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sinistra

In morte di Barbara Balzerani

di ALGAMICA*

balzer.pngGiornali e televisioni nel dare la notizia della morte di Barbara Balzerani, militante delle Brigate Rosse, pongono come in epigrafe che « non si penti mai »!

Ora è piuttosto curioso il fatto che in un mondo di voltagabbana e prezzolati di ogni risma e razza, si trovi strano il fatto che una militante comunista non rinneghi il suo percorso politico.

Scrivo queste note, come per altro ho fatto anche in occasione della morte di Prospero Gallinari, per evidenziare una tesi che ho esposto anche rivolgendomi a Mario Moretti: è sbagliato fare i distinguo sui movimenti politici e ideali delle due generazioni degli anni ’68/69 e quella immediatamente successiva del ’77 del secolo scorso.

Se l’establishment opera una netta separazione tra i movimenti buoni, quelli cioè che protestavano democraticamente, mentre quelli che si definivano combattenti erano terroristi perché si rendevano responsabili di atti di violenza. Peggio che andar di notte per questi secondi che non si sono mai pentiti, fra i quali Barbara Balzerani. E per dare forza al concetto appena espresso si prende come esempio – di “pessima compagnia” la malcapitata Donatella Di Cesare, docente universitaria alla Sapienza di Roma che avrebbe avuto l’ardire di scrivere « La tua rivoluzione è stata anche la mia, le vie diverse non cancellano le idee. Con malinconia, un addio alla compagna Luna ».

Apriti cielo! Democratici e liberisti si scatenano in una feroce critica nei confronti di un concetto semplice e complesso al tempo stesso: « per vie diverse, per gli stessi ideali ». Si scandalizzano solo gli interessati a fare propaganda a sostegno di un sistema che barcolla, che fa acqua da tutte le parti e che spaventa, perciò, i suoi difensori. Noi usiamo un altro criterio.

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chartasporca

Il Capitale: un libro che non abbiamo ancora letto

Lo spettacolo sull’occupazione GKN

di Sara Nocent

il capitale un libro che ancora non abbiamo letto 375x180.jpgUna mattina d’estate del 2021, i lavoratori della Gkn di Campi Bisenzio ricevono una mail: la multinazionale londinese comunica il licenziamento di quattrocentoventidue dipendenti. Senza prima essersi confrontata con i sindacati. In un giorno di ferie forzate.

“Ce l’hanno fatta”, esclama uno degli operai che troviamo in scena. “Il capitale ci ha allenato a questo”. La consapevolezza di essere precari, il girone delle ferie forzate, il gioco delle delocalizzazioni e dei misteriosi cambi di proprietà che cercano di coprire l’intenzione, quella tutt’altro che nascosta, di abbattere il costo del lavoro e aumentare il guadagno degli azionisti.

Quanto tempo è passato, penso? E penso anche che siamo in tanti: in sala, in una serata di febbraio, in una città del ricco Nord Est come Udine, tra studenti e lavoratori riempiamo un intero teatro… per parlare del capitale. Dei suoi effetti, del sistema in cui ci troviamo che intrama le nostre vite ogni giorno.

Non è solo un libro, Il Capitale, non sono solo le teorie di Karl Marx. Tre volumi di cosa? Di parole, smembrate e proiettate su una tenda a strisce, come quelle che si trovano appunto nelle fabbriche o nei magazzini, in fondo alla scenografia, algide citazioni che sovrastano gli operai, che restano incomprensibili anche se parlano di noi.

Uno spettacolo è fatto di tempo, come il lavoro. Penso, continuo a pensare anche quando sono uscita dalla sala buia del Palamostre. Pianto gli occhi sul soffitto, perché la verità è che è fottutamente difficile rimanere impassibile.

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chartasporca

Il male nel giardino di Höss. “Zona di interesse” di Jonathan Glazer

di Enrico Cattaruzza

ZonaInteresse.pngUna domenica come tante, in fila fuori da un cinema – il più giovane in fila, nonostante l’età non più verdissima – aspettando un film di cui nulla so se non il voto altissimo su almeno due siti specializzati, e il seguente commento occhiato in una recensione: “Zona di interesse, il film di Jonathan Glazer tratto da un libro di Martin Amis, parla della banalità del male”, il concetto reso celebre dal titolo di un saggio di Hannah Arendt. Quello che dalla lettura come sempre frettolosa pare interessante è che, rispetto alla cospicua filmografia sul tema, stavolta il punto di vista non sia di una vittima né di un eroe, ma di un nazista, e nemmeno di un roboante Hitler o di un romantico Hess, ma del comandante del campo di Auschwitz, Rudolf Höss. Un tecnico, diciamo, un po’ più in alto di Eichmann, ma siamo lì.

Assidue ed estreme frequentatrici dei cinema della città sono le signore in odore o fresche di pensione, sole, con amiche o accompagnate dai riluttanti mariti, e sono senz’altro anche le più ciarliere: in attesa di comprare i biglietti, giocoforza ne ascolto i commenti mentre escono dalla proiezione precedente, sconsigliando la visione dell’opera di Glazer a noi del turno successivo: “Mai visto un film così brutto”; “Guarda, per una roba del genere non merita andare al cinema”.

Almeno cinque o sei di loro sono concordi nel bocciare senza appello quello che hanno appena visto. Un’ora e tre quarti dopo, non potrei essere più discorde.

Anzi, durante il film già comincio mentalmente a scrivere una recensione senza pericolo di spoiler, perché non c’è assolutamente nulla da spoilerare. Nemmeno è una recensione, questa cosa che mi scappa in diretta come la pipì, ma un semplice commento, una nota a margine: non si può riassumere o compendiare l’opera di Glazer, che è priva peraltro di una trama precisa, e che nemmeno indugia a disegnare personaggi compiuti.

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marx xxi

Italia ed Europa verso il suicidio economico: A quando la resistenza?

di Enzo Pellegrin

SuicidiQualche tempo fa, dalle pagine del quotidiano Domani, Gianluca Passarelli compiva un’impietosa fotografia della spettrale pace sociale che avvinghiava l’Italia.

I dati economici erano e sono da horror-movie, anche per le categorie sociali che sinora hanno avallato di tutto, sposando l’individualismo e l’ideologia liberale in nome del mito dell’opportunità, gioco che sinora pochissime volte ha valso la candela.

Il dato sistemico più impressionante è il crollo della produzione industriale, dato che più rappresenta lo stato dell’economia e della produzione reale, al netto della speculazione finanziaria e dei profitti speculativi dei rentiers. Ad aprile 2023 il dato precipitava al – 7,2%. Un crollo peggiore lo si era registrato solo nel luglio 2020, in piena pandemia. Del resto, a ottobre 2023, si registrava il nono mese consecutivo di calo della produzione induistriale italiana.

Sempre nell’ottobre del 2023, l’Istat decretava la brusca frenata della crescita del PIL. Se nel 2021 il rimbalzo post-pandemia attestava la crescita intorno all’8,3%, nel 2022, durante il governo Conte, si registrava ancora una crescita del 3,7%. Nel 2023, con la gestione di Draghi e Meloni, la crescita scendeva a un misero 0,7% che verrebbe cautamente confermato anche per il 2024, ma – come vedremo – con mille riserve.

Il dato che attesta come il sistema produttivo italiano abbia ingranato violentemente la retromarcia è quello sugli investimenti: Se nel 2021 e nel 2022 questi erano cresciuti rispettivamente del 20 e del 10 per cento, nel 2023 gli investimenti scendono a un misero + 0,6%, dato anche qui prudentemente solo confermato per il 2024. (1)

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lafionda

Dal colonialismo sanitario ai barbari epistemici. La nuova Africa è l’Europa?

di Domenico Fiormonte

wassily kandinsky primo acquarello astratto 1910 722x510 1.jpgPerché scrivo questo libro? Perché condivido l’angoscia di Gramsci: “Il vecchio mondo è morto. Il nuovo è di là da venire ed è in questo chiaro-scuro che sorgono i mostri”. Il mostro fascista, nato dalle viscere della modernità occidentale. Da qui la mia domanda: che cosa offrire ai Bianchi in cambio del loro declino e delle guerre che questo annuncia? Una sola risposta: la pace. Un solo mezzo: l’amore rivoluzionario.

Houria Bouteldja

1. Colonialismo sanitario. L’Africa e il caso di Ebola

Tra il 2017 e il 2018 Helen Lauer, filosofa della scienza che lavora da trent’anni in Africa e docente all’Università di Dar es Salaam (Tanzania), ha pubblicato una serie di fondamentali ricerche che denunciano gli effetti dell’agenda sanitaria globalista sulla salute pubblica in Africa. In realtà nel cosiddetto Sud Globale si discute da anni di questi problemi, ma poco o nulla trapela all’interno dello sfinito mondo universitario europeo, per non parlare dei media mainstream. Dico subito che si tratta di studi che oggi, a due anni di distanza dalla pandemia COVID, probabilmente nessuna rivista accademica pubblicherebbe. E le ragioni appariranno chiare a breve. Le ricerche condotte da Lauer ci offrono un’efficace rappresentazione del cosiddetto colonialismo sanitario, fenomeno assai diffuso e che, come vedremo nella seconda parte, ha investito in pieno anche l’occidente. Fa da sfondo alla sua analisi il concetto di ingiustizia epistemica, cioè (molto in sintesi) quelle ingiustizie generate da un accesso diseguale ai mezzi di produzione, rappresentazione e diffusione della conoscenza. Cercherò qui di riassumere il contributo che si intitola The Importance of an African Social Epistemology to Improve Public Health and Increase Life Expectancy in Africa.

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contropiano2

Guerra reale e “truppe da esposizione”

di Dante Barontini - Simplicius the Thinker

eserciti esposizione.jpgAnche mettendo da parte le sparate propagandistiche tipiche di ogni soggetto in guerra – minimizzare le proprie perdite, esagerare quelle nemiche, alzare peana alle proprie vittorie, ignorare le sconfitte, ecc – è chiaro che la guerra in Ucraina non sta andando come gli Usa e tutti i loro servi speravano.

La logica era in fondo semplice: le “nostre armi” sono tecnologicamente superiori a quelle russe, ergo le truppe ucraine possono infliggere colpi molto più devastanti di quelli che comunque subiscono.

La premessa non detta è che l’armamento russo fosse in realtà quello sovietico (di 30-40 anni fa), così come il grosso della dotazione di Kiev. Ossia lo stesso armamento, forse appena un po’ migliore, di quello posseduto da Saddam ai tempi delle invasioni dell’Iraq (1991 e 2003).

Ergo, si pensava che aggiungendo qualche Himars e qualche altra “super-arma” (soprattutto antiaerea) lo squilibrio tecnologico avrebbe generato di per sé risultati positivi in tempi relativamente brevi.

Non è andata affatto così, la “controffensiva di primavera” si è rivelata un inutile massacro che ha dissanguato l’esercito ucraino al punto da imporre soluzioni “sbrigative” nel reclutamento di nuovi soldati da mandare al macello, con ovvi problemi di consenso sociale e di efficienza militare (se recluti anche i sessantenni non puoi aspettarti molto…).

Numerosi think tank militari Usa si sono così applicati nel cercare di capire cosa non aveva funzionato, provando anche a indicare le possibili contromisure. E i risultati cono sorprendenti.

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lantidiplomatico

Come la Cia ha preso possesso dell'Ucraina golpista

di Adam Entous e Michael Schwirtz - New York Times

fjruyjkxlUn segreto strettamente custodito per un decennio." Con un lungo reportage di Entous e Schwirtz, che come l'AntiDiplomatico abbiamo tradotto nella sua interezza per l'importanza, il New York Times svela esplicitamente come dopo il golpe di Maidan del 2014 la Cia ha preso possesso dell'Ucraina golpista e preparato tutte le scelte aggressive contro la Russia.

Quello che per il NYT era un "segreto custodito", per chi ha fatto informazione senza le veline di Washington ma cercando di capire le dinamiche era palese dall'inizio. L'AntiDiplomatico ve lo ha raccontato sin dall'inizio. 10 anni dopo ci arriva anche il New York Times. Repubblica e il Corriere quando?

Segue la traduzione completa del testo del Nyt (per le foto e le fonti citate si rimanda al link originale)

* * * *

Immersa in una fitta foresta, la base militare ucraina appare abbandonata e distrutta, il suo centro di comando è una carcassa bruciata, una vittima di un bombardamento missilistico russo all'inizio della guerra.

Ma questo è quello rimasto sopra il suolo.

Non lontano, un passaggio discreto scende verso un bunker sotterraneo dove team di soldati ucraini tracciano i satelliti spia russi e intercettano conversazioni tra comandanti russi. Su uno schermo, una linea rossa seguiva il percorso di un drone esplosivo che si insinuava attraverso le difese aeree russe da un punto nell'Ucraina centrale a un obiettivo nella città russa di Rostov.

Il bunker sotterraneo, costruito per sostituire il centro di comando distrutto nei mesi successivi all'invasione russa, è un centro nervoso segreto delle forze armate ucraine.

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rossellafidanza

L'ultimo appello di Julian Assange

di Rossella Fidanza

Martedì Assange presenterà il suo ultimo appello ai tribunali UK per evitare l'estradizione. Se verrà estradato, sarà la morte delle indagini sui meccanismi interni del potere da parte della stampa

Assange 01.jpgLONDRA. Se a Julian Assange verrà negato il permesso di appellarsi alla sua estradizione negli Stati Uniti davanti a una commissione di due giudici dell'Alta Corte di Londra questa settimana, non gli resterà altro che ricorrere al sistema legale britannico. I suoi avvocati possono chiedere alla Corte europea dei diritti dell'uomo (CEDU) una sospensione dell'esecuzione ai sensi dell'articolo 39, che viene concessa in "circostanze eccezionali" e "solo quando esiste un rischio imminente di danno irreparabile". Ma è tutt'altro che certo che il tribunale britannico sarà d'accordo. Potrebbe ordinare l'estradizione immediata di Julian prima di un'istruzione ai sensi dell'articolo 39 o decidere di ignorare la richiesta della Corte europea dei diritti dell'uomo di permettere a Julian di essere ascoltato dal tribunale.

La persecuzione di Julian, che dura da quasi 15 anni e che ha avuto pesanti ripercussioni sulla sua salute fisica e psicologica, avviene in nome dell'estradizione negli Stati Uniti, dove verrebbe processato per la presunta violazione di 17 capi d'accusa della legge sullo spionaggio del 1917, con una potenziale condanna a 170 anni.

Il "crimine" di Julian è quello di aver pubblicato nel 2010 documenti classificati, messaggi interni, rapporti e video del governo e delle forze armate statunitensi, forniti dalla whistleblower dell'esercito americano Chelsea Manning. Questo vasto materiale ha rivelato massacri di civili, torture, assassinii, l'elenco dei detenuti di Guantanamo Bay e le condizioni a cui erano sottoposti, nonché le regole di ingaggio in Iraq. Coloro che hanno perpetrato questi crimini - compresi i piloti di elicotteri statunitensi che hanno abbattuto due giornalisti della Reuters e altri 10 civili e ferito gravemente due bambini, tutti ripresi nel video Collateral Murder - non sono mai stati perseguiti.

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lafionda

La polarizzazione ideologica negli Usa e il ruolo dei «Neocon» nell’America di oggi

di Tommaso Di Caprio

america falling.jpg«Il potere genera responsabilità sia negli affari internazionali, che negli affari domestici e persino nei propri affari privati. Rifiutare o abdicare queste responsabilità è una forma di abuso di potere»[1]. È con questa breve frase che nel 1968 Irving Kristol riassumeva il senso della missione dei neoconservatori nel forgiare il futuro grandioso dell’America come guida del mondo libero.

A un primo fugace sguardo, il neoconservatorismo appare, ancora oggi, come un movimento intellettuale e politico dal perimetro estremamente variabile e indefinito, incapace di darsi una qualsivoglia strutturazione o di agire come effettivo gruppo di pressione, oltreché invariabilmente mutevole nelle simpatie politiche dei suoi esponenti più significativi.

E sebbene a coniare il lemma “neoconservatore” non fu Kristol, ma Michael Harrington all’inizio degli anni Settanta in un articolo intitolato “The Welfare State and Its Neoconservative Critics”, è al primo che si deve il successo del termine.

Nel tentativo di provare a identificare in modo netto un gruppo di intellettuali che pur dichiarandosi liberals (liberali) avevano smesso di riconoscersi nel partito democratico, sempre Kristol era solito definire il neoconservatorismo un «termine descrittivo più che normativo», in grado di cogliere il realismo che regna nel mondo.

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perunsocialismodelXXI

La sfida di Sanders non spaventa il capitalismo

di Carlo Formenti

9791259675071 0 536 0 75.jpgLeggendo il titolo del nuovo libro di Bernie Sanders, Sfidare il capitalismo (Fazi Editore), mi sono detto: vuoi vedere che l’anziano senatore populista-socialista (così si autodefinisce), emulo della tradizione di un movimento operaio otto/novecentesco che, pur non avendo mai assunto posizioni “bolsceviche”, ha espresso leader radicali come Eugene Debs, ha finalmente rotto gli indugi. Magari, dopo due campagne presidenziali in cui, dopo avere inutilmente tentato di ottenere la nomination dando l’assalto all’establishment democratico, ha finito per fungere da galoppino delle candidature “eccellenti” di Hillary Clinton e Joe Biden, si è deciso a lavorare per un’alternativa antisistemica alla diarchia repubblicano-democratica, fedele esecutrice degli interessi dell’impero a stelle e strisce.

Purtroppo ho invece dovuto constatare che, rispetto a qualche anno fa, la sua attuale posizione può essere definita, citando un noto titolo di Lenin, come un passo avanti e due (se non tre!) passi indietro. Ma procediamo con ordine. Se invece di leggere il libro seguendone l’indice, qualcuno fosse tentato di “saltare” alcuni capitoli, lasciandosi attrarre dai passaggi che affondano impietosamente il dito nelle piaghe più purulente che affliggono il corpaccione dello zio Sam, l’illusione di svolta radicale evocata dal titolo sembra giustificata. Vediamo alcuni esempi.

Dopo avere descritto l’intollerabile tasso di disuguaglianza (pari a quello record degli anni Venti) raggiunto negli ultimi decenni, Sanders denuncia la situazione agghiacciante di un sistema sanitario da incubo: il 44% degli adulti fatica a pagarsi le cure mediche (c’è gente che evita di sorridere per non mostrare i buchi di una dentatura falcidiata dall’assenza di cure dentistiche, mentre più di 60 000 persone all’anno muoiono perché non possono acquistare farmaci salvavita né farsi ricoverare);

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comuneinfo

L’università e il genocidio

di Rete universitaria per la Palestina

immagine 17.jpgLa guerra finirà con la loro distruzione. Netanyahu non cambia idea. È stato chiaro, mentre ordinava l’avanzata su Rafah, l’ultima città della Striscia di Gaza, quella in cui si sono rifugiate un milione e mezzo di persone alla fame, quella da cui non possono più fuggire. La danza macabra sui negoziati per una “tregua” è un vecchio gioco di prestigio che i leader israeliani mettono in scena, con maestria impareggiabile, da decenni, chiedete a chi ne ha memoria. Oggi serve soprattutto a tentare di frenare la rabbia e la disperazione dei familiari dei 130 ostaggi di Hamas e a fornire argomenti a Biden che ha firmato sanzioni economiche contro 4 (quattro!) coloni israeliani responsabili di violenze in Cisgiordania. E allora? Non resta che assistere impotenti a uno sterminio che non ha precedenti in 75 anni di guerra coloniale? Non resta che rassegnarsi a sentirci rivolgere – fra due, cinque dieci anni – quella tremenda domanda dai nostri bambini: voi dove eravate? Cosa avete fatto per fermare l’orrore di quei settemila corpi sepolti sotto le macerie di Gaza che non entrano nelle statistiche? “Se dovessimo partecipare ogni giorno al funerale di una bambina o un bambino assassinati in questi quattro mesi dal sionismo a Gaza, passeremmo i prossimi 27 anni a farlo. Ogni giorno per ventisette anni… La retorica dominante e le nostre lealtà istituzionali rimangono intatte…”, scrive la Rete universitaria per la Palestina in un testo scritto “non per ripetere frasi vuote sui mali della violenza né recitare proclami umanitari…”, ma per “invitare alla comunicazione tra quelli di noi che hanno bisogno di fare qualcosa in modo collettivo…”[Il sommario e l’editing di questo articolo sono di Marco Calabria, scomparso improvvisamente l’8 febbraio 2024]

* * * *

Alcuni parlano, altri discutono, altri piangono, c’è anche chi si rallegra per il genocidio in corso. In ogni caso, solo chi promuove la Nakba fa qualcosa. Ed è così che si cancella una città davanti ai nostri occhi che, però, non vedono più nulla (Rodrigo Karmy Bolton).

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ilponte

Un programma per il programma

di Lanfranco Binni

images 2 2048x1366.jpegIl crollo della globalizzazione finanziaria occidentale, statunitense ed europea, annunciato dalla crisi economica del 2008 e accelerato dalla crisi pandemica del 2019-2020, si sta oggi trasformando in una conclamata crisi politica mondiale; e, sullo sfondo, una crisi climatica inarrestabile, non contrastata per non rinunciare alle antiche predazioni di un capitalismo estrattivo e colonialista, in armi contro il mondo. I vecchi e nuovi strumenti di guerra, dalle cannoniere alle piattaforme digitali, con tutti i loro corollari di propaganda mediatica e di esercizio autoritario dei poteri, stanno registrando arresti e sconfitte in ogni scenario. L’estensione di una guerra globale occidentale contro il “sud” del mondo in una visione di resa dei conti militare con la Russia e la Cina per il dominio dei mercati e delle materie prime del pianeta sta mettendo a nudo una realtà profondamente diversa dalle fantasiose narrazioni dell’unipolarismo statunitense e dei suoi gregari europei, mentre si rafforza una tendenza al multipolarismo orientata dal cartello dei Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) a cui si sono aggregati nell’ultimo anno sempre più numerosi Stati del pianeta, e le adesioni si vanno moltiplicando. La crisi è occidentale, e il cuore della crisi è costituito dalla situazione interna agli Stati Uniti, alla vigilia di una drammatica guerra civile e interetnica che già sta determinando conseguenze prevedibili nell’intera area di influenza atlantica.

La guerra statunitense ed europea in Ucraina, per spezzare le reni alla Russia, è perduta; il taglio dei finanziamenti statunitensi al governo vassallo di Kiev e la conseguente riduzione degli aiuti militari europei costringeranno a una soluzione negoziale sulla base degli accordi di Minsk del 2015, in un paese desertificato da nove anni di guerra del tutto inutili nel cuore dell’Europa.

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lantidiplomatico

Guerra e pace. Intervista a Carlo Rovelli

Luca Busca intervista Carlo Rovelli

720x410c5mius0.jpgCarlo Rovelli è un fisico, un professore, un instancabile ricercatore e un fine pensatore. È divenuto famoso nel mondo come divulgatore scientifico grazie ad una serie di libri, tradotti in quarantadue lingue, in grado di spiegare gli arcani della meccanica quantistica anche a tutti coloro che, come il sottoscritto, non sanno neanche di non sapere.

Il suo ultimo libro, “Lo sapevo, qui, sopra il fiume Hao” edito da Solferino, è invece una raccolta di articoli in cui vengono riassunti i grandi temi che caratterizzano il suo pensiero: la Pace, con le sue implicazioni sociali e politiche, e la Scienza, o meglio la Scienza pura, il suo settore di ricerca e di studio con le relative connessioni filosofiche, e le scienze applicate.

Questa intervista si concentra in particolar modo sul pensiero politico di Rovelli e sulle inevitabili riflessioni sul difficile momento che l’essere umano sta attraversando. Perso come è tra guerre, crisi ambientale e disuguaglianze mai raggiunte prima.

* * * *

In un'intervista rilasciata a Piazza Pulita il 9 marzo scorso parlando della guerra in Ucraina, lei ha affermato che la Comunità Internazionale Occidentale racconta una storia in cui il resto del mondo, che costituisce la stragrande maggioranza, non crede più. Quello che vede il resto del mondo è l’Occidente che prevarica per mezzo del dominio militare e non più con quello economico. In quest’ottica come valuta il nuovo conflitto israelo-palestinese?

C.R.: Il conflitto fra Israele e Palestina mette bene in luce la disparità di vedute in corso. Una vasta maggioranza globale giudica criminale e immorale l’attuale comportamento dello stato israeliano, anche quando condanna passate azioni di Hamas. Basta leggere la stampa non occidentale, o contare i voti all’assemblea delle Nazioni Uniti, dove le condanne per Israele sono continue, e non diventano politica ufficiale dell’ONU solo perché gli Stati Uniti, in barba alla democrazia, pongono continuamente il veto.

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futurasocieta.png

La disabilità del male

di Stefania Fusero

fusero disabilita del male.pngUn’illustre cittadina tedesca, ebrea polacca di nascita, scriveva all’inizio dell’anno 1917:

“Che cosa intendevi parlando delle sofferenze particolari degli ebrei? Sento altrettanto vicini gli sfruttati delle piantagioni di gomma a Putumayo o i neri dell’Africa con i cui cadaveri gli europei giocano a palla. Hai forse dimenticato le parole del capo di stato maggiore sulla spedizione von Trotha nel Kalahari? ‘E il rantolo dei moribondi, il grido impazzito degli assetati echeggiavano nel sublime silenzio dell’infinito.’ Ecco, questo ’sublime silenzio dell’infinito’, in cui echeggiano senza essere udite tante grida, risuona in me così forte che non mi resta nel cuore nemmeno un angolino riservato esclusivamente al ghetto. […]”.

Rosa Luxemburg in una lettera a Mathilde Wurm, 16 febbraio 1917

Durante il XIX e l’inizio del XX secolo, la Germania partecipò con gli altri Paesi europei alla brutale spartizione dell’Africa, colonizzando le terre che oggi chiamiamo Togo, Camerun, Burundi, Ruanda, Tanzania continentale e Namibia. La campagna fu particolarmente crudele in Namibia, dove nell’agosto del 1904 il generale von Trotha mise a punto un nuovo piano di battaglia per porre fine alla rivolta degli Herero. Nella battaglia di Waterberg diede l’ordine di accerchiare gli Herero su tre lati, in modo che l’unica via di fuga fosse verso l’arida steppa di Omaheke, propaggine occidentale del deserto del Kalahari. Gli Herero fuggirono nel deserto e von Trotha ordinò alle sue truppe di avvelenare i pochi pozzi d’acqua, di erigere posti di guardia lungo una linea di 150 miglia e di sparare a vista su ogni Herero, che si trattasse di uomo, donna o bambino. Molti morirono di disidratazione e di fame.

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carmilla

Il fascismo prima e dopo il fascismo

di Fabio Ciabatti

Alberto Toscano, Late Fascism: Race, Capitalism and the Politics of Crisis, Verso, London-New York 2023, € 22,36

Censura Fascismo 2.jpgIl fascismo contemporaneo può ancora rappresentare una concreta minaccia dal momento che si presenta privo di alcuni degli elementi essenziali che ne hanno determinato l’affermazione negli anni Venti e Trenta del secolo scorso? Senza un movimento di massa, una spinta utopistica per quanto pervertita e un incombente pericolo rivoluzionario cui contrapporsi, può di nuovo sovvertire l’ordine liberale e democratico?

In effetti, sostiene Alberto Toscano nel suo libro Late Fascism, le soluzioni elaborate dai movimenti di Mussolini e di Hitler appaiono “fuori tempo” dato il loro intimo legame con la crisi capitalistica successiva alla Prima guerra mondiale, con l’era del lavoro manuale di massa, della coscrizione universale maschile in vista della guerra totale e dell’imperialismo esplicitamente razzista. Possiamo allora dormire sonni sereni, fiduciosi nel carattere straordinario dei regimi fascisti?

Non proprio, sostiene sempre Toscano, perché il quadro cambia se abbandoniamo una concettualizzazione meramente analogica del fascismo. In altri termini, se lasciamo da parte l’idea che per parlare di questo fenomeno politico la cosa essenziale sia raffrontare gli epigoni contemporanei con il loro modello originale, stilando una sorta di checklist dei sintomi in grado di diagnosticare lo stato di avanzamento della malattia.

Abbandonare il piano analogico significa concepire il fascismo come un fenomeno di lunga durata e storicamente mutevole. Vuol dire intenderlo come una dinamica che precede la sua stessa denominazione, sempre strettamente legata ai prerequisiti della dominazione capitalistica, anch’essa diversificata nel tempo. Utilizzando la definizione di W. E. B. Du Bois, si può parlare di “controrivoluzione della proprietà”.