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Il 2024: l’anno di Vladimir Putin

di Fulvio Bellini

vladimir putin interview with dmitry kiselyov 2024 in the kremlin 01“Dici che Hitler è morto da così tanti anni, 80 anni. Ma il suo esempio continua a vivere. Le persone che hanno sterminato ebrei, russi e polacchi sono vive. E il presidente, l’attuale presidente dell’Ucraina di oggi, lo applaude nel parlamento canadese, fa una standing ovation! Possiamo dire di aver sradicato completamente questa ideologia se ciò che vediamo accade oggi? Questo è ciò che è la denazificazione nella nostra comprensione. Dobbiamo sbarazzarci di coloro che sostengono questo concetto e sostengono questa pratica e cercano di preservarla: ecco cos’è la denazificazione. Questo è ciò che intendiamo.”

Vladimir Putin intervistato da Tucker Carlson, 9 febbraio 2024

 

Premessa: il ritorno della Realpolitik

La recente intervista a Vladimir Putin da parte di Tucker Carlson, da taluni qualificata come l’intervista del secolo forse esagerando, è stata però una delle più rilevanti rilasciate dal presidente russo da quando è in carica, e ormai sono passati 25 anni. I numerosi temi toccati erano formalmente indirizzati al popolo americano, ma sostanzialmente diretti ad alcune élite presenti su entrambe le sponde dell’Atlantico: sulla costa occidentale alla classe dirigente definita dei “texani” (si ricorda che le altre sono quelle dei “bostoniani” e dei “californiani”), cioè ai rappresentanti dell’America più profonda e tradizionale e che si appresta a ridare il proprio appoggio a Donald Trump alle prossime elezioni presidenziali; su quella orientale alle élite che si erano recentemente riunite a Davos, per il loro tradizionale simposio, tanto formale nei summit ufficiali, quanto sostanzioso in quelli riservati.

Cosa ha comunicato Putin a queste élite, sia in modo esplicito che implicito, in un paio di ore di conversazioni, tra apparenti divagazioni storiche e analisi geopolitiche? Che la guerra per procura mossa dagli Stati Uniti contro la Russia attraverso lo stato fantoccio ucraino è stata vinta da Mosca; che il sistema gladstoniano-wilsoniano di ammantare le guerre di dominio dell’Occidente di nobili principi (libertà, democrazia, pace e giustizia), a causa del contemporaneo genocidio effettuato dagli israeliani ai danni dei palestinesi, è definitivamente crollato; che la scomparsa della sovrastruttura ipocrita delle cosiddette democrazie occidentali ha risvelato le strutture portanti della politica internazionale, quelle note nel XIX secolo, aggiornate ai nostri giorni, ovvero la britannica “Balance of power” e la teutonica “Realpolitik”, delle quali il presidente russo è diventato massimo esponente; che la maggioranza degli Stati del cosiddetto sud del mondo, venuta meno la copertura sovrastrutturale dei nobili principi, hanno pienamente compreso la natura autentica dell’Occidente, cioè un pericoloso “terrorista collettivo”, che può aggredire in qualsiasi momento ognuno di loro, blaterando di astratti concetti di democrazia e libertà, e far fare loro la fine della Striscia di Gaza se restano isolati. La lega dei paesi che temono il “terrorista collettivo” è il nuovo significato politico che i Brics+4 stanno assumendo nel 2024. Tornando al concetto di struttura della politica internazionale, i Brics sono l’espressione della ricerca della bilancia delle potenze del XXI secolo, che oggi viene chiamata multilateralismo, mentre le conseguenze del conflitto ucraino e la strage di Gaza afferiscono alla dura legge della Realpolitik dove conta solo chi vince, e chi perde non può più accampare scuse in nome di un fantomatico diritto internazionale, da agitare a uso e consumo esclusivo della metropoli imperiale e dei suoi accoliti, e da negare quando si tratta delle loro vittime.

 

Il 2024: l’anno di Vladimir Putin

Se il 2023 è stato l’anno di Xi Jinping e la sua consacrazione a massimo leader mondiale avvenuta simbolicamente tra il 20 e 21 di luglio, giorni nei quali il centenario Henry Kissinger volava a Pechino per fare al leader cinese l’incredibile proposta sul dollaro, ma anche a trasferire l’invisibile vessillo di centro del mondo dalla Casa Bianca alla Città Proibita come ultima missione della sua vita, il 2024 è l’anno di Vladimir Putin, ed è questa la ragione per la quale in questo articolo ci confronteremo con lui sia direttamente che indirettamente. Tutti noi dobbiamo fare i conti con Putin, sia chi milita nelle file comuniste, sia gli innumerevoli partiti della sinistra neoliberale (si adotta da ora la calzante definizione elaborata da Sarah Wagenknecht), sia il centro moderato e d’ispirazione cattolica per i quali occorre approfondire la stupefacente dichiarazione di Papa Francesco sull’opportunità per gli ucraini di alzare bandiera bianca, sia per la destra “opportunista”, cioè di quella che ha rinnegato la propria storia politica antica e recente per ottenere l’investitura di governo dal proconsole americano Mario Draghi, e ogni riferimento a Giorgia Meloni è puramente voluto. Tutti costoro, volenti oppure nolenti, debbono fare i conti con l’inquilino del Cremlino. I primi in assoluto ad averli fatti sono stati gli stessi russi i quali, tra il 15 e il 17 marzo sono andati alle urne in più di 87 milioni per concedere al loro presidente una rinnovata fiducia attraverso un autentico plebiscito: record di affluenza alle urne, 77,44% degli aventi diritto, record di voti per Putin, 82,28%. Se poi si considera l’indice di legittimità democratica (Ild), cioè il raffronto dei voti espressi a favore di Putin rispetto agli aventi diritto, esso è pari a 76 milioni di voti su 112 milioni possibili, quindi per ottenere la rielezione, il presidente russo ha dovuto convincere il 67,78% degli elettori russi. A puro titolo di paragone, il leader della patria della democrazia, Joe Biden, ha vinto le elezioni presidenziali americane del 2020 con 81 milioni di suffragi (record per gli Stati Uniti), e tenendo conto del complesso e opaco sistema elettorale statunitense, gli aventi diritto si possono calcolare in circa 200 milioni di persone e l’indice di legittimità di Biden è quindi stato del 40,50%: in altre parole per diventare presidente degli Stati Uniti, Joe Biden ha potuto convincere il 27,28% di elettori in meno del suo collega russo. Evidentemente i russi si sono stretti intorno al loro presidente, percepito come sincero patriota russo, e l’espressione di voto plebiscitaria riflette anche la volontà di esorcizzare una figura come quella di un Zelensky al Cremlino, cioè di un leader palesemente eterodiretto dagli Stati Uniti e nemico degli autentici interessi nazionali. Nonostante il risultato di Putin fosse atteso, i numeri ottenuti hanno impressionato le cancellerie mondiali e a questo proposito è interessante citare un originale studio apparso sul sito IlGrandContinent.eu dal titolo “Chi sostiene Putin oggi? Le reazioni globali al voto in Russia” del 19 marzo, dove sono stati elencati e riclassificati i capi di Stato che hanno condannato, criticato e applaudito la rielezione del presidente russo. Citiamo alcuni passaggi significativi: “Martedì 19 marzo, secondo i nostri calcoli, i governi che hanno espresso le loro congratulazioni al Cremlino per la rielezione di Putin rappresentano una popolazione di 3,7 miliardi di persone, contro gli appena 1,3 miliardi dei Paesi che hanno condannato il processo elettorale, la posizione di questi governi, ovviamente, non riflette necessariamente la posizione dei loro abitanti”. Leggendo l’articolo si sarebbe portati a pensare che dei 3,7 miliardi non tutti sono a favore di Putin, ma sarebbe utile e interessante sapere altresì dei 1,3 miliardi formalmente contrari, chi invece non lo sono. Dal punto di vista del Pil: “Tuttavia, il rapporto si inverte quando si considera la ricchezza rispettiva dei due gruppi: il Pil totale dei Paesi che si sono congratulati con Putin raggiunge i 26.637 miliardi di dollari (circa il 25% del Pil mondiale), rispetto ai 62.127 miliardi di dollari dei suoi critici (59%)”. Quali sono i capi di stato che si sono congratulati? “Finora, 32 capi di Stato e di governo si sono congratulati con Vladimir Putin per la sua rielezione. Possono essere raggruppati in tre categorie: tutte le repubbliche dell’Asia centrale, tranne il Turkmenistan, che non ha ancora preso una posizione ufficiale; i piccoli e medi alleati di Mosca che hanno costantemente sostenuto la Russia dopo l’invasione dell’Ucraina alle Nazioni Unite: Bielorussia, Siria, Venezuela, Corea del Nord, Nicaragua, Emirati Arabi Uniti ecc. Alcune grandi potenze geopolitiche: Iran, Cina e India.” Sul fronte avverso, gli Stati Uniti hanno dato il là all’unico alleato, Israele, all’unico Stato vassallo, Gran Bretagna, e alle province imperiali della Nato di unirsi nel coro di critiche e condanne alle elezioni “farsa” avvenute in Russia, e a sottoscrivere una dichiarazione comune dove si stigmatizza: “con la massima fermezza i tentativi illegittimi della Federazione Russa di organizzare elezioni presidenziali russe nelle aree temporaneamente occupate del territorio internazionalmente riconosciuto dell’Ucraina”. Ancora più importante: le cancellerie occidentali erano consapevoli della probabile vittoria di Putin, quello che le ha gettate in uno stizzito sconforto è stata la riconferma plebiscitaria del presidente da un lato e lo scarso peso dimostrato dalle opposizioni interne, tenendo conto che al secondo posto è giunto il candidato del Partito comunista della Federazione russa, altro esponente difficilmente manipolabile dai servizi d’intelligence occidentali, come lo era Aleksej Navalnyj, lo Zelensky russo appunto. Il livore per aver appreso il largo sostegno che i russi hanno dato al loro presidente si è sfogato nelle consuete, logore e soprattutto irreali invettive e citiamo tra le tante, quelle pubblicate sempre nello studio citato: “Il Ministero Francese per l’Europa e gli Affari Esteri ha denunciato un “contesto di crescente repressione nei confronti della società civile e di tutte le forme di opposizione al regime, di restrizioni sempre maggiori alla libertà di espressione e di messa al bando dei media indipendenti “; Il Ministero degli Esteri tedesco ha definito le elezioni come una farsa “né libera né equa”, il cui risultato “non sorprenderà nessuno. Il regime di Putin è autoritario, basato su censura, repressione e violenza. Le elezioni nei territori occupati dell’Ucraina sono nulle e non valide e costituiscono una nuova violazione del diritto internazionale”; in vista del Consiglio Affari Esteri tenutosi il 18 marzo a Bruxelles, il ministro spagnolo José Manuel Albares ha dichiarato che il processo elettorale russo è “molto lontano, per dirla diplomaticamente, da quelle che noi nell’Unione e in Spagna consideriamo elezioni democratiche con le necessarie garanzie“. Tuttavia anche il fronte Nato non è affatto granitico in quanto: “Fino alle 19.30, la Turchia era l’unico Paese della Nato a non aver: 1) firmato la dichiarazione congiunta di condanna delle elezioni presidenziali russe e 2) criticato o condannato unilateralmente le elezioni. Erdogan è ora l’unico leader della Nato a essersi congratulato telefonicamente con Putin per la sua rielezione”. Va altresì segnalato che tre importanti membri dei Brics non si sono ancora pronunciati, essi sono Brasile, Sud Africa ed Etiopia; anche se fare le congratulazioni a Putin non è un obbligo statutario di quel club, quali sono le ragioni? Opportunità di politica interna e internazionale, come per il caso del Brasile che deve sempre guardarsi dal rischio di golpe militari sponsorizzati dagli Usa, con la recente aggiunta della presenza di un vicino ambiguo e pericoloso come il presidente argentino Javier Milei; oppure di affiliazione ad altre organizzazioni internazionali come per il Sud Africa, membro dei Brics ma anche del Commonwealth britannico.

 

La natura politica di Putin: quando la politica estera è determinante

In premessa abbiamo ricordato che per non errare nelle analisi di politica internazionale, e di riflesso nazionale, occorre indossare le lenti della Realpolitik perché Israele ha demolito definitivamente la sovrastruttura costituita dagli ideali astratti da anteporre a giustificazione della politica di dominio dell’Occidente. Ma se pensassimo che è tornata la Realpolitik di stampo bismarkiano, faremmo un grossolano errore. Non solo perché sono passati due secoli e due guerre mondiali, ma soprattutto perché l’interprete di oggi è un personaggio del tutto diverso, sia come estrazione sociale, sia come educazione e carriera rispetto all’aristocratico Cancelliere di ferro. Ad esempio, secondo la propaganda occidentale il presidente russo è un esponente di destra tendente all’estremismo. Secondo il metodo deduttivo adottato dalla stampa occidentale, siccome vi sono alcuni leader europei dichiaratamente di destra che hanno mostrato un certo disallineamento rispetto alla politica d’ostracismo imposta dagli Stati Uniti, tale disallineamento è stato tradotto in ammirazione personale nei confronti del leader russo, il quale è divenuto, per proprietà transitiva, una sorta di leader delle destre nazionaliste. Facciamo una carrellata facendoci aiutare dal prestigioso The Economist del 3 luglio 2023, quindi durante lo svolgimento di quello che doveva essere la sfolgorante offensiva ucraina in Donbass, attraverso l’articolo “Vladimir Putin’s useful idiots” – “Gli utili idioti di Putin”. L’attacco del pezzo è veramente interessante perché racconta del ricevimento tenuto dall’ambasciatore russo in Germania al quale hanno partecipato personaggi non molto coerenti con la narrativa occidentale del regime russo di estrema destra: l’ultimo capo della Repubblica Democratica tedesca, l’ormai ottantaseienne Egon Krenz, il cancelliere della Germania unita dal 1998 al 2005 Gerhard Schröder e più recentemente lobbista delle compagnie energetiche russe; nonché Tino Chrupalla, co-leader del partito di estrema destra Alternativa per la Germania (AfD), che indossava una cravatta con i colori della Federazione Russa. L’articolo prosegue la sua lista di putiniani di destra citando il principale tra tutti, Viktor Orbán, primo ministro ungherese dal 2010: «Questo uomo forte populista ha ripetutamente criticato il sostegno occidentale all’Ucraina e ha mantenuto le importazioni ungheresi di gas russo. Il suo governo si rifiuta inoltre di consentire il transito di armi consegnate in Ucraina dagli alleati dell’Ungheria della Nato e dell’Ue. Anche la vicina Austria, più discretamente, ma approfittandone allo stesso modo, è rimasta fuori dalla mischia, citando la sua non appartenenza alla Nato e il suo ruolo autoproclamato di ponte tra Oriente e Occidente, offrendo all’Ucraina poco aiuto, sebbene il suo commercio con la Russia sia salito alle stelle». Si passa poi a Marine Le Pen, che ripete in modo pappagallesco la propaganda russa su Crimea e Ucraina; la stessa viene anche accusata di aver intascato 9 milioni di euro, provenienti da giri misteriosi riconducibili però al Cremlino. Marine Le Pen ha condannato l’invasione russa dell’Ucraina, ma lo scorso ottobre, sette mesi dopo l’inizio della guerra, ha dichiarato che le sanzioni alla Russia non funzionano. Infine, e in questo caso non vale affatto la famosa locuzione inglese “last but not least”, l’Economist scrive: “mentre il primo ministro di estrema destra Giorgia Meloni è un convinto sostenitore dell’Ucraina, Matteo Salvini, che guida il secondo partito della sua coalizione, è un altro oppositore delle sanzioni e, almeno fino all’invasione, era un dichiarato ammiratore di Putin». Quindi, secondo il metodo deduttivo utilizzato dai mass media occidentali, se hai ammiratori di destra sei un leader di destra. Eppure ci sono almeno due elementi essenziali che mettono in dubbio il racconto occidentale di un Putin di destra: la sua intervista con Tucker Carlson dove si parla apertamente di “denazificazione” dell’Ucraina, mostrando una forte ostilità nei confronti del retaggio storico del nazismo hitleriano e dei suoi eredi annidati nel governo e nell’esercito ucraino, nonché la difformità di agenda politica in confronto a quella del suo antagonista Volodymyr Zelensky, il quale, sempre secondo il metodo deduttivo occidentale, dovrebbe essere un autentico leader democratico perché amico dei capi di stato e di governo del democratico occidente. Tuttavia, se invece adottiamo un metodo analitico induttivo i conti non tornano più; vediamo per quali ragioni: l’Espresso del 23 marzo 2022 intitolava: “Guerra in Ucraina, Zelensky sospende undici partiti di opposizione: collaborano con la Russia…Tra i partiti sospesi c’è anche il principale avversario politico di Servitore del Popolo, il partito di Zelensky, la Piattaforma di Opposizione – Per la Vita (OPZZh), che alle elezioni del 2019, ha preso il 13 per cento dei voti e 43 seggi parlamentari su 450. Un partito apertamente filo russo e antieuropeista che, durante le elezioni ha sostenuto una politica a favore dei territori con presenza russa dell’est, riconoscendo le repubbliche del Donetsk e di Luhansk e che ha infatti preso la maggior parte dei voti nelle regioni al confine con la Russia…. Il Partito Socialista Progressista in passato era un partito di centrosinistra, ma è stato dirottato dalle forze pro-Putin. Non hanno niente in comune con il socialismo…. C’è poi Opposizione di sinistra, il successore del Partito Comunista d’Ucraina che è il gemello di quello russo, ha posizioni pro-Putin, omofobe e xenofobe e ha più in comune con lo stalinismo, che con l’eurocomunismo di partiti europei come quello comunista francese”. Al netto delle spiegazioni di un organo di propaganda occidentale, l’attività dei partiti ucraini è accettata solo se atlantista, europeista e di destra. Sempre nell’agenda del democratico Zelensky vi è poi l’idea di impedire agli ucraini di andare al voto nel 2024 per rieleggere il proprio presidente: “Zelensky: “Voto in Ucraina nel 2024? Adesso non è il momento di organizzare elezioni” … “Non è che non voglia tenere le elezioni, ma tenerle nelle circostanze attuali richiederebbe un lavoro senza precedenti e richiederebbe di affrontare sfide senza precedenti”, ha spiegato il ministro degli Esteri Dmytro Kouleba” da Il Fatto Quotidiano del 6 novembre 2023.

Se il presidente russo fosse un vero autocrate di destra avrebbe dovuto prendere esempio dal collega ucraino, anch’egli coinvolto nella medesima guerra. Tuttavia Putin le elezioni in Russia le ha regolarmente tenute, e i suoi antagonisti sono stati rappresentanti di partiti che poco hanno a che spartire con lui, anzi tutt’altro: al secondo posto è arrivato Nikolaj Charitonov esponente del Partito comunista della Federazione russa; al terzo Vladislav Davankov del Partito Nuova Gente, una sorta di partito liberale progressista; al quarto Leonid Sluckij del Partito liberal-democratico di Russia formazione di destra fondata dal famigerato Vladimir Žirinovskij. Se Putin fosse un leader di destra almeno quanto Zelensky avrebbe quanto meno messo al bando il Partito comunista russo, e procrastinato le elezioni di qualche mese, non avrebbe sempre in bocca concetti come nazisti da combattere e denazificazione da compiere. Allora Putin è un leader di tradizione sovietica? Sarebbe difficile affermare anche questo. Ad esempio, nella sua dissertazione storica del conflitto con l’Ucraina sempre contenuta nell’intervista con Carlson, Putin non esime critiche a varie decisioni del potere sovietico, Lenin prima e Stalin poi, di stabilizzare lo stato ucraino e di favorire una maggiore indipendenza quantomeno culturale rispetto a quella russa. Allora qual è la natura politica di Vladimir Putin? Difficile dare una risposta che non si presti a critiche di ogni tipo. Sempre nell’intervista a Carlson, l’inquilino del Cremlino prospetta, tra le righe, una sorta di percorso politico compiuto dalla Russia nei 25 anni della sua presidenza e che sostanzialmente si può dividere in tre momenti, ovviamente con tutte le lacune che le semplificazioni comportano. Il primo momento è segnato da un particolare desiderio di aprirsi all’Occidente collettivo, sia da un punto di vista politico che economico e militare. Sono i primi anni della sua presidenza e culminano con la richiesta formulata nel 2000 all’allora presidente Bill Clinton di entrare nella Nato. Non solo la risposta fu un deciso rifiuto, ma il “misterioso” affondamento del sommergibile nucleare Kursk nel mare del Nord nell’agosto dello stesso anno misero immediatamente in chiaro le vere intenzioni dell’Alleanza atlantica. Quali? Di espandere la Nato nell’Est europeo fino ad arrivare progressivamente ai confini con la Russia, come successo in cinque ondate successive a partire dal 1999 fino ad arrivare all’ingresso della Svezia di quest’anno. Da un certo punto di vista, il Putin di inizio mandato si poteva effettivamente definire di “destra”, cioè particolarmente aperto al liberismo di matrice occidentale e abbastanza collaborativo con gli interessi di oligarchi filo occidentali come Roman Abramovič, definito da Forbes l’attuale uomo più ricco d’Israele. Il secondo periodo è caratterizzato da una particolare rapporto commerciale con l’Unione Europea e segnatamente con la Germania, diventando uno dei due pilastri delle fortune industriali e commerciali teutoniche. Sostanzialmente, il secondo periodo coincide con la durata della Cancelleria di Angela Merkel, cioè dal 2005 al 2021. I buoni rapporti si sono però limitati alla sfera commerciale, mentre dal punto di vista geopolitico la Russia ha iniziato un complesso riposizionamento, caratterizzato dal non banale avvicinamento al suo assai ingombrante vicino cinese e a una maggiore attenzione al continente asiatico, India compresa. Questo processo è iniziato nel 2009 e nel 2010, anno che ha visto l’ingresso del Sud Africa, da cui l’acronimo attuale di BRICS. La reazione dell’Occidente collettivo non si è fatta attendere ed è culminata con il colpo di Stato di Euromaidan del 2014 in Ucraina. Nel secondo periodo si può dire che Putin chiude definitivamente con gli afflati occidentali e da posizioni liberiste si converte progressivamente a posizioni che sarebbe corretto definire social-democratiche patriottiche. Il terzo periodo, quello attuale, inizia con la Cancelleria di Olaf Scholz nel gennaio del 2022; si parla quindi di una decisa rottura politica ed economica operata dall’Unione Europea, su precisa volontà della metropoli imperiale americana, tramite crescenti sanzioni economiche imposte alla Russia, segnatamente in tre principali modi: guerra per procura fomentata in Ucraina; riduzione delle importazioni di gas naturale russo anche tramite il sabotaggio dei gasdotti North stream; sequestro delle somme depositate dalla Banca di Russia negli istituti occidentali. Invece del collasso dell’economia russa, pronosticato dalla propaganda occidentale, Mosca ha avuto la possibilità d’integrarsi ulteriormente in un sistema economico prettamente asiatico, potendo contare soprattutto su di un partner industriale di primissimo livello, la Cina, con la quale creare un flusso sia d’importazioni che di esportazioni nel modo che Putin ha esplicitato, sempre nell’intervista di Carlson, “Insieme al mio collega e amico presidente Xi Jinping, abbiamo fissato l’obiettivo di raggiungere quest’anno 200 miliardi di dollari di scambi reciproci con la Cina. Abbiamo superato questo livello. Secondo i nostri dati, il nostro commercio bilaterale con la Cina ammonta già a 230 miliardi, mentre le statistiche cinesi dicono che ammonta a 240 miliardi di dollari. Ancora una cosa importante: il nostro commercio è ben equilibrato e reciprocamente complementare nei settori dell’alta tecnologia, dell’energia, della ricerca scientifica e dello sviluppo”.

L’altro grande player asiatico è l’India e qui lasciamo la parola al «Corriere del Ticino» del 19 febbraio 2024, che nonostante scriva in lingua italiana e faccia il suo mestiere di propagandista, non si permette di considerare i suoi lettori svizzeri degli autentici mentecatti come invece fanno i giornali italiani con i loro: “Guerra Do svidaniya, Occidente: la Russia vende il greggio all’India e incassa cifre record… Nonostante le sanzioni, nelle casse del Cremlino sono entrati 37 miliardi di dollari dal commercio di petrolio con il Paese asiatico: molti spostamenti attraverso la «flotta ombra … Il flusso di soldi a vantaggio di Mosca proviene direttamente dall’India che, dopo l’invasione dell’Ucraina, ha aumentato i suoi acquisti di greggio russo di oltre 13 volte rispetto agli importi prebellici, secondo il Crea. Di fatto, Nuova Delhi, che è un partner strategico degli Stati Uniti, ha sostituito gli acquisti di petrolio non raffinato precedentemente effettuati dai clienti occidentali, che oggi devono rispettare le restrizioni internazionali. L’impatto degli acquisti di greggio da parte dell’India è stato principalmente quello di indebolire la morsa delle sanzioni sul petrolio, portando le entrate federali della Russia alla cifra record di 320 miliardi di dollari nel 2023”. Non vi è sola pura convenienza economica in quanto descritto dal «Corriere del Ticino», vi è anche una certa influenza politica che i Brics esercitano sui propri partner che si potrebbe definire di “vantaggioso mutuo soccorso”. Il Putin di oggi è ancora diverso rispetto a quello della seconda fase. A differenza dell’Occidente, dove vivono i veri oligarchi del denaro, il governo russo non ha finto di non vedere i soldi spariti nelle pieghe dei bilanci di compagnie petrolifere e bancarie, non ha permesso extra profitti esentasse all’italiana maniera. Se i russi hanno votato in massa per Putin non è sufficiente spiegarlo col sentimento patriottico diffuso, tantomeno un inesistente sterminato esercito di poliziotti che costringono i russi ad andare a votare secondo la sempre più ridicola propaganda occidentale, perché il dato saliente non è tanto il voto a favore del presidente uscente e rieletto, quanto quello dell’affluenza alle urne in un paese sterminato e difficile da controllare. Cosa manca allora? Ce lo dice addirittura uno dei principali pilastri della propaganda occidentale in Italia, «Open» del 14 marzo scorso: “Putin 2030 – Pensioni, salari, benefit: così lo Zar ha vinto le elezioni in Russia… Quando vuole spiegare il motivo del consenso dello Zar, Volkov (Denis Volkov direttore del Centro Sondaggi Levada, ndr) cita l’economia: «Grazie all’indicizzazione di pensioni e salari e all’ampliamento dei benefit sociali, c’è stata una grande redistribuzione della ricchezza. In più mezzo milione di russi ha lasciato il Paese e un altro mezzo è stato reclutato o si sono arruolati come volontari. In totale oltre un milione di russi sono venuti a mancare all’economia il che, insieme all’industria militare a pieno regime, ha significato più occupazione e salari più alti. Tutto questo alimenta un grande ottimismo e aiuta a mantenere la stabilità sociale. Non è la società russa che si è adattata, come spesso si dice, ma lo Stato ha investito tanto per aiutarla ad adattarsi. E la società ricambia con la lealtà al regime». Si può dire che Putin ha accentuato il suo particolare mix tra spirito socialdemocratico e patriottismo. Si può anche affermare che vi è stata un’evoluzione nel pensiero politico del presidente russo, uno spostamento graduale da posizioni liberiste d’ispirazione quasi occidentali d’inizio mandato a una progressiva rivalutazione di alcuni aspetti dell’esperienza sovietica, soprattutto in campo sociale.

 

Un diverso concetto di democrazia

In modo involuto e negativo nei confronti di Putin, altrimenti non puoi lavorare in Occidente, il sondaggista Denis Volkov ci ha dato un’interessante chiave di lettura del concetto russo di democrazia: “Non è la società russa che si è adattata, come spesso si dice, ma lo Stato ha investito tanto per aiutarla ad adattarsi”. A denti stretti i propagandisti occidentali devono ammettere che esiste un rapporto tra il potere e la base popolare, e che quest’ultima è in grado d’influire sulle scelte della classe politica. Per spiegare meglio questo passaggio fondamentale è opportuno citare l’articolo del giornalista della «Pravda» Jafar Salimov “La chiave per comprendere la Russia” apparso su l’«Antidiplomatico» dell’8 marzo scorso: “Quando gli analisti in Europa e negli Stati Uniti associano i cambiamenti in Russia al nome di Putin, definendolo tiranno e dittatore, si sbagliano anche loro. Un altro politico, oggi considerato un tiranno, Joseph Stalin, ammise che un piccolo gruppo di bolscevichi non avrebbe mantenuto il potere in Russia per un solo anno, se avesse osato fare ciò che la gente non voleva. Con Putin la situazione è esattamente la stessa: si è semplicemente sottomesso alla pressione delle masse. E questa non era la restaurazione della tirannia, ma il ritorno della democrazia. Putin da solo non sarebbe riuscito a spostare nemmeno di un millimetro le forti ed estese posizioni degli oligarchi che governavano la Russia negli anni ’90. Ma egli percepì con grande sensibilità la richiesta pubblica di cambiamento e cominciò a muoversi in linea con le richieste delle grandi masse. E il popolo vide che veniva ascoltato, che la democrazia stava tornando, che ogni funzionario, che si immaginava un principe autocratico, poteva essere chiamato a rendere conto”. Secondo Salimov in Russia è in corso un’evoluzione del concetto di democrazia, dove il potere si adegua alla volontà popolare per due ordini di ragione: patriottismo e ovvia autoconservazione: “Se si vuole prevedere il comportamento dei russi e della Russia, allora bisogna eliminare l’etichetta propagandistica di dittatore che è stata così diligentemente affibbiata a Putin. Dimenticate il capitalismo russo dichiarato. In Russia è ormai emersa la democrazia per le masse, e le masse sono riuscite a trasformare lo Stato in una società sociale. Allo stesso tempo, è sorto un piccolo ma influente strato di opposizione: si tratta di parassiti a cui un consorzio di masse e il potere supremo impediscono di trarre profitto dal derubare il popolo”. In termini maggiormente politici, in Russia è avvenuta una sintesi tra la tradizione sovietica, profondamente penetrata nel Dha di quel popolo, e la scioccante esperienza liberista degli anni novanta dello scorso secolo, per raggiungere una forma di socialdemocrazia delle origini, che contempla la presenza dell’iniziativa privata ma che è subordinata agli interessi pubblici, rappresentati dal potere in una sorta di legame diretto con il popolo, ed è un rapporto reciproco, di esercizio del governo da un lato e di controllo effettivo dall’altro. Ci si rende conto che questa forma democratica è difficile da capire in Occidente, sprofondato in una forma degenerata di democrazia che, alcuni sociologi e politologi chiamano già post-democrazia, come se un termine scientifico possa rendere naturale un fatto assolutamente grave. Nella forma degenerata della democrazia occidentale non vi è nessun rapporto tra cittadini elettori e governo, essendo stato sviluppato il sistema del Partito Unico, come spiegato in numerosi passati articoli. Il Partito Unico, presente in massima evidenza in Germania e Italia, ma che ha preso le mosse dal Regno Unito, è una comunità chiusa di partiti borghesi che hanno in comune la medesima politica estera (atlantismo fanatico) e politica economica (ultra liberismo), facce della medesima moneta. Questi partiti si differenziano su questioni secondarie per impersonare i ruoli di destra e sinistra sui palchi televisivi e delle elezioni, per poi tornare a perseguire la medesima politica dei predecessori una volta assolto il rito delle urne. Altra fondamentale caratteristica del Partito Unico è la politica del massimo incentivo possibile all’astensionismo degli elettori, in modo da scoraggiare il voto d’opinione dall’andare alle urne e dare quindi maggiore spazio al voto organizzato e clientelare (spesso di matrice mafiosa) col quale fare accordi pre-elettorali. Per inciso, ecco gli ultimi aggiornamenti sull’attività del Partito Unico italiano su questo fronte: astensione al voto regionale sardo del febbraio 2024 48,10%; astensione al voto regionale abruzzese del marzo 2024 47,81%; «RaiNews» del 20 marzo 2024: “Governo invia ispezione antimafia al comune di Bari, ipotesi scioglimento. Decaro (sindaco di Bari e presidente dell’Anci, ndr):”Atto di guerra”; oppure «SkyNews» sempre del 24 ottobre: “Emiliano (Michele Emiliano presidente della Regione Puglia, ndr): “Io con Decaro dalla sorella del boss”. Il Partito Unico, eliminando il pericolo di un’opposizione vera e quindi rescindendo ogni legame tra elettore ed eletto, ha reso il sistema democratico un puro rito formale, inculcando nei cittadini elettori la convinzione che l’esercizio del loro diritto è del tutto inutile, che i programmi elettorali oppure le promesse del dato politico sono vane formalità, anzi che una volta giunto al governo la sua azione sarà energicamente contraria agli interessi popolari e totalmente asservita a quelli della potenza straniera di turno oppure dell’oligarchia indigena che ha fornito i voti per la vittoria. Soprattutto, il Partito Unico priva la nazione dove sgoverna di ogni speranza di futuro, plasticamente rappresentata dalla crisi demografica: “L’Italia è l’unico tra i grandi Paesi europei ad aver registrato un calo del numero degli abitanti (-1%). Il calo del numero degli abitanti causa vari problemi: le aree interne si spopolano, ci sono conseguenze sull’economia, sulle pensioni e sulla sanità. Una volta iniziato, il declino demografico è complicato da arrestare: per esempio l’Italia ha perso quasi due milioni di abitanti solo tra il 2016, anno con il numero più alto di abitanti, e il 2022”, «Pagella Politica» del 11 marzo 2024.

 

Una lettura dell’attentato al Crocus City Hall di Mosca

All’interno di questa analisi, si può quindi dare una lettura del grave attentato al Crocus City Hall del 22 marzo scorso. Innanzitutto si tratta della certificazione di un deciso mutamento della percezione della politica russa in Occidente: come il citato affondamento del sommergibile Kursk, avvenne otto mesi dopo il primo insediamento di Putin al Cremlino, questo attentato avviene a soli cinque giorni dalle elezioni-plebiscito che ha visto la riconferma del presidente russo. Sugli esecutori dell’attentato, vista l’attribuzione immediatamente data dai mass media occidentali al gruppo terroristico islamico Isis-K, si nota che, a differenza del passato, questi personaggi non si sono prestati al consueto rito del martirio in azione, tanto utile per difendere innanzitutto l’identità dei fiancheggiatori locali e quindi della possibilità degli inquirenti di risalire ai vari livelli dei mandanti. In questo caso invece, oltre ad aver arrestato i quattro terroristi, la polizia russa ha potuto fermare anche numerosi complici. Possiamo quindi affermare che una certa quantità d’informazioni sui mandanti sono già in possesso del Cremlino e che tali informazioni sono ovviamente superiori, in termini di quantità e qualità, rispetto a quelle a noi disponibili. Affidandoci all’analisi di questo articolo, mi sembra assai plausibile che i mandanti siano i servizi occidentali, per lo stile, l’audacia e le conseguenze mi sembra un’operazione pensata dall’intelligence britannica, ma si tratta di opinione personale, e che i servizi ucraini potessero essere coinvolti come logistica locale, e soprattutto come strumenti di eliminazione di questi terroristi, una volta giunti in Ucraina, per poi addossare la colpa ai russi. Questo dubbio ha probabilmente colto anche i fuggiaschi mentre si avvicinavano, sempre più lentamente, alla “finestra” concessa loro dagli ucraini. Come si può inquadrare questo attentato? Partiamo, a mio avviso, dallo sgomento che le elezioni russe hanno provocato nelle cancellerie americana ed europee. Non è affatto vero che in occidente si aspettasse una passeggiata elettorale di Putin: ci si scorda che gli sforzi soprattutto europei, per demolire il potere del Cremlino, si sono prolungati per due anni su tre linee di fronte: sostegno militare diretto a Kiev, sostegno finanziario diretto, sostegno economico indiretto tramite le sanzioni a Mosca. Le tre linee di sostegno si sono tramutate in tre clamorosi fallimenti: quello militare è stato vanificato dal tracollo dell’offensiva ucraina del 2023; quello finanziario si è concretizzato nella perdita immane di denaro in uno stato allo sbando, caratterizzato da corruzione e inefficienza clamorosi; quello economico è divenuto un boomerang che ha affondato l’economia tedesca e quindi quella comunitaria. I tre fallimenti sono stati certificati dal plebiscito che ha visto la rielezione di Vladimir Putin. Quando, nel gennaio di quest’anno, i leader europei sono sfilati a Davos davanti a coloro che possono finanziare partiti e che sono i proprietari dei mass media che oggi suonano la loro grancassa, essi temevano di aver perso la loro approvazione, ma si sono rincuorati vedendoli applaudire il presidente-attore-burattino Zelensky. Si è trattato di applausi di facciata, perché, dal punto di vista degli oligarchi a simposio, sono sfilati leader perdenti e che li hanno pure insultati, raccontando loro le medesime favole che snocciolano in televisione ai cittadini comuni. Mentre ascoltavano le solite noiose chiacchiere degli Scholz e dei Macron, gli oligarchi di Davos pensavano all’unisono dove fossero le spoglie del ricco Donbass, promesse loro dalle Ursule von der Leyen, sulle ali della riconquista ucraina del 2023, e dove fossero quelle ancor più appetitose della Russia, dove un Putin sconfitto avrebbe dovuto lasciare il posto ad un leader democratico alla Navalnyj, per potere così iniziare il saccheggio in nome della democrazia e della libertà. Intanto che udivano la Lagarde, gli industriali si chiedevano quando sarebbe finita la cuccagna per banche e per le società speculative come Blackrock e Vanguard Group, mentre il Pil tedesco tributava a questi signori lo 0,3% nel 2023, un anno nero per l’industria teutonica. Forse, in occasione delle prossime elezioni europee, i confindustriali tedeschi hanno pensato che qualche milione di euro, qualche articolo benevolo e qualche ora in televisione ad Alternative für Deutschland, ma anche a Bündnis Sahra Wagenknecht, sarebbe il caso di concederla, come qualche opportuna inchiesta sui famigerati sms segretati e scambiati tra Ursula von der Leyen e l’allora Amministratore delegato di Pfizer durante gli anni ruggenti del Covid-19 sarebbe ora che venisse pubblicata. Venuti via da Davos senza quelle certezze con le quali vi erano andati, i leader collaborazionisti si vedono pure recapitare un sinistro ordine di servizio dal segretario alla Difesa americano Lloyd Austin: “Se Kiev perde, la Nato combatterà contro la Russia”, «RaiNews» del 1° marzo 2024. L’ordine di servizio suona ancor più spaventoso perché risulta chiaro che per Nato, gli americani intendono i soli paesi europei, e non certamente i loro, dato che hanno già cessato di finanziare il piagnone di Kiev, impegnati a sostenere il genocidio a Gaza. Tra i palazzi del potere europeo scoppia la guerra di tutti contro tutti e si tratta di conflitti sia all’interno dei singoli stati, sia tra diplomazie europee in modo del tutto trasversale: nei confronti di Mosca divisi su tutto ma uniti da un motto comune denominatore: “vai avanti tu che mi vien da ridere”. Perché questo timore di andare in guerra contro i biechi russi, vista la bontà delle parole d’ordine dell’occidente libertà, pace, democrazia? Proprio perché le parole d’ordine occidentali appaiono per quello che sono: pura propaganda e che non hanno nulla a che vedere con la vita reale di coloro che dovrebbero arruolarsi numerosi ed entusiasti. Ponendo il caso di una guerra convenzionale, priva dell’uso di armi atomiche, nei confronti della Russia da parte dei paesi europei, una riedizione allargata alla Francia dell’operazione Barbarossa di hitleriana memoria, occorre convincere i cittadini europei di fare la medesima fine di quelli ucraini per proteggere il loro stile di vita, e cioè una crescente inflazione: quando si va a fare la spesa, un crescente precariato nel lavoro, bollette energetiche sempre più care, tasse sempre più elevate come pure gli evasori, un valido sistema sanitario per i soli abbienti, un buon sistema scolastico sempre per i soli benestanti, un diritto alla casa riservato a pochi eccetera. In sintesi, la proposta dei leader collaborazionisti agli europei sarebbe di andare a morire nelle steppe russe per permettere ai ricchi di esserlo sempre di più e ai poveri di esserlo in maggior numero e con maggiore gaiezza. Nei palazzi del potere serpeggia il dubbio che, in caso di leva popolare, il rischio di essere vittime della rabbia popolare è elevata: “Funerali di Beckenbauer, il Bayern dice no al cancelliere Scholz: “Rischia di prendere troppi fischi”, La Stampa del 16 gennaio 2024. L’unità e la stima reciproca in caso di guerra contro una grande potenza sono necessari. Quando la Wehrmacht raggiunse l’Oblast di Mosca nell’ottobre del 1941 e si preparò alla vera battaglia cruciale della seconda guerra mondiale, schierò 1.000.000 di soldati, 1.700 carri armati, 14.000 pezzi di artiglieria, 549 aerei e per essere sicuri che ai generali tedeschi non venissero strane idee in testa, come eventuali ripiegamenti di fronte, in ognuna dei tre raggruppamenti d’armata vi erano numerose divisioni delle SS, con funzioni “persuasive” per i vari stati maggiori sul fronte circa il pieno rispetto degli ordini del Fuhrer. Nonostante questa formidabile macchina militare, animata anche da un certo grado di fanatismo ideologico, i tedeschi persero la battaglia di Mosca. Siamo certi che ancora i tedeschi, i francesi, gli italiani, che non combattono veramente dal 1945, siano disposti a morire lungo il confine russo in nome di Ursula von der Leyen, Emanuel Macron, Olaf Scholz e Giorgia Meloni? E se pure ci si limitasse ai soli professionisti della guerra, già insufficienti in numero prima di muoversi, come si pensa possano avere qualche possibilità di vittoria di fronte a un esercito russo che combatte già da due anni, che ha quindi acquisito esperienza aggiornata sul campo, che sta sperimentando nuovi sistemi d’arma ultrasonici, che ha già organizzato la sua macchina industriale e la sua filiera di rifornimenti in modo ottimale? Un paese che vanta ingenti riserve di petrolio e materie prime e che può contare anche sull’apporto dell’industria bellica iraniana e della Corea del Nord? Se questi ragionamenti vengono fatti anche dai rappresentanti dei cosiddetti “Deep State” in Germania, vittima sacrificale di Lloyd Austin, non deve stupire che siano state “divulgate” le telefonate di generali tedeschi su piani segreti, commissionati direttamente da ufficiali americani, per attaccare il ponte di Crimea. Occorre ricordare che quando le democrazie occidentali, in nome della pace, attaccano uno stato sovrano lo fanno all’improvviso, nottetempo, e mettendo l’opinione pubblica di fronte al fatto avvenuto: così fece Massimo D’Alema il 24 marzo 1999 quando l’Italia partecipò all’aggressione Nato nei confronti della Serbia, in violazione della Costituzione italiana e delle norme del cosiddetto diritto internazionale. Così si stava apprestando a fare Scholz, mentre dichiarava urbi et orbi che mai avrebbe mandato soldati tedeschi in Ucraina; e siamo così sicuri che Emanuel Macron, dichiarando al mondo intero che sarebbe opportuno andare a combattere in Ucraina, non abbia invece sabotato il piano di Scholz, rendendo pubblico il fatto che tra Parigi, Berlino e Varsavia (che ha sostituito l’inservibile, e pure impresentabile, Roma come terzo pilastro dell’atlantismo europeo) si stava appunto discutendo di come eseguire le disposizioni pervenute da Washington, costringendo tutti i leader europei a dichiararsi contrari alla guerra diretta a Mosca? Ma se il fine dell’attentato a Crocus City Hall fosse stato quello di provocare una reazione russa stile Israele nei confronti di Gaza, allora ogni alibi degli oppositori europei alla Guerra, i quali, occorre ribadirlo, per ora non sono affatto i comuni cittadini tenuti all’oscuro il più possibile, bensì generali, ammiragli, direttori generali di ministeri e servizi d’intelligence dei vari paesi, non avrebbero più potuto opporsi alla guerra generalizzata in Europa. Tuttavia Vladimir Putin, che conosce bene queste dinamiche supportato da informazioni d’intelligence a noi sconosciute, ha dimostrato nervi saldissimi, esibendo la calma dei forti, senza lasciarsi prendere da reazioni stile George W. Bush a seguito dell’attentato alle Torri Gemelle del 2011, che avrebbero fatto il gioco dei leader collaborazionisti europei e del loro quasi piano di quasi terza guerra mondiale. Forse Putin, frequentando da qualche anno il suo omologo Xi Jinping, Putin ha pure adottato il motto cinese: “siediti sulla sponda del fiume e aspetta il cadavere del tuo nemico”, forse è certo che nel corso del 2024, i cadaveri politici di Ursula von der Leyen, di Olaf Scholz, di Emanuel Macron e di Giorgia Meloni, quest’ultima al netto delle classiche giravolte delle élite italiane quando fiutano la mal parata, gli passeranno tutti davanti.

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danilo fabbroni
Tuesday, 16 April 2024 14:43
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DECLASSIFIED FILES
UK INTELLIGENCE SECRETLY FUNDED LEFTIST MAGAZINE, THEN COVERED IT UP
Declassified files reveal the Foreign Office worked to suppress a scandal surrounding its covert financing of Encounter – a jewel in the crown of the cultural Cold War.
JOHN MCEVOY
15 APRIL 2024
Encounter magazine cover September 1986
An Encounter magazine cover from the Cold War. (Photo: booksR / Alamy)

Encounter was an intellectual and cultural magazine set up during the Cold War with secret funds from the US and British intelligence agencies.

The magazine’s purpose was to cultivate a compatible, non-communist left, while creating content that was generally supportive of Washington’s geopolitical interests.

Encounter’s intelligence links eventually became publicly known. In 1963, however, a British journalist almost blew the lid off its secret sources of funding.

Recently declassified files show how the Foreign Office mobilised to kill the story.

‘Left-of-centre publication’
In 1951, a group of US and British intelligence officials met secretly in Whitehall to discuss plans for an “Anglo-American left-of-centre publication”.

Amid the intensification of the Cold War, the CIA and MI6 wanted to nudge the Western intelligentsia away from neutralism and towards anti-communism.

The responsibility for devising the “operations and procedures” of the publication was handed to Monty Woodhouse, an MI6 officer who also worked with Britain’s secret Cold War propaganda unit, the Information Research Department (IRD).

“The CIA and MI6 wanted to nudge the Western intelligentsia away from neutralism and towards anti-communism”

On the US side, Woodhouse was assisted by Michael Josselson and Lawrence de Neufville, two CIA officers acting under cover of the Congress for Cultural Freedom (CCF).

The fruit of the three men’s endeavour was Encounter magazine, an intellectual and cultural journal first published in 1953, with covert funding from the CIA and UK Foreign Office.

“The deal was this”, wrote historian Frances Stonor Saunders: “Encounter’s editors were free to publish anything they wanted, as long as this did not adversely affect American interests”.

To be sure, this did not mean that Encounter was obliged “to support every aspect of official American policy” but the content would be “monitored, guided and, in extremis, controlled”.

Acceptable in left-wing circles
By 1963, the CIA and the Foreign Office viewed Encounter as an important tool in the cultural Cold War.

The fact that Encounter was “left-wingish and critical of many forms of authority”, noted Foreign Office official Leslie Glass, “makes its basic line more acceptable in [left-wing] circles we find it difficult to reach”.

Kit Barclay, the head of the IRD, added that: “The Americans and ourselves are able to suggest themes for insertion” in Encounter, “but we are not in a position to exercise day-to-day editorial control”.

He continued: “The general editorial line of Encounter is intended to be anti-Communist, but with a slightly left-wing tendency”. This was “in fact the pattern that is normally adopted for secretly subsidised newspapers or magazines. On the whole this has worked well in the case of Encounter”.

For his part, Josselson described the magazine as “our greatest asset”.

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‘These so and so’s got a subsidy from us’
The recently declassified files show how the UK government secretly worked to cover up its financial links with Encounter magazine.

On 27 October 1963, Donald McLachlan, the editor of the Sunday Telegraph, published a story in his paper which correctly asserted that Encounter was being covertly funded by the Foreign Office.

The article declared: “Rarely does a magazine of ideas survive in this country to celebrate its tenth birth, as Encounter does this week. But some credit goes to… the Foreign Office, whose regular contribution towards the cost of fighting the cultural Cold War has… been kept a close secret”.

McLachlan was not in the habit of embarrassing the UK government with such sensitive information. He had been a member of the British army’s intelligence corps, and had sat on the UK government’s Information Coordination Executive (ICE) during the Suez Crisis.

However, the Foreign Office suspected that McLachlan had been meeting with Lord Privy Seal and future prime minister Edward Heath, who was becoming disgruntled with Encounter’s editorial line.

“And on top of it all these so and so’s got a subsidy from us”, Heath had supposedly told McLachlan.

A very British cover up
The publication of McLachlan’s article was met with panic on both sides of the Atlantic.

The CIA insisted that a “retraction” from the Sunday Telegraph was “essential” and the Foreign Office initiated plans for a cover up.

Sir Harold Caccia, its permanent under-secretary of state, proposed two courses of action.

The first option was to appeal privately to McLachlan to retract the story in the national interest, while telling him that it “was very nearly true”.

The second option was to explain the situation to Heath, ask him to tell McLachlan that he had been misinformed, and thus encourage the Sunday Telegraph to issue a retraction.

The IRD went with the second option, and managed to convince Heath to talk McLachlan down.

The CIA insisted that a “retraction” from the Sunday Telegraph was “essential”

In November 1963, the Sunday Telegraph duly published “a note saying that they withdraw any suggestion there might have been that the Foreign Office provided a subsidy and that the editorial independence of ‘Encounter’ is not in question”.

Meanwhile, the Foreign Office developed a deceptive line to take with the British news outlets enquiring about McLachlan’s original story.

“Unfortunately the Foreign Office funds do not stretch to subsidizing magazines such as Encounter”, the line went.

“If pressed, we can off the record point out that we do, however, buy numbers of magazines and newspapers of all shades of opinion (‘including your own’) for distribution through our information channels”.

The line was fundamentally misleading but had “the merit of being literally true since the IRD indirect subsidy to Encounter comes from the Secret vote”, it was noted, meaning the funds were not subject to parliamentary scrutiny and could be officially denied.

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Moles in the media
Meanwhile, the IRD was also using a British journalist to secretly monitor what was going on behind the scenes at the Sunday Telegraph.

In late October 1963, Gordon Brook-Shepherd, the paper’s diplomatic correspondent, visited IRD official Hans Welser “to exonerate himself by making it clear that he had done what he could to restrain his editor [McLachlan]”.

Like McLachlan, Brook-Shepherd had previously worked for British intelligence. He added that he had put McLachlan under “strong pressure” to “tone down the leader” of his article.

Once the issue had been resolved, Brook-Shepherd continued to inform the IRD of McLachlan’s activities. McLachlan “was still on the scent and was now saying that a subsidy was paid to Encounter by the Foreign Office between 1953 and 1958”, the IRD was told.

If McLachlan returned to the attack, however, Welser was “fully confident that Brook-Shepherd will give me a tip-off should Mr McLachlan try and revert to the attack”.

Welser also recommended that the Foreign Office henceforth cut McLachlan from any sensitive governmental committees.

The Foreign Office succeeded in keeping Encounter’s covert sources of funding secret – albeit temporarily. In 1967, Encounter was outed as a recipient of CIA funding in a series of scandal-ridden articles published by Ramparts magazine.

The magazine continued in operation until 1991.

As Stephen Dorril noted in his book MI6: Fifty Years of Special Operations: “With a relatively small effort MI6 and the IRD were able to play a still largely unrecognised role in shaping European and, more particularly, British social democratic politics”.

ABOUT THE AUTHOR

John McEvoy is an independent journalist who has written for International History Review, The Canary, Tribune Magazine, Jacobin and Brasil Wire.

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