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jacobin

Altre forme di costruzione del mondo

di Emilio Gardini

«Dynamite» di Louis Adamic ha a che fare con il rapporto tra lotta di classe e ricomposizione dell’immaginario: perché per cambiare la realtà occorre avere la possibilità di pensarla

Marx era consapevole della difficoltà che l’idea di classe poneva come categoria che rappresenta un insieme eterogeneo di lavoratori, perché sapeva che il proletariato era composto non solo dagli operai di fabbrica ma da tanti altri lavoratori che, al pari di oggi, avevano in comune il fatto di trovarsi nella stessa posizione nei rapporti di potere. Tuttavia, nel pieno del capitalismo industriale, la classe in termini marxiani ha rappresentato una categoria utile a descrivere l’asimmetria dei rapporti di produzione e come questi fossero determinati da relazioni di dipendenza «nuove» che si realizzavano per mezzo del rapporto salariale.

Come scrive ne Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850: «il lavoro salariato è l’attuale organizzazione borghese del lavoro. Senza di esso non vi è né capitale, né borghesia, né società borghese». In questo senso, la classe lavoratrice rappresenta la contraddizione della società capitalistica; è la classe non-proprietaria in una società basata sul principio della proprietà.

Ciò non può che condurre alla lotta di classe, la cui oggettività, nella teoria sociale marxiana, diviene una condizione storica. La lotta di classe è la «naturale» espressione del conflitto dentro la società capitalistica, una guerra interna che in alcune fasi della storia si manifesta in modo molto duro.

Louis Adamic, scrittore e operaio sloveno emigrato negli Stati uniti nei primi anni del Novecento, nella sua opera Dynamite. Storie di violenza di classe in America scritta nel 1931, ampliata e rivista nel 1934, restituisce proprio questa immagine delle lotte di classe. Come tanti, Adamic arriva negli Stati uniti molto giovane, e come tanti vaga per il paese, fa diversi lavori e impara la lingua. Scrive di lotte violente, espressione di quella società americana della quale diviene parte, che tra la seconda metà dell’Ottocento – anni di cui non ha evidentemente esperienza diretta – e gli anni trenta del Novecento, vede una fase di forte radicalizzazione della classe lavoratrice da una parte, e di estrema repressione da parte dei capitalisti e del potere politico dall’altra. Questo scenario di violenza svela l’immagine degli Stati uniti come paese per nulla pacificato. Anzi, la «violenza di classe», di una classe e dell’altra, è un aspetto cruciale di quel conflitto.

Le differenze di classe esistono da sempre in America, già nel passato coloniale, e sono il prodotto della costruzione sociale dei colonizzatori inglesi che riescono in questo modo a sottomettere i nativi. Alla stessa maniera, quando la massa di migranti europei arriva, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, la questione di classe torna a incrociare quella razziale. In quegli anni, per certi versi come avviene oggi, individuare il nemico e il pericolo significa in fondo «guardarsi dentro», tra i lavoratori sfruttati, tra gli immigrati, tra quella classe inferiore considerata feccia e spazzatura. Ma accanto ai lavoratori poveri e immigrati, sul finire dell’Ottocento, negli Stati uniti arrivano rivoluzionari ed esiliati europei che «intuiscono» che dall’altra parte dell’oceano sta avvenendo qualcosa, che la terra delle opportunità è anche la terra della lotta di classe, della possibilità di scalfire il sistema capitalistico.

Il sistema repressivo, però, si fa sempre più duro; alla violenza della polizia si affianca quello delle organizzazioni ultra-patriottiche e delle agenzie di sicurezza private al servizio degli industriali che spesso assoldano spie tra i «traditori di classe» per combattere i lavoratori, come nel romanzo One Big Union di Valerio Evangelisti sul leggendario sindacato degli Industrial Workers of the World (Iww). Adamic scrive che negli anni Ottanta dell’Ottocento, Chicago, la città dove nel 1905 nasce il sindacato degli Iww, è la città più radicale degli Stati uniti. Tra i lavoratori, di cui fanno parte anche molti italiani, ha forte presa il movimento anarchico che non sempre è in linea con le idee e le intenzioni dei socialisti. Gli Industrial Workers of the World nascono in questo clima, in opposizione al conservatorismo del più grande sindacato americano, l’American Federation Labor (Afl), non in grado di fornire supporto al proletariato non qualificato che passa da un lavoro all’altro in giro per il paese. Il sindacato rivoluzionario degli Industrial Workers of the World riesce a sindacalizzare i «non sindacalizzabili», gli esclusi dai sindacati di mestiere, coloro che non trovano spazio nella società ma hanno animo e combattività. Pur essendo una minoranza rispetto ai socialisti, gli wobblies, così si chiamano i membri dell’Iww, lasciano un segno profondo nell’immaginario delle lotte di classe perché coniugano l’internazionalismo marxiano con l’azione diretta del movimento anarchico, e mettono in crisi i principi della proprietà su cui si va edificando il paese che si appresta a diventare una guida nel capitalismo moderno.

La storica Nancy Isenberg scrive che la storia americana viene raccontata senza far riferimento all’esistenza delle classi sociali, un immaginario che costantemente alimenta la narrazione interna al paese. L’idea della mobilità verticale e della possibilità per tutti, principio radicato nella società americana ma da tempo anche in Europa, sembra annullare le differenze di classe e le contraddizioni che da esse derivano. Dunque, la storia della lotta di classe negli Stati uniti, in effetti così distante da quella europea, ci proietta all’interno di quelle contraddizioni di classe che il sistema capitalistico tende a cancellare. Dynamite è per questo uno strumento necessario alle «battaglie per l’immaginario», come si legge nell’introduzione alla nuova edizione del libro che scrive Andrea Olivieri. E, in effetti, oggi «la classe» va ripensata utilizzando strumenti utili a ricomporre l’«immaginario di classe» indebolito dall’appiattimento del conflitto sociale che fa posto alla responsabilità del singolo e alle sue risorse interne.

Se è ancora valida la tesi che, marxianamente, è la struttura di classe che crea le condizioni per cui i lavoratori e le lavoratrici si organizzano, non riconoscere in termini conflittuali l’esistenza delle asimmetrie di classe, significa non voler vedere il modo in cui la classe si forma e gli interessi che la muovono. Tra l’altro, non è affatto vero che l’assenza di un «immaginario di classe» non produca conflitto, anzi ne produce una forma molto più distruttiva, ma per coloro che si trovano nella stessa posizione e hanno gli stessi bisogni. Se è vero che «produciamo il nostro mondo», per dirla alla maniera di Marx, è anche vero che occorre pensarlo in modo diverso e produrre un altro immaginario.

I wobblies operavano una sovversione dell’immaginario dominante quando usavano le parole nei comizi improvvisati violando le leggi che vietavano loro la libertà di parola, o quando usavano le canzoni per irridere i crumiri e i padroni. E per questi motivi fu ingiustamente accusato di omicidio e condannato a morte Joe Hill nel 1915, musicista e iconico leader degli Industrial Workers of the World di origine svedese, le cui canzoni, spesso una parodia di motivi classici e religiosi, mettevano in crisi il potere e le istituzioni. Occorre ripartire da quella che David Graeber, uno degli antropologi più brillanti degli ultimi anni, membro peraltro degli Industrial Workers of the World, chiamava «ontologia politica dell’immaginazione». La capacità di immaginare altre forme di costruzione del mondo. Una contraddizione, certo, perché l’immaginazione non è la realtà ma solo una possibilità di pensare la realtà. Forse la possibilità giusta, però.


* Emilio Gardini insegna sociologia generale e politiche pubbliche e per la sicurezza all’Università Magna Graecia di Catanzaro. Fa ricerca sulle trasformazioni del capitalismo, sulla città e sulle politiche securitarie.

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