rivoluzione” (scritto, ricordiamolo, all’inizio di marzo) comparve sulla Pravda il 25 e 26 marzo. Fatto notevole, per quanto mi è dato sapere, questo articolo segna il primo ricorso alla parola “trattati” nel discorso, non solo dei bolscevichi, ma più in generale del soviet nel periodo post-febbraio [36]. Prima di questo articolo, vi era una moltitudine di appelli per “una pace senza annessioni e indennizzi” e, occasionalmente, una vaga consapevolezza che i nuovi obiettivi di pace richiedevano un “ripudio” (otkaz) di quelli che, eufemisticamente, venivano definiti “obblighi” nei confronti degli alleati. Il 18 marzo un articolo sull’Izvestiia (controllato dai socialisti moderati) parlava della volgare diplomazia sottobanco di Rasputin e compari, ma anche questo testo si fermava prima di menzionare i “trattati” [37.

L’assenza della parola “trattati” non è solo una questione di vocabolario. L’uso di questo termine spostava automaticamente l’attenzione della gente sul fatto che il Governo provvisorio era ancora vincolato agli obiettivi di guerra “imperialisti. L’aggettivo “segreti” rafforzava l’irritante consapevolezza che la base del soviet non sapeva neanche perché il paese stava combattendo. Richiedere la pubblicazione dei trattati segreti era dunque lo slogan ideale per una campagna di agitazione mirante a “strappare la maschera” agli imperialisti, oltreché a informare le masse circa i reali motivi del conflitto.

Così la pubblicazione dell’articolo di Zinoviev rappresentava un’autentica svolta nel punto di vista della base del soviet. Il nuovo slogan si fece rapidamente notare. Il 29 marzo, i trattati segreti facevano la loro comparsa nell’alta politica, nel corso di un dibattito alla conferenza nazionale dei soviet dedicata alla politica da assumere verso la guerra. Il portaparola del conciliatorismo, Irakli Tsereteli, presentava una bozza di risoluzione; il bolscevico Viktor Nogin proponeva un emendamento che richiedesse la pubblicazione dei trattati segreti. Tsereteli argomentava quindi contro la pubblicazione e l’emendamento avanzato veniva clamorosamente sconfitto [38]. In tal modo lo slogan poneva alla portata di tutti lo scontro fondamentale tra menscevichi e bolscevichi, fra conciliatoristi e anticonciliatoristi.

La richiesta della pubblicazione dei trattati segreti, pochi giorni dopo. fu una cartina di tornasole per il conciliatorismo anche in una conferenza di partito dei socialisti rivoluzionari. Il 3 aprile, Boris Kamkov – futuro leader dei socialisti rivoluzionari di sinistra, nonché membro del Consiglio dei commissari del popolo – sottolineava che “il Governo provvisorio borghese ha confermato nella sua dichiarazione tutti i trattati e contratti conclusi con l’Inghilterra e la Francia dal governo zarista alle spalle del popolo”. Egli faceva appello perché si costringesse il governo a pubblicare questi trattati. Pitrim Sorokin, dell’ala destra del partito, così replicava: “Sono felice per il narod russo – il quale ha mostrato maggior senso politico e comprensione storica dei nostri compagni internazionalisti. Coloro che invitano a strappare i trattati con l’Inghilterra e la Francia stanno conducendo la Russia, non solo in una posizione isolata, ma verso un possibile guerra con in nostri attuali alleati” [39]. La minaccia agitata da Sorokin divenne tematica ricorrente nelle polemiche conciliatoriste: restare leali ai nostri nobili alleati, altrimenti ci pugnaleranno alla schiena. E no si sbagliava di molto! Così, già all’inizio di aprile, alla vigilia del rientro di Lenin, la questione dei trattati segreti indicava la linea di frattura lungo la quale il partito dei socialisti rivoluzionari si sarebbe, in seguito, diviso.

Ancora più portentosa fu la prima apparizione dello slogan in una risoluzione dal basso:

In data 31 marzo 1917, i soldati e gli ufficiali del battaglione di riserva del reggimento della Guardia finlandese, con i delegati del reggimento in servizio attivo, si sono riuniti in un raduno di massa; dopo aver ascoltato i rappresentanti delle fabbriche del distretto Vasileostrovsky, Pietrogrado, e considerata la situazione attuale, hanno adottato all’unanimità la seguente risoluzione: …

3. Insistiamo perché il Governo provvisorio proceda immediatamente a colloqui con gli alleati circa i preparativi per concludere la pace e, inoltre, che si muova verso la pubblicazione dei trattati segreti, in accordo con gli alleati [40].

La richiesta di pubblicazione era in questo caso ancora cautamente avvolta nel linguaggio su un “accordo con gli alleati”. La risoluzione dunque andrebbe vista (secondo le parole di Sukhanov) solo come “la prima rondine” preannunciante la primavera [41]. Ben presto, a partire da quel momento, gli operai della fabbrica di lamina di rame Rosenkrants mostrarono assai meno ritegno. Il 4 aprile, facevano passare all’unanimità una risoluzione di questo tenore: “Riconoscendo il pericolo nascosto nell’irresponsabile politica estera del Governo provvisorio – un gioco che si svolge all’oscuro del narod – chiediamo a questo stesso governo di rendere disponibili pubblicamente tutti i trattati conclusi dal vecchio regime con i governi alleati [42].

Le chiuse erano ormai aperte. La parola “Trattati”, nel senso rilevante datole dalla Pravda, è attestata qualcosa come ottanta volte già solo in aprile. La pubblicazione dei trattati segreti veniva immediatamente riconosciuta come un’istanza specificamente bolscevica, come rivela il seguente aneddoto riferito dal giornalista francese Claude Anet. L’episodio ebbe luogo il 9 aprile venne riportato da Anet in un libro pubblicato nell’estate del 1917:

Una discussione iniziò con un lavoratore seduto accanto a noi, il quale stava ascoltando i discorsi tenuti dalla tribuna [del Soviet di Pietrogrado] e manifestava la propria disapprovazione. Questo compagno parteggiava per Lenin, e il sottufficiale lo attaccava con forza e franchezza…

Il leninista non era convinto e diceva: “Non voglio fare una guerra di cui non capisco niente. Chiedo che i trattati segreti tra Russia, Francia e Inghilterra mi vengano mostrati”. Ma il sottufficiale replicava: “Così che la Germania possa trarne profitto?”.

Il leninista, sentendosi mancar il terreno sotto i piedi, cercava rifugio nella questione delle classi: “Chi ci governa? I borghesi! Questo Shingarev è un monarchico. Dovremmo prendere il potere”… il tizio si fece da parte borbottando [43].

Anet, la cui preoccupazione era la continuità dello sforzo bellico russo nel momento del bisogno da parte della Francia, ritraeva il sottufficiale come facile vincitore nella discussione – ma si ha il sospetto che se la stesse raccontando per farsi coraggio.

Diversamente da “Tutto il potere ai soviet!”, non vi era un’unica versione sancita e canonica dello slogan sui trattati segreti. Oltre a “pubblicazione”, mi sono imbattuto nelle seguenti forme di espressione, le quali tutte evidenziano differenti aspetti dela parola d’ordine:

—oglashenie, rendere qualcosa di pubblico dominio, farlo oggetto di glasnost

obnarodovanie, rendere qualcosa disponibile al Narod

vskrytie, scoprire, rivelare ciò che è nascosto

Come ho sottolineato nel post con cui si apre questa serie, lo slogan gemello “Tutto il potere ai soviet!” emerse per la prima volta in un documento del Partito bolscevico all’inizio di maggio, in un semplice mandato in cui si descriveva in dettaglio tutto ciò che ogni bolscevico avrebbe dovuto sostenere, tanto nei soviet nazionali che in quelli locali. Sebbene lo slogan sui trattati fosse già alquanto noto in quel mese, il Mandato in questione ne conteneva una versione trascinante:

L’attuale guerra è stata iniziata dagli zar, da re coronati e rapinatori capitalisti senza corona; è una guerra predatoria, la quale porta solo morte e distruzione a tutti i popoli del mondo, ma milioni in profitti ad un pugno di capitalisti. I trattati segreti, firmati da Nicola il sanguinario con i capitalisti inglesi e francesi, non sono stati a tutt’oggi pubblicati. Eppure, il sangue scorre tutt’ora a causa di questi oscuri e turpi trattati.

A meno che il vlast non passi nelle mani di operai, soldati e contadini poveri – coloro che si rifiutano realmente di essere predoni – continueremo a versare il nostro sangue solo per servire gli interessi di un pugno di capitalisti e grandi proprietari terrieri [44].

Fino a questo punto ho eluso le opinioni sulla questione dei trattati sostenute dal leader del partito. Cosa pensava Lenin dello slogan “Esigiamo la pubblicazione dei trattati segreti!”? Lenin non ebbe l’idea di fare uno scandalo dei trattati segreti, ma vide istantaneamente il loro potenziale. Il suo ruolo in quest’occasione fu molto simile a quello svolto per lo slogan gemello “Tutto il potere ai soviet!” (egli ebbe notizia della comparsa dello slogan su uno striscione e lo promosse). Gli scrupoli di Lenin non riguardavano il contenuto dello slogan, bensì la sua forma: la sua obiezione si concentrava sull’avanzare una “rivendicazione” presso un governo borghese, poiché, questo il suo ragionamento, non vi era alcuna possibilità che tale esecutivo andasse incontro a una simile richiesta. Perché diffondere illusioni tra le masse? Questo scrupolo ebbe impatto pari a zero sul lavoro nelle caserme e nelle fabbriche svolto dagli agitatori bolscevichi, i quali confidavano che queste “rivendicazioni” strappassero la maschera del governo esponendone la reale natura. A un certo punto Lenin sembrerebbe aver scrollato le spalle circa le “rivendicazioni”, ma non smise mai sbattere i pugni sul tavolo sui trattati segreti.

Lenin parlò per la prima volta del sostegno espresso da Miliukov per i trattati segreti del governo zarista il 12 marzo, in una delle Lettere da lontano mai giunta a Pietrogrado [45]. Molto probabilmente la sua attenzione su tale questione venne richiamata da Zinoviev, il cui articolo venne scritto pochi giorni dopo. Da questo momento, Lenin avrebbe citato i trattati segreti continuamente. Il suo scrupolo riguardo alle rivendicazioni non gli impediva di apprezzare il potenziale della questione:

Non meritano alcuna fiducia le promesse dell’attuale governo di rinunciare alla politica imperialista. La nostra linea politica non consistere qui nel dire che esigiamo dal governo la pubblicazione dei trattati. Sarebbe un’illusione. Esigere questo da un governo di capitalisti sarebbe come rivendicare la divulgazione delle tariffe commerciali. Se diciamo che bisogna rinunciare alle annessioni e agli indennizzi, dobbiamo indicare anche il modo in cui farlo, e, se ci si domanda chi lo farà, risponderemo che si tratta, in sostanza, di un atto rivoluzionario, che potrà essere compiuto soltanto dal proletariato rivoluzionario [46].

Lenin poteva evitare di avanzare “rivendicazioni” perché non era in una fabbrica, a proporre risoluzioni o preparare striscioni per una manifestazione. nel momento in cui si accostò a simili attività, ebbe una sorta di slittamento. In una bozza di istruzioni per i deputati bolscevichi nei soviet, incluse quanto segue: “3. Il nostro deputato deve pronunciarsi per l’immediata pubblicazione dei trattati segreti di brigantaggio (che prevedono lo strangolamento della Persia, la spartizione della Turchia, dell’Austria, ecc.) conclusi tra l’ex zar Nicola e i capitalisti d’Inghilterra, di Francia, ecc.” [47]. Il “pronunciarsi” per qualcosa si avvicinava molto al rivendicare qualcosa! Forse Lenin si trattenne, dato che questa bozza non venne pubblicata nel 1917.

Quale che fosse il suo pensiero riguardo alle “rivendicazioni”, Lenin chiaramente riteneva la questione dei trattati segreti un’affidabile stima dell’influenza bolscevica. Una delle ragioni per cui una massiccia dimostrazione svoltasi a Pietrogrado il 18 giugno venne considerata uno spartiacque, in merito all’influenza dei bolscevichi, fu proprio la presenza di tale questione tra gli striscioni:

Il mezzo milione circa di manifestanti. L’unità dell’offensiva concorde. L’unità attorno alle parole d’ordine tra le quali giganteggiavano: «Tutto il potere ai soviet», «Abbasso i dieci ministri capitalisti», «Né pace separata coi tedeschi, né trattati segreti coi capitalisti anglo-francesi», ecc. Nessun testimonio della manifestazione dubita più del trionfo di queste parole d’ordine fra l’avanguardia organizzata delle masse degli operai e dei soldati russi [48]

L’habitat naturale dello slogan sui trattati era la manifestazione movimentata, il raduno turbolento. Un esempio paradigmatico dello slogan in azione è questo trafiletto, riproposto qui nella sua interezza, tratto dalla Pravda del 12 aprile:

Pubblicate i trattati segreti!

Dopo una conferenza di G. Zinoviev nell’aula magna dell’Istituto politecnico (circa 2000 presenti), la seguente risoluzione è stata proposta da un componente dell’uditorio e unanimemente approvata: con questo incontro si richiede l’immediata pubblicazione, da parte del Governo provvisorio tramite il Soviet dei deputati degli operai e dei soldati, di tutti i trattati segreti conclusi dalla cricca dei Romanov [49].

Zinoviev teneva un’infuocata “conferenza”, un anonimo “componente dell’uditorio” proponeva lo slogan, il quale veniva unanimemente approvato mentre la risoluzione derivante veniva stampata dalla Pravda. I bolscevichi, in quanto partito, potrebbero non essere ricordati per la richiesta di pubblicazione dei trattati rivolta al Governo provvisorio, ma i suoi dirigenti incoraggiarono attivamente altri ad agire in tal senso. Essi calcolarono che i seguenti slogan erano funzionalmente equivalenti: “Esigiamo che il Governo provvisorio pubblichi i trattati segreti” equivalente a “Esigiamo un Governo provvisorio che pubblichi i trattati segreti”, ovvero, “Tutto il potere ai soviet!”. I bolscevichi confidavano che la base del soviet avrebbe presto stabilito la stessa equazione, una fiducia ben riposta.

Secondo Rex Wade, la questione dei trattati segreti svanì dal dibattito politico principale nei mesi estivi [50]. In contrasto con ciò, a giudicare dalle pagine della Pravda, non sparì mai come discorso centrale per i bolscevichi, e numerose importanti risoluzioni continuarono a venir emesse da raduni di massa in settembre e ottobre. La campagna di agitazione lanciata a metà marzo proseguiva, e Zinoviev manteneva la sua titolarità sulla questione. Alla fine di settembre, in un pamphlet intitolato Cosa vogliono i socialdemocratici bolscevichi?, egli rispondeva all’interrogativo “cosa dobbiamo fare ora, in questo momento, al fine di ottenere la pace il più presto possibile?” affermando: “I trattati segreti conclusi dallo zar devono essere pubblicati. Questi trattati vanno revocati e consegnati all’esecrazione… Lasciamo che il mondo veda come la Rivoluzione russa stappa i trattati conclusi dallo zar, dai re e dai banchieri” [51].

In ottobre, il pieno potere al soviet veniva proclamato e il nuovo partito dominante pubblicava immediatamente i trattati segreti. Un atto che fornisce una degna conclusione alla nostra biografia di uno slogan.

 

Conclusioni

Vediamo ora di trarre una qualche morale da questa storia – o, se si preferisce, qualche promemoria.

Lo slogan sui trattati si diffuse con grande rapidità. Sulla base delle evidenze attuali, non più di una settimana intercorse tra la prima menzione dei trattati segreti, contenuta nell’articolo di Zinoviev pubblicato sulla Pravda il 25/26 marzo, e la sua prominente presenza nei dibattiti al massimo livello e alla conferenza nazionale dei soviet, così come nelle risoluzioni emesse in occasione di raduni di massa. Alla fine di marzo, i pianeti erano perfettamente allineati: i bolscevichi avevano appena lanciato una campagna di agitazione al fine di esporre la natura imperialista del Governo provvisorio, inoltre, lo scontro tra il Soviet di Pietrogrado e Miliukov stava prendendo piede. Ma in definitiva, lo slogan doveva la sua costante forza al modo in cui esprimeva vividamente alcune delle questioni fondamentali della rivoluzione.

Poiché faceva emergere la linea di frattura tra conciliatorismo e anticonciliatorismo interna alla democrazia rivoluzionaria, la richiesta di pubblicare i trattati segreti può davvero essere definita come lo slogan gemello di “Tutto il potere ai soviet!”. Entrambi i campi della democrazia rivoluzionaria aborrivano i trattati segreti e volevano ripudiarli in favore di obiettivi di pace democratici. Ma i conciliatoristi intendevano rivedere tali obiettivi mediante un accordo col Governo provvisorio e gli alleati, mentre i bolscevichi e la fazioni anticonciliatoriste negli altri partiti volevano pubblicare i trattati immediatamente (e in questo modo, sebbene lo negassero, una simile rivendicazione prefigurava una pace separata).

La linea del fronte tra conciliatorismo e anticonciliatorismo era tracciata e pienamente evidente a tutti al più tardi entro la fine di marzo – prima del rientro di Lenin e delle Tesi di aprile. L’interazione tra la line di frattura del conciliatorismo e il sistema partitico era anch’essa in corso: uno dei tre principali partiti socialisti era unito introno all’anticonciliatorismo, mentre gli altri due partiti avevano una dirigenza conciliatorista, ma anche solide correnti anticonciliatoriste che ne minacciavano l’unità.

La personale ostilità di Lenin nei confronti delle “rivendicazioni” aveva poca importanzapolitica. Egli temeva che avanzare rivendicazioni avrebbe potuto creare, tra le masse inesperte, l’illusione che il Governo provvisorio avrebbe effettivamente agito nel rispetto delle sue promesse. I praktiki bolscevichi confidavano che avanzare rivendicazioni avrebbe “strappato la maschera” dalla mancanza di sincerità del governo, e il loro punto di vista prevalse.

Sin dall’inizio Kamenev e Stalin erano seri circa il prendere il potere e mantenerlo, inoltre proposero una serie di metodi, in definitiva efficaci, per raggiungere l’obiettivo. Sulla difensiva, i bolscevichi dovevano dissociarsi da qualsiasi residuo di “disfattismo” o semi-sabotaggio dell’esercito. Nell’offensiva, dovevano trovare modalità fattive miranti a diffondere il messaggio anticonciliatorista tra i soldati. La loro logica anticonciliatorista è chiaramente affermata nei documenti dell’epoca. Sfortunatamente, la narrazione corrente del riarmo ha instillato un così forte pregiudizio, riguardo a una presunta sprovvedutezza dei bolscevichi prima delle Tesi di aprile, che tali documenti sono rimasti nascosti in piena vista.

I dirigenti bolscevichi lavorarono insieme e non su obiettivi contrastanti. La storia dello slogan sui trattati segreti mostra Lenin, Zinoviev, Kamenev e Stalin valutare in termini simili e in modo indipendente la situazione, per giungere a soluzioni largamente analoghe. Tutti ritenevano che la sfida consistesse nel rispettare il “difensismo in buona fede” delle masse, facendo passare al contempo una linea risolutamente anticonciliatorista. Le incomprensioni tra i vertici circa simili questioni erano di superficie.

Dati che (sorprendentemente?) il protagonista della nostra storia è Grigorii Zinoviev, lascerò a lui l’ultima parola. Egli fece più di chiunque altro per plasmare lo slogan sui trattati segreti e mantenerlo al centro dell’attenzione. Nell’estate del 1917, quando la Pravda era ufficialmente chiusa in seguito alle giornate di luglio, Zinoviev scrisse un piccolo tributo:

Perché hanno chiuso la Pravda? Perché ha lottato contro i capitalisti e i grandi proprietari fondiari; perché ha chiesto la pubblicazione dei trattati segreti dello zar; trattati per i quali si combatte l’attuale guerra; perché ha chiesto il kontrolsull’industria e le banche; perché ha voluto porre freno ai capitalisti.

La Pravda era il giornale e i bolscevichi il partito che esigevano la pubblicazione dei trattati segreti. Nel bene e nel male, questa rivendicazione li aveva definiti, spianando loro la via al potere.


Di seguito le puntate precedenti:
Tutto il potere ai Soviet!
Il proletariato e il suo alleato: la logica dell’«egemonia bolscevica»
Tredici a due: i bolscevichi di Pietrogrado discutono le Tesi di aprile
‘Una questione fondamentale’: le glosse di Lenin alle Tesi di aprile
Il carattere della Rivoluzione russa: il Trotsky del 1917 contro quello del 1924

Note
  1. Peterburgskii komitet RSDRP(b) v 1917 godu: Protokoly i materialy zasedanii, San Pietroburgo, 2003, Belvedere, pp. 119-23.
  2. Pravda, 14 marzo 1917 (per il testo integrale dell’articolo di Zinoviev, si veda, https://weeklyworker.co.uk/worker/1047/bolshevism-was-fully-armed/).
  3. Revoliutsionnoe dvizhenie v Rossii posle sverzheniia samoderzhaviia, Mosca: Academiia nauk SSSR, 1957), 118.
  4. Per una dettagliata discussione dell’argomentazione di Woytinsky, si veda Lih, “The Ironic Triumph of Old Bolshevism: The Debates of April 1917 in Context,” Russian History 38 (2011), pp. 214-5.
  5. Ross, The Russian Bolshevik Revolution (New York: Century Co. 1921), 113. Un precedente libro di Ross, Russia in Upheaval, èstato ripubblicato di recente con un utile commento di Rex Wade (Bloomington: Slavica, 2017); talvolta vi è un sorprendente contrasto di prospettive tra questi due volumi.
  6. Chernov, The Great Russian Revolution (New York: Russell and Russell, 1964 [1936]), 197-8.
  7. Chernov, Great Russian Revolution, 193-4.
  8. Rex Wade, The Russian Search for Peace: February-October 1917 (Stanford, CA: Stanford University Press, 1969), pp. 43, 67, 87.
  9. Pravda, 12 aprile 1917 (discorso tenuto presso la fabbrica Izmailov).
  10. Wade, Russian Search, 116-7.
  11. Russian Bolshevik Revolution, 131-4.
  12. Hal Draper, The Myth of Lenin’s “Revolutionary Defeatism”, pubblicato inizialmente in New International, vol. XIX N. 5 e 6 and vol. XX N. 1 (1953-1954). Il testo è reperibile in rete su MIA: https://www.marxists.org/archive/draper/1953/defeat/index.htm.
  13. IV congresso, Discorso di chiusura sul rapporto per la ratifica del Trattato di pace (Lenin, Opere complete, Editori Riuniti, 1967, vol. XXVII, pp. 171-172). Il testo dell’appello di Krylenko è contenuto in Lenin, “Il bolscevismo e la «disgregazione» dell’esercito” (3 giugno 1917), in Opere complete, Editori Riuniti, 1966, vol. XXIV, p. 578.
  14. Discorso alla riunione dei bolscevichi partecipanti alla Conferenza dei soviet dei deputati operai e soldati di tutta la Russia, in Lenin, Opere complete, Editori Riuniti, 1969, vol. XXXVI, p. 316.
  15. Come sottolineato da Draper, l’asserzione di Lenin secondo la quale in Europa occidentale non vi era “difensismo in buona fede” è assai dubbia (Rapporto sulla situazione attuale e l’atteggiamento verso il Governo provvisorio, 14 aprile, in Lenin, Opere complete, Editori riuniti, 1966, vol. XXIV, p. 138).
  16. Lenin, Discorso alla riunione dei bolscevichi partecipanti alla Conferenza dei soviet dei deputati operai e soldati di tutta la Russia, in Lenin, Opere complete, Editori Riuniti, 1969, vol. XXXVI, pp. 317-320.
  17. Draper, Myth.
  18. Lettera aperta ai delegati del Congresso dei deputati contadini di tutta la Russia, in Lenin, Opere complete, Editori Riuniti, 1966, vol. XXIV, pp. 380-381.
  19. 3 settembre 1917, Progetto di risoluzione sulla situazione politica attuale (Lenin, Opere complete, Editori Riuniti, 1967, vol. XXV, p. 299]. La “Divisione selvaggia” era una divisione di volontari di cavalleria del Caucaso rimasta fedele al Governo provvisorio.
  20. Si veda la terza parte di questa serie.
  21. Si veda la terza parte di questa serie.
  22. Stalin, “Le cause della sconfitta di luglio al fronte”, in Opere complete, Edizioni Rinascita, 1955, vol. 3, p. 265.
  23. I commenti di Lenin vennero espressi durante un discorso al III congresso dell’Internazionale comunista, luglio 1921, e non vennero pubblicati fino agli anni Cinquanta; si veda Lenin, Opere complete, Editori Riuniti, 1968, vol, XLII, p. 303].
  24. Peterburgskii komitet, pp. 119-23.
  25. Si noti il titolo del pamphlet di Lenin pubblicato in autunno: “I bolscevichi conserveranno [uderzhat’] il vlast?”.
  26. La mia ricostruzione degli eventi è basata in larga parte su Aleksandr Shliapnikov, Kanun semnadtsatogo goda; Semnadtsatyi god, 3 vols, (Mosca: Respublika, 1992), 2:452.
  27. Stalin, “La guerra”, Pravda, 16 marzo 2017 , in Opere complete, Edizioni Rinascita, 1955, vol. 3, p. 14.
  28. “Come attuare la lotta per la pace?”, Pravda, 16 marzo 1917.
  29. Si veda ad esempio, Alexander Rabinowitch, Prelude to Revolution: The Petrograd Bolsheviks and the July 1917 Uprising (Bloomngton, IL: Indiana University Press, 1968).
  30. Osservazioni al Comitato di Pietroburgo, 18 marzo 1917, (Peterburgskii komitet, 119-23).
  31. Citao in Lih, “Ironic Triumph”. Per commenti simili da parte di praktiki bolscevichi come Sergei Bagdatev, si veda la quarta parte di questa serie.
  32. Si vedano gli articoli prebellici raccolti in Lev Kamenev, Mezhdu dvumia revoliutsiiami(Mosca: Tsentrpoligraf, 2003 [1922]).
  33. Voprosy Istorii KPSS, 1962, p. 152.
  34. Questa asserzione è basata su prove circostanziali; si veda la terza parte di questa serie.
  35. Pravda, 21 marzo.
  36. Un’affermazione sull’assenza di qualcosa deve rimanere sempre in qualche modo al condizionale, ma anche se fossero state trovate citazioni precedenti, la mia interpretazione ne risulterebbe a stento modificata. Oltre che su un’accurata ricerca tra le pagine della Pravda, le mie conclusioni si basano su un esame delle raccolte standard di documenti, nonché sulle evidenze fornite dalle memorie di Nikolai Sukhanov e Claude Anet.
  37. The Russian Provisional Government, a cura di Robert Paul Browder e Alexander F. Kerensky (Stanford, CA: Stanford University Press, 1961), 1081-2.
  38. Wade, Russian Search, 30, cf. 83-4.
  39. 37-9. Partiia sotsialistov-revoliutsionerov: dokumenty i materialy, vol. 3, part 1 (Moscow, ROSSPEN, 2000).
  40. Pravda, 7 aprile 1917.
  41. Sukhanov stava seguendo le opinioni dei soldati sulla guerra ingenerale, non lo slogan sui trattati in particolare. Nikolai Sukhanov, Zapiski o revoliutsiia, 3 vols. (Moscow: Izdatel’stvo politicheskoi literatury, 1991).
  42. Pravda, 6 aprile 1917.
  43. Eyewitness to the Russian Revolution, a cura di Todd Chretien (Chicago: Haymarket Books: 2017), 45 (un’utilissima raccolta di resoconti diretti di partecipanti).
  44. Per il testo integrale, si veda la prima parte di questa serie.
  45. Lenin, Opere complete, Editori Riuniti, 1965, vol. XXIII, p. 298.
  46. Lenin, Opere complete, Editori Riuniti, 1966, vol. XXIV, p. 234.
  47. Lenin, Opere complete, Editori Riuniti, 1966, vol. XXIV, p. 365.
  48. Lenin, Opere complete, Editori Riuniti, 1967, vol. XXV, p. 101.
  49. Pravda, 12 aprile 1917.
  50. Wade, 101-4.
  51. Zinoviev, God revoliutsii, p. 227.

Link al post originale in inglese John riddell

* * * *

Gli editoriali sulla guerra pubblicati nel marzo 1917 da Kamenev e Stalin

1. Kamenev, ‘Senza diplomazia segreta

Pravda, 16 marzo 1917

La guerra continua, la Grande rivoluzione russa non le ha posto fine. E nessuno nutre la speranza che si concluderà domani o il giorno dopo. I soldati, i contadini e gli operai della Russia, andando alla guerra al richiamo dello zar rovesciato e versando sangue sotto i suoi vessilli, si sono liberati, e gli stendardi zaristi sono stati sostituiti dalle bandiere rosse della rivoluzione. Ma la guerra continuerà, dato che l’esercito tedesco non sta seguendo l’esempio di quello russo ed esegue ancora gli ordini del suo imperatore, il quale mira avidamente al bottino sui campi della morte.

Quando un esercito è schierato contro un esercito, la politica più assurda è quella che propone che una parte alzi le braccia e sbandi verso casa. Tale politica non sarebbe una politica di pace, bensì’ una politica di schiavitù – una politica che un popolo libero [narod] rigetterebbe con indignazione. No – rimarrà saldo al suo posto, rispondendo con proiettile a proiettile e con granata a granata. Questo è indisputabile.

I soldati e gli ufficiali rivoluzionari che si sono disfatti del giogo dello zarismo non lasciano le trincee al fine di spianare la strada al soldato e all’ufficiale tedesco o austriaco, il quale non ha ancora trovato il coraggio di sbarazzarsi del giogo del proprio governo. Non dobbiamo permettere alcuna disorganizzazione delle forze armate della rivoluzione! La guerra deve finire in modo organizzato, con un trattato fra popoli che si sono liberati, non con la sottomissione al volere di un vicino conquistatore imperialista.

Ma un narod liberato ha il diritto di conoscere per cosa sta combattendo, ha il diritto di determinare i propri obiettivi e compiti in una guerra che non ha concepito. Dovrebbe annunciare, non solo ai suoi amici, ma anche ai suoi nemici, che non si batte per alcuna conquista né per l’acquisizione di alcuna terra straniera, e che offre a ogni nazionalità di decidere come costruire il proprio destino.

Ma questo è lontano dall’essere tutto. U popolo liberato deve dire apertamente a tutto il mondo che, in ogni momento, è pronto a iniziare colloqui riguardo alla conclusione della guerra. Dato il rifiuto delle annessioni e degli indennizzi, nonché il riconoscimento del diritto da parte delle nazioni all’autodeterminazione, dobbiamo essere pronti a dare inizio a colloqui in qualsiasi momento circa la liquidazione della guerra. La Russia è vincolata nell’alleanza con l’Inghilterra, la Francia e altri paesi. La Russia non può agire nelle questioni della pace senza tenerne conto. Ma ciò significa solo che la Russia rivoluzionaria, libera dal giogo zarista, deve approcciarsi liberamente e direttamente ai propri alleati con una proposta mirante a rivedere la richiesta di iniziare colloqui di pace. Quale sarà la risposta degli alleati non lo sappiamo, proprio come non sappiamo quale risposta darà la Germania, se la proposta verrà effettivamente avanzata.

Ma sappiamo una cosa: solo allora [dopo che una risposta sarà data alle proposte di pace] i popoli, trascinati in una guerra imperialista contro la loro volontà, saranno in grado di dare un responso chiaro sulle ragioni per le quali tale guerra è stata combattuta. E quando milioni di soldati e operai in tutti i fronti vedranno nitidamente i reali obiettivi dei governi che li hanno sprofondati nella sanguinaria carneficina, ciò non significherà soltanto la fine della guerra, ma anche un passo decisivo contro il sistema di violenza e sfruttamento che causa le guerre.

Non la disorganizzazione dell’esercito rivoluzionario – non il vuoto [privo di contenuti] slogan “Abbasso la guerra!” – questi non sono i nostri slogan. Il nostro slogan è invece: pressione sul Governo provvisorio con l’obiettivo di costringerlo apertamente, di fronte alle masse popolari di tutto il mondo, a tentare immediatamente di portare tutti i paesi belligeranti a una subitanea apertura di colloqui circa le modalità per porre fine alla guerra.

E sino ad allora, ognuno resti al proprio posto.

Dunque, salutando con fervore l’appello impresso sopra il Soviet dei deputati degli operai e dei soldati “A i popoli di tutto il mondo”, vediamo tale appello solo come l’inizio di un’ampia ed energica campagna per il trionfo della pace e la fine del bagno di sangue globale.

 

2. Stalin ‘La guerra’

Pravda, 16 marzo 1917

Giorni fa il generale Kornilov ha informato il soviet dei deputati degli operai e dei soldati di Pietrogrado che i tedeschi stanno preparando un’offensiva contro la Russia.

Rodzianko e Guckov hanno rivolto in questa circostanza un proclama all’esercito e alla popolazione perché si preparino a combattere fino in fondo.

La stampa borghese ha lanciato un grido d’allarme: “La libertà è in pericolo, viva la guerra!”. Anche una parte della democrazia rivoluzionaria russa si è associata a questo grido d’allarme…

A sentire gli allarmisti si potrebbe pensare che in Russia si siano create condizioni che ricordano quelle del 1792 in Francia, allorché i monarchi reazionari dell’Europa centrale e orientale si coalizzarono contro la Francia repubblicana per restaurarvi il vecchio regime.

Se l’attuale situazione della Russia corrispondesse effettivamente alla situazione della Francia del 1792, se ci trovassimo di fronte a una particolare coalizione di monarchi controrivoluzionari avente l’obiettivo di restaurare in Russia il vecchio vlast, non v’è dubbio che la socialdemocrazia, così come i rivoluzionari della Francia di allora, si leverebbe come un sol uomo a difendere la libertà. Perché è ovvio che la libertà conquistata con il sangue deve essere difesa, con le armi in pugno, da tutte le manovre e le iniziative controrivoluzionarie, da qualsiasi parte essi vengano. Ma è forse questa la situazione reale?

La guerra nel 1792 fu una guerra mossa contro la Francia repubblicana dai monarchi feudali assoluti, spaventati dall’incendio rivoluzionario scoppiato in Francia. La guerra aveva lo scopo di spegnere questo incendio, di restaurare in Francia il vecchio regime, garantendo così ai monarchi atterriti che il contagio rivoluzionario non sarebbe dilagato nei loro paesi. Appunto per questo i rivoluzionari francesi hanno combattuto così eroicamente contro gli eserciti monarchici.

La guerra attuale è completamente diversa. Essa è una guerra imperialista e il suo obiettivo fondamentale è la conquista (l’annessione) di territori stranieri, soprattutto agricoli, da parte degli Stati capitalisti sviluppati. Questi ultimi hanno bisogno di nuovi mercati di sbocco, di comode vie di comunicazione con questi mercati, di materie prime, di risorse minerarie ed essi cercano di impadronirsi di tutte queste cose dovunque le trovino, indipendentemente dall’ordinamento interno del paese che viene conquistato.

Ecco perché la guerra attuale non porta e non può portare, in generale, a un’inevitabile intromissione negli affari interni del paese conquistato, nel senso di una restaurazione in esso del vecchio regime.

Appunto per questo, data la situazione odierna della Russia, non v’è nessuna ragione di suonare le campane a martello e di gridare ai quattro venti: “La libertà è in pericolo, viva la guerra!”.

La presente situazione della Russia ricorda piuttosto la Francia del 1914, la Francia del periodo iniziale della guerra, quando la guerra fra la Germania e la Francia apparve inevitabile.

Come adesso in Russia sulla stampa borghese, così allora in Francia, nel campo borghese, si lanciò il grido d’allarme: “La repubblica è in pericolo, battiamo i tedeschi!”.

Come allora in Francia anche molti socialisti (Guesde, Sembat e altri) si lasciarono prendere da questo allarmismo, così oggi in Russia non pochi socialisti hanno seguito le orme dei borghesi che chiamano alla “difesa rivoluzionaria”.

Il successivo corso degli eventi in Francia dimostrò che si trattava di un falso allarme e che i clamori sulla libertà e sulla repubblica nascondevano la reale ingordigia degli imperialisti francesi, che aspiravano alla conquista dell’Alsazia, della Lorena e della Vestfalia.

Siamo profondamente convinti che lo sviluppo degli avvenimenti in Russia porrà in luce tutta la falsità dei grandi clamori sulla “libertà in pericolo”: il fumo “patriottico” si dissiperà e la gente vedrà con i suoi propri occhi le vere aspirazioni degli imperialisti russi… a conquistare lo Stretto dei Dardanelli, la Persia…

La condotta di Guesde, di Sembat e degli altri è stata giudicata, come si meritava, in sede autorevole, dalle precise risoluzioni dei congressi socialisti di Zimmerwald e di Kienthal (1915-1916) contro la guerra.

Gli avvenimenti successivi hanno confermato quanto fossero giuste e ricche di sviluppi le posizioni di Zimmerwald e di Kienthal.

Sarebbe doloroso se la democrazia rivoluzionaria russa, la quale ha saputo abbattere l’odiato regime zarista, cedesse di fronte ai falsi allarmi della borghesia imperialista, ripetendo gli errori di Guesde, di Sembat…

Quale deve essere il nostro atteggiamento, come partito, verso la guerra attuale?

Quale via ci può condurre praticamente alla più rapida cessazione della guerra?

Innanzitutto è fuor di dubbio che la pura e semplice parola d’ordine “Abbasso la guerra” è assolutamente inadeguata come mezzo pratico per ottenere la cessazione della guerra, poiché essa, in quanto non esce dai limiti della propaganda dell’idea della pace in generale, non esercita e non può esercitare nessuna influenza concreta sulle truppe al fronte.

Proseguiamo. Non si può non salutare l’appello che il soviet dei deputati degli operai e dei soldati di Pietrogrado ha lanciato ieri ai popoli di tutto il mondo perché costringano i propri governi a cessare il massacro. Se l’appello arriverà alle larghe masse, farà tornare, senza dubbio, centinaia e migliaia di operai alla parola d’ordine dimenticata “Proletari di tutti i paesi, unitevi!”.

Ciononostante non si può non osservare che questo appello non produce direttamente l’effetto desiderato. Infatti, anche se sarà largamente diffuso fra i popoli degli Stati belligeranti, difficilmente si può supporre che questi popoli potranno rispondere all’appello finché non vedranno ancora chiaramente il carattere brigantesco della guerra attuale e i suoi fini di conquista. Senza parlare del fatto che, nella misura in cui l’appello condiziona la cessazione dello spaventoso massacro al preliminare abbattimento del regime semiautocratico in Germania, esso rimanda di fatto la cessazione dello spaventoso massacro a tempo indeterminato, scivolando in tal modo nella posizione della “guerra fino in fondo”, poiché non si sa di preciso quando il popolo tedesco riuscirà ad abbattere il regime semiautocratico e se in generale vi riuscirà nel prossimo futuro…

Qual è la via d’uscita?

La via d’uscita è quella di esercitare una pressione sul governo provvisorio, esigendo che dichiari il suo consenso all’apertura immediata di trattative di pace.

Gli operai, i soldati e i contadini devono organizzare comizi e dimostrazioni, devono chiedere al governo provvisorio di compiere apertamente e pubblicamente il tentativo di indurre tutti gli Stati belligeranti a iniziare senza indugio trattative di pace, sulla base del riconoscimento del diritto delle nazioni all’autodecisione.

Solo in questo caso la parola d’ordine “Abbasso la guerra” evita il rischio di trasformarsi in pacifismo vuoto e privo di significato, solo in questo caso questa parola d’ordine può sfociare in una potente campagna politica che smascheri gli imperialisti e riveli la reale essenza della guerra attuale.

Infatti, anche se una delle parti rifiuterà di iniziare le trattative sulla base del principio enunciato, questo stesso rifiuto e cioè la volontà di non abbandonare le velleità aggressive, servirà obiettivamente come mezzo per liquidare più rapidamente lo spaventoso massacro, perché in tal caso i popoli [narody] vedranno con i loro occhi la natura aggressiva della guerra e le mani sporche di sangue dei gruppi imperialisti, per i cui avidi interessi essi dovrebbero sacrificare la vita dei propri figli.

Smascherare gli imperialisti, svelare alle masse la reale essenza di questa guerra, significa appunto dichiarare veramente guerra alla guerra, rendere impossibile la guerra attuale.

K. Stalin


Link al post originale in inglese John Riddell

Add comment

Submit