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lanatra di vaucan

Per la critica del cibo in forma di merce

A proposito del pamphlet di Wolf Bukowski

di Afshin Kaveh

0bd1070f2e5fb2c99af1b4cd83dfafd0.jpegSi intitola La merce che ci mangia. Il cibo, il capitalismo e la doppia natura delle cose (Einaudi 2023, pp. 50, 2,99 euro) ed è l’ultimo libricino – purtroppo non disponibile in formato cartaceo ma edito esclusivamente in ebook – di Wolf Bukowski. L’autore ruota attorno al blog Giap della Wu Ming Foundation, è collaboratore della rivista Internazionale e in passato aveva già dedicato alcuni sforzi riflessivi al medesimo argomento, per esempio nei volumi Il grano e la malerba (Ortica Editrice 2012) e La danza delle mozzarelle (Edizioni Alegre 2015), oltre ad essersi impegnato nella critica alle narrazioni dell’organizzazione urbanistica del “decoro” nel libro La buona educazione degli oppressi (Edizioni Alegre 2018) di cui conservo un piacevole ricordo personale: la sua presentazione a Sassari nel 2020, immersi, alla sera, nella cornice di Piazza Santa Caterina ai piedi della scalinata della facciata della chiesa monumentale.

Da allora non mi sarei mai aspettato che, a distanza di pochi anni, mi sarebbe capitato tra le mani un testo come La merce che ci mangia, una breve ma intensa riflessione critica che prende avvio da una costruzione teorica profondamente diversa dalle precedenti stesure di Bukowski. L’autore, infatti, fin dalle prime battute si domanda: «il cibo è una merce?». Potrebbe sembrare un quesito di poco conto, di frivola importanza, soprattutto di fronte «alle navi cariche di cereali che attraversano gli oceani, alle grigie fabbriche di conserva che divorano pomodori, ma anche alle colorate corsie d’un ipermercato, tra le quali ci smarriremmo se i marchi, le etichette, non ci prendessero per mano», esempi che condurrebbero chiunque a rispondere affermativamente al quesito.

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Perché “La Storia” di Elsa Morante non piacque troppo a sinistra

di Linda Dalmonte

oisfnnLa pubblicazione della Storia di Elsa Morante fu uno di quei casi grandiosi in cui la storia che voleva rappresentarsi da fuori, finì involontariamente per cogliere sé stessa “dal di dentro”. Tutto il dibattito critico che ne seguì, elogi e accuse da più fronti, sono in un certo senso immanenti all’opera: non si può parlare della Storia di Elsa Morante prescindendo dal dibattito letterario che infervorò nell’estate del 1974 (anzi, proprio la congiuntura storica in cui – inconsapevolmente – si inserisce, e che dal romanzo è inseparabile, fa da cartina da tornasole per comprendere il senso storico di quegli anni).

Sulla sinossi non ci soffermiamo: La Storia racconta la vita della maestra “mezza ebrea” Ida Ramundo, e di suo figlio Useppe, nato da uno stupro nel 1941; e ne segue le avversità, gli incontri, i momenti di indigenza, nel corso della seconda guerra mondiale, fino al noto epilogo (qui per i dettagli: https://it.wikipedia.org/wiki/La_storia_(romanzo)).

 

Il successo di massa

Effettivamente, si trattava di un romanzo che non soltanto usciva nel periodo migliore per le vendite, alle soglie dell’estate e del tempo libero che si profilavano nel giugno del ’74. Di più: fu proprio Morante a fare pressioni perché venisse stampato direttamente in edizione economica, col prezzo modicissimo di 2.000 lire (nonostante il rincaro della carta e i forti contraccolpi della crisi del ’73); insieme alla trovata di apporre alla copertina un sottotitolo “audace”, che non poteva che rinvigorire le opinioni di chi ne vedeva un mero battage pubblicitario: «Uno scandalo che dura diecimila anni». La prima tiratura, di centomila copie, si esaurì in brevissimo tempo; spesso accompagnata da uno slogan predisposto da Einaudi: «Un grande romanzo, una lettura per tutti».

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sinistra

La guerra dei Greci e la nostra

di Giovanni Di Benedetto

Recensione del libro di Andrea Cozzo "La logica della guerra nella Grecia antica", Palermo University Press, 2024, Ed. riv. e corr.

unnamed.mdkwhcmIl mondo contemporaneo rischia di precipitare inesorabilmente nel baratro della guerra planetaria. Non si contano più gli scenari geopolitici divenuti teatro di conflitti bellici: Russia e Ucraina, Yemen, Iran e Pakistan, Israele e Palestina, Siria e, in Africa, Libia, Congo, Sudan, Nigeria, Etiopia, per citare i casi più noti. In questo quadro, davvero sconfortante, la pubblicazione dell’ultimo libro di Andrea Cozzo, “La logica della guerra nella Grecia antica” (Palermo University Press, 2024, ed. rived. e corr.), risulta essere quanto mai utile e opportuna, soprattutto per chi si dedica alla professione dell’insegnamento e della trasmissione del sapere.

Il lavoro di Andrea Cozzo si propone, come suggerisce il titolo stesso, di analizzare la costruzione delle retoriche della guerra nella Grecia antica. A una prima superficiale osservazione ci si potrebbe chiedere quale dovrebbe essere il nesso tra lo studio delle guerre nel mondo antico e la riflessione sugli eventi militari dei giorni nostri. Troppo diversi i contesti storici e le forme della riproduzione socioeconomica, in particolare la forma specifica della produzione borghese. Tuttavia, occorre rimarcare che lo studio dell’autore è costruito con lo sguardo rivolto costantemente alla nostra drammatica contemporaneità che, come è a tutti noto, è segnata, come si diceva, dall’esplosione in tutto il mondo di decine di conflitti. Non si pensi dunque a un lavoro le cui riflessioni colte sarebbero confinate alla ristretta cerchia degli specialisti del mondo antico, filologi e storici della lingua greca in primis. Il tentativo del pregevole lavoro di Cozzo è di fare dialogare il mondo antico, con le sue problematiche e le sue contraddizioni, con il presente, per meglio fare luce sui problemi che oggi si pone lo storico, e con lui il lettore e, più in generale, il cittadino consapevole.

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offline

Film da non vedere: “C’è ancora domani” di Paola Cortellesi

di Joe Galaxy

locandina e1702232898301.jpgRecensioni entusiaste, elogi sperticati di amiche e amici, voci che rimbalzano per ogni dove… siamo incuriositi a tal punto che ci siamo decisi: andiamo anche noi a vedere questo mitico film, quello della Cortellesi, “di cui tutti parlano”.

“Fusse che fusse…” e ci trovassimo di fronte a un film che rompe gli schemi ed esce finalmente dai binari del conformismo lecchino e complice, della commediola soporifera e vuota e della soap opera inguardabile e avvilente che intasano i nostri schermi. Andiamo, dunque! Il cinema è persino a cinquecento metri da casa, tutto torna, gli dèi sono con noi, sarà un film bellissimo (o almeno interessante).

Passano due ore (qualcosa in più, a causa del martellamento pubblicitario che precede il film, che non ci molla neanche in questa occasione, figuriamoci…) ed eccoci fuori. Cos’è successo nel frattempo? Se può interessare, ecco le nostre impressioni:

Innazitutto, ‘sto marito che la “corca de bbotte” (per restare al romanesco del film) ci appare subito un po’ troppo marcato. Sicuramente è stato delineato con questi tratti forti perché deve soprattutto rappresentare una sorta di archetipo del maschio patriarca, e simboleggiare un mondo di soprusi intollerabili. Tuttavia questa figura così fortemente caratterizzata rischia di far svanire molte sfumature del dominio patriarcale in famiglia, spesso molto più sottili di una salva di volgari legnate, ma non per questo meno dolorose. Nonché di assolvere a priori la soggettività femminile che invece, spesso, nelle famiglie ha contribuito attivamente a rendere la vita di casa un piccolo inferno (per esempio, accettando senza reagire lo stato di fatto, e anzi mettendoci del proprio) – anche se di solito in modo diverso dal temibile patriarca.

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L’intellettuale combinatorio: Italo Calvino, l’impegno politico e la militanza culturale a cento anni dalla nascita (1923-2023)

di Alessandro Barile

italo calvino biblioteca di sanremo w630Introduzione

Viviamo anni di ricorrenze. Forse non potrebbe essere altrimenti: le vicende politiche, culturali e anche letterarie del primo Novecento ancora ci investono e ci interrogano. E così, a partire dallo scoppio della Prima guerra mondiale, è tutto un rincorrersi di ricordi e celebrazioni. Se ci fermassimo alla sola vicenda letteraria del nostro paese, nel solo 2022 si sono ricordati i cento anni dalla nascita di Luciano Bianciardi, Beppe Fenoglio, Raffaele La Capria, Giorgio Manganelli, Luigi Meneghello, Pier Paolo Pasolini... E nel 2023, va ricordato almeno il nome di Rocco Scotellaro. Autori su cui di fatto il dibattito critico e le iniziative editoriali si sono già compiutamente assestate molti anni or sono: alla fisiologica vastità della letteratura prodotta in occasione del centenario non ha corrisposto un valore significativo, di svolta o di ulteriore affermazione. Chi non era noto al grande pubblico tale è rimasto, mentre i “campioni” letterari (Pasolini su tutti) non hanno di certo avuto bisogno della ricorrenza tonda per sancire la propria popolarità. E poi c’è Italo Calvino, di cui si è celebrato il centenario della nascita proprio nel 2023.

Di tutte le ricorrenze, quella di (e su) Calvino è la più difficile da maneggiare. È l’autore italiano tra i più noti all’estero, e su cui tanto – forse troppo – si è scritto sin dalla metà degli anni Cinquanta. La bibliografia che lo riguarda è smisurata, contando diverse decine di migliaia di testi, monografie, articoli. Per di più, è un autore che ha trovato immediato riscontro positivo sia nella critica letteraria che nella ricezione pubblica di massa, stabilendo una felice quanto problematica relazione tra cultura pop e accademica. È d’altronde lui stesso a riconoscerlo, precocemente, nel 1956:

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quadernidaltritempi

Sulla narrazione dei limiti: dalla realtà ai suoi modelli

di Filippo Scafi

jolly q blau 11.jpgL’ultimo decennio di Hollywood non è stato dei migliori. Scandali di varia natura, scelte ponderate economicamente ma forse non artisticamente, tentativi sempre più forzati di accattivarsi il pubblico – soprattutto dopo il disastro del periodo Covid – hanno portato l’industry a un momento di crisi culminato con lo sciopero di attori e sceneggiatori nella calda estate di quest’anno a Los Angeles, e che continua ancora oggi. Nelle parole di Scorsese, rilasciate a Zach Baron per GQ a settembre, i film ad alto budget e le produzioni in franchising hanno portato Hollywood sull’orlo del precipizio in cui si trova ora (cfr. Zach, 2023). Il 19 ottobre è uscito il suo ultimo film, Killers of the Flower Moon; a partire dall’omonimo libro di David Grann del 2017, Scorsese ripercorre una delle tante pagine oscure dei giovani Stati Uniti d’America degli anni Venti, relativa all’uccisione degli indiani Osage, “proprietari” (o abitatori) di terre ricche di petrolio in Oklahoma. Sono anche gli inizi dell’FBI, e di un personaggio centrale alla storia, sotterranea e non, degli USA come J. Edgar Hoover – nel 2011 interpretato da DiCaprio nel film biografico diretto da Clint Eastwood.

 

Un altro aspetto dell’autorialità

Scorsese, forse come Eastwood, è uno di quei registi che può permettersi di tornare indietro a rimestare nel passato, soprattutto perché ha contribuito a suo modo a costruirlo. Spesso, una tale tentazione è espressa attraverso l’idea di testamento artistico, o come nostalgia di gioventù, come può valere per C’era una volta a Hollywood di Tarantino, o Licorice Pizza di Anderson. Hollywood, che ha sempre assunto l’aura di luogo terreno in cui il Cinema è possibile come espressione artistica, assiste in questi anni a un lavoro sottile ma meticoloso di auto-analisi.

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doppiozero

Walter Benjamin tra salvezza e oblio

di Roberto Gilodi

Walter Benjamin 1280x720 1.jpegChi sono i veri maestri e che cosa impariamo da loro? E noi come ci disponiamo dinanzi a colui che eleggiamo a nostro maestro? Il problema sotteso a queste domande può sembrare anacronistico nell’età dell’informazione globale disponibile in ogni momento e in ogni luogo. In realtà è tutt’altro che inattuale, anzi: la relazione maestro allievo è oggi più necessaria che mai perché restituisce al sapere la sua naturale fisiologia, che è fatta di tempi e di luoghi, di durata, di incertezza, di ostacoli, di sconfitte e successi, perfino di tratti fisiognomici, un impasto di situazioni, un’alternanza di stati emotivi, che toccano le esistenze degli allievi restituendo all’acquisizione del sapere quella dimensione umana che l’offerta infinita e gratuita della rete ha cancellato. 

La collana ‘Eredi’ di Feltrinelli diretta da Massimo Recalcati promuove ormai da molti anni incontri con i maestri affidati alla memoria degli allievi. Allievi, non sempre per avere frequentato direttamente i maestri, anzi, spesso si tratta di relazioni lontane nel tempo, in cui non sono solo in gioco i contenuti insegnati ma anche, e forse soprattutto, gli stili di pensiero. 

Osservando queste relazioni si sono potuti evidenziare i tragitti individuali di apprendimento e con essi la mutazione sostanziale del concetto di magistero nei diversi stadi della Modernità.

A fine Settecento, soprattutto in Germania, non era infrequente incontrare nei romanzi di formazione un Meister, un maestro che insegnava il mestiere ai suoi garzoni di bottega. ’Meister’ non a caso si chiama il protagonista di quello che a torto o a ragione è stato considerato il capostipite dei romanzi di formazione, Gli anni di apprendistato di Wilhelm Meister di Goethe.

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lordinenuovo

Oppenheimer: dal dilemma morale alla scienza di classe. Una recensione marxista del film di Nolan

di Domenico Cortese

opp 1 578x400.jpg«Ricorda quando temevamo che la costruzione della bomba avrebbe potuto mettere in moto una reazione a catena che avrebbe distrutto il mondo? Penso che lo abbiamo fatto». È la frase con cui Cillian Murphy, che interpreta Robert Oppenheimer, chiude la scena finale del biopic di Christopher Nolan, diventato in pochissimi giorni il film del noto regista più visto in Italia e che si considera già uno dei favoriti alla vittoria degli Oscar del prossimo anno. Oppenheimer ha la caratteristica di introdurre diversi quesiti, nel dibattito pubblico, circa la natura e la legittimità di determinate scelte nella ricerca scientifica una volta preso atto che essa è legata drasticamente a una certa linea politico-ideologica. Le risposte che il film trasmette allo spettatore, tuttavia, com’è evidente dalla citazione messa in apertura, hanno a che fare molto astrattamente con il dilemma morale soggettivo dello scienziato per aver inventato una tecnica di distruzione di massa e ignorano quasi del tutto l’evidenza dei conflitti sociali insanabili – sul piano nazionale e globale – che porteranno al primo utilizzo della bomba nucleare e al clima della guerra fredda, conflitti che pure hanno un ruolo importante nello sviluppo della narrazione sulla vita del protagonista.

Su questa contraddizione del film ci vogliamo oggi concentrare, focalizzandoci soprattutto su tre aspetti: l’approccio socialmente impegnato degli scienziati del circolo di Oppenheimer e l’idea di scienza che questo richiama, i limiti della resa cinematografica degli interessi personalistici che conducono all’accanimento su Oppenheimer e, di conseguenza, il non-detto del film sulle radici di classe del processo allo scienziato e della strategia atomica degli USA.

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paroleecose2

Monolite Barbie. Giudicare i film dai loro paratesti

di Antonio Casto

zampone 1.jpg1. Introduzione: «L’hai visto? Dicono che…»

Vorrei dimostrare che già da alcuni anni è possibile spesso giudicare un film senza averlo visto, affidandosi tranquillamente ai suoi trailer, alla frequenza con cui spunta tra le sponsorizzazioni televisive o web, alla quantità di meme e mashup che lo riguardano che si riversano nei social, alla portata ed estensione del suo merchandising, alla diffusione nelle liste di «film dell’anno», alla proliferazione di tweet e articoli che ne parlano, alla visibilità che gli viene assegnata in critiche e recensioni, soprattutto all’intensità dei “l’hai visto?”, dei “che ne pensi?”, dei “devo ancora vederlo”, dei “dicono che” o “pare che” dei conoscenti: tutti segnali inequivocabili che il film (o se è per questo qualsiasi altro oggetto o fatto) è momentaneamente à la page, che «si porta», che è felicemente riuscito a trasformarsi in carrozzone virale su cui sarà obbligatorio arrampicarsi tutti come scalmanati per dire ognuno la propria, dal critico squisito alla casalinga di Voghera, prima che sia troppo tardi e il veicolo scompaia (per sempre) all’orizzonte (nel migliore dei casi entro qualche settimana).

Tutti questi elementi “intorno” al film non sono quasi mai fenomeni accessori e ausiliari, che emergono dal valore stesso dell’opera e si consolidano gradualmente nel tempo, ma piuttosto segnali appariscenti del fatto che la produzione ha efficacemente investito sul marketing più che sul prodotto. E perciò stesso abbiamo il diritto, mi sembra, di dare più valore ai contenuti del primo che a quelli del secondo.

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doppiozero

La Russia come "terapia" per l'Occidente?

di Luigi Zoja

Leonid Lazarev Window Lights Moscow 1967.jpegRimorsi e nostalgie

Fra i meriti di un autore totale come Octavio Paz sta l’aver chiamato l’antropologia “…il rimorso dell’Occidente” (1). Con questo punto di vista, un’immensa corrente di studi assume un senso che va molto al di là della sua importanza specialistica. L’antropologia non è solo lo studio dei pochi popoli premoderni sopravvissuti: è il grumo di malinconia che tormenta segretamente il mondo euro-americano – divenuto con la globalizzazione modello universale – per aver eliminato le qualità umane non rivolte all’efficienza.

Utilizzo questo esempio per suggerire che forse la Russia ricorre nei discorsi dell’Occidente non solo perché si presenta oggi come suo rivale, ma anche perché rappresenta molto di quello che la nostra modernità ha perduto. E di cui quindi prova nostalgia.

 

I rapporti dell’Occidente con la Russia

Perché parliamo spesso della Russia? Nella post-modernità si discute soprattutto di economia. Come antagonista dell’Occidente in questo campo, la Federazione Russa è quasi un moscerino: il suo prodotto nazionale è inferiore del 20% a quello dell’Italia (2), pur avendo una popolazione più che doppia e un territorio così esteso da contenere risorse naturali praticamente infinite. È stata chiamata stazione di rifornimento con armi nucleari. I suoi missili fanno paura. Non si giunge a una guerra atomica perché si considera implicito un “equilibrio del terrore”, simile a quello che, nella Guerra Fredda, evitò un conflitto armato tra Occidente e Unione Sovietica: era chiamato MAD (Mutually Assured Destruction, Distruzione Reciproca Assicurata) (3).

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paroleecose2

La maschera dell’innovazione

A proposito del Report “Teaching4Learning” dell’Università di Padova

di Università libera, università del futuro

passivelearning.jpgSecondo la mania attuale (tipica nella pedagogia) non si deve venire istruiti sul contenuto della filosofia: si deve piuttosto imparare a filosofare, senza contenuto. È un po’ come dire: bisogna viaggiare, viaggiare, sempre viaggiare: ma non fare la conoscenza di uomini e città, di fiumi e paesi. In primo luogo, però, mentre si conosce una città e si raggiunge magari un fiume, poi un’altra città e così via, si impara senz’altro a viaggiare. Anzi. Si viaggia realmente. Allo stesso identico modo, mentre uno studia il contenuto della filosofia, conosce la filosofia. Viene cioè a conoscenza non soltanto del filosofare, ma filosofa egli stesso. In fondo, anche lo scopo di imparare soltanto a viaggiare, non coinciderebbe in realtà con il conoscere città, fiumi eccetera? Non coinciderebbe cioè con un contenuto? (…). Il perenne cercare e bighellonare qua e là senza contenuto, questo modo di procedere soltanto formale, questo elucubrare e sofisticare, ha come conseguenza la vuotezza di contenuto e la vuotezza di pensieri nelle teste: ha insomma il risultato che non si sappia proprio nulla.

G. W. F. Hegel, Lettera a Niethammer del 23 ottobre 1812, in Id., Propedeutica filosofica, a cura di G. Radetti, Sansoni, Firenze 1951, pp. 247-248.

Nel mese di maggio del 2023 l’Università di Padova ha diffuso fra tutti i docenti e ricercatori dell’Ateneo il documento Report T4L, nel quale è presentata e analizzata (con profusione di dati e diagrammi) la “sperimentazione” di una didattica informatizzata incominciata nel 2016 e divenuta (con le parole della presentazione) «in soli 6 anni permeante della cultura didattica dell’Università di Padova». Il testo, a cura del Settore Assicurazione della Qualità e Didattica Innovativa, con il coordinamento di Marina de Rossi e Valentina de Marchi e presentazione firmata anche dalla Rettrice Daniela Mapelli, ha suscitato in Università libera, università del futuro alcune considerazioni che proponiamo nelle due sezioni seguenti.

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lantidiplomatico

Oppenheimer di Nolan, l’uomo onda-particella: solo un film di “propaganda”?

di Giulia Bertotto

720x410c50nhuygvc.jpgIn un senso crudo che non potrebbe essere cancellato da nessuna accezione volgare o umoristica, i fisici hanno conosciuto il peccato”[1]

L’ultimo colossal di Christopher Nolan, ispirato al libro American Prometheus di Kai Bird e Martin J. Sherwin, è uscito nelle sale italiane il 23 agosto, mentre il Giappone sversava acqua radioattiva nel Pacifico e il capo della Wagner, Prigohzin, moriva in un incidente aereo. Un’inquietante combinazione di realtà e cinema, mentre la Terza guerra mondiale avanza.

Il fisico Robert Oppenheimer, a capo del Progetto Manhattan, che inventò la bomba atomica, viene accostato alla figura di Prometeo, il titano che rubò il fuoco agli dei per darlo agli uomini; l’archetipo del ribelle a Dio, della tracotanza della creatura contro il Creatore, che nella mitologica greca porta lo stesso messaggio di rottura e insieme emancipazione della prima coppia edenica nella tradizione ebraica. In un simbolico morso/furto l’uomo acquistò la libertà attraverso la coscienza e assunse la colpa, divenne capace di arte e incline al sadismo. L’uomo viene reso capace di libero arbitrio, ossia della possibilità di scegliere tra il bene e il male, l’unico animale contro-natura, perché paradossale, cosciente. Ecco l’uomo, già corpuscolare e ondulatorio insieme.

Oppenheimer è il Prometeo del Novecento, che dona agli uomini la combustione primordiale[2]. Ad essere precisi la elargisce agli Stati Uniti, e bisogna fare presto, prima che la bomba a fissione nucleare sia realizzata dai nazisti.

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minimamoralia

Le distrazioni di Nanni Moretti

di Marco Montanaro

19 agosto 640x420Oggi Nanni Moretti compie 70 anni. A maggio scorso Aprile ne ha compiuti 25. Dalla sua uscita nel 1998 l’avrò rivisto una cinquantina di volte. Qualche giorno fa è stata la terza o quarta su Disney+, cosa che mi fa un effetto ancora un po’ strano (guardare un film di Nanni Moretti su Disney+).

“Nel 1994, un noto regista inizia a raccogliere spunti sulla scena politica italiana: dalla vittoria di Berlusconi e la sua caduta, alla vittoria politica della sinistra. Intanto nasce suo figlio, e continua a raccogliere spunti, ma un giorno decide di fare un giro in Vespa e gettare via tutto.”

Sono le poche righe con cui Aprile viene presentato sulla piattaforma. Una descrizione piuttosto normalizzante per un film che ha molto di straordinario, tanto più se ne consideriamo la breve durata (un’ora e diciotto minuti). Per Disney+, inoltre, Aprile è di genere “drammatico/commedia”, categorie che mi sembrano invece azzeccate, molto più di “documentario” (cosa che Aprile fa solo finta di essere).

Tuttavia, la cosa più strana è stata guardare Aprile dopo la morte di Silvio Berlusconi. Il film si apre proprio con la vittoria del Cavaliere alle elezioni del 1994, con la celebre scena del TG4 di Emilio Fede e della canna. È una di quelle sequenze che hanno contribuito a una sorta di memificazione ante litteram di Nanni Moretti nel corso degli anni. Ad ogni modo, con la scomparsa di Berlusconi è venuta meno una delle ossessioni principali dell’immaginario morettiano. Il che inizia a farci percepire Aprile anche come documento storico, oltre che come puro oggetto filmico.

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doppiozero

Bouvard e Pécuchet

di Andrea Giardina

Calvino diceva che i classici sono quei libri di cui di solito si sente dire "sto rileggendo..." e mai "sto leggendo...". Abbiamo chiesto ai nostri collaboratori quali classici stanno rileggendo ora

8qs7eqnm7h0qdqoo6a6c5l7k95“La stupidità consiste nel voler concludere. Siamo un filo e vogliamo conoscere la trama”. Flaubert lo scrive in una lettera, condensando la direzione – già la parola senso equivarrebbe a fraintenderlo – che prende Bouvard e Pécuchet, il più ardito dei suoi progetti, il meno romanzo dei suoi romanzi. Leggerlo o rileggerlo oggi (ma quante riletture sarebbero necessarie per afferrarne intenti, retropensieri, obiettivi polemici?) significa fare i conti con un’intera maniera di stare al mondo. Che se da un lato è ancora la nostra, dall’altro, in termini più stretti, è quella degli uomini di due secoli fa – metà del XIX secolo – nel mondo occidentale. Uomini di città e di provincia, uomini della borghesia e del popolo, accomunati dall’incrollabile convinzione di stare – in qualche modo, anche quando si è ai margini – ben saldi dentro al proprio tempo, padroni di sé, con il proprio gruzzolo più o meno consistente di nozioni, con la propria visione delle cose, con la propria soluzione ai problemi del presente e del futuro, con la propria personalissima ma in realtà condivisissima idea del passato, con la propria formidabile certezza che le cose vanno concluse, che bisogna arrivare al punto, che è indispensabile dare forma definitiva al nostro essere qui, tutti convinti di conoscere la trama, pochi con l’umbratile paura di essere solo un filo. È contro questo immenso cumulo di parole, pensieri, oggetti, è contro questo soffocante kitsch della vita, manifestazione e causa del male supremo e onnivoro, la bêtise, che Flaubert parte all’assalto. Accogliere tutto per fare a pezzi tutto. Percorrere ogni abitudine per evidenziarne il non senso.

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cumpanis

L’insostenibile pesantezza del non essere

di Fosco Giannini

Morte di Milan Kundera: l’egemonia della cultura liberale rilancia il più insipiente dei romanzi: “L’insostenibile leggerezza dell’essere”

milan kundera“De mortuis nihil nisi bonum” (dei morti niente si dica se non il bene) è una famosa frase idiomatica contenuta nell’opera “Vita e opinioni di filosofi eminenti” che lo storico greco Diogene Laerzio, autore dell’opera, attribuisce a Chilone, uno dei sette saggi di Sparta. La locuzione è importante poiché, assieme, svolge sia il ruolo di rivelazione di una già vigente cultura, di un senso comune, volti alla venerazione, al rispetto dei morti (siamo circa a 200 anni dopo Cristo) che quello di propagazione del culto e persino dell’enfatizzazione della vita e delle opere dei morti. Un’enfatizzazione spesso così tanto vicina alla distorsione della realtà da spingere il giornale “Vita cattolica.it”, il 20 maggio 2016, in relazione alla morte di Marco Pannella a scrivere: “Non sempre «De mortuis nihil nisi bonum». A volte è meglio tacere”.

Lo scorso 11 luglio, a Parigi, a 94 anni, è morto lo scrittore ceco Milan Kundera, autore – come hanno ricordato tutti i media attraverso una grancassa mediatica rivolta ad una nuova, acritica, celebrazione dell’opera – de “L’insostenibile leggerezza dell’essere”. Diversi giornali e telegiornali (tra i più enfatici il TG La7) hanno proclamato sul campo Milan Kundera “uno dei più grandi scrittori della seconda metà del ‘900 e “L’insostenibile leggerezza dell’essere” “tra i più grandi romanzi dell’intero ’900”. Rilanciando in pieno, attraverso questo discutibile stile di lavoro, la retorica insita nell’asserzione apodittica “de mortuis nihil nisi bonum” dell’antico Chilone. Un’asserzione apodittica, lo abbiamo già visto, per la quale anche la cultura cattolica contemporanea chiede più sorveglianza etica e culturale.