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Riders.jpgNegli ultimi decenni abbiamo assistito a delle grandi trasformazioni nel mondo del lavoro. Viste dall’Europa, tali trasformazioni appaiono complessivamente negative, ma se guardiamo dal punto di vista globale il quadro tende a farsi almeno un poco più sfumato.  Dall’avvento della Thatcher in Gran Bretagna e di Reagan negli Stati Uniti (simboli eloquenti della loro azione sono la lotta feroce della prima contro i minatori e del secondo contro i controllori di volo), l’attacco frontale al mondo del lavoro ha assunto nuovo vigore, trascinando in un ruolo attivo contro il lavoro anche importanti forze politiche un tempo di sinistra e lasciandosi progressivamente dietro molte delle conquiste del dopoguerra. In Occidente tale attacco, del resto ancora in atto, è stato reso possibile oltre che dalle pessime decisioni assunte dalla politica, anche dallo sviluppo dei processi di globalizzazione e da quelli di innovazione tecnologica.

 

Gli effetti della globalizzazione e dell’outsourcing

Un grande fattore di trasformazione del mondo del lavoro negli ultimi decenni sono stati indubbiamente i processi di globalizzazione, che hanno portato alla fine a risultati in parte diversi da quelli che sperava di ottenere chi li aveva innescati.

La coppia globalizzazione-outsourcing è stata avviata in diverse ondate dagli Stati Uniti, da governo e imprese mano nella mano, e più in generale dai paesi ricchi, con diversi obiettivi: intanto quello di espandere e di approfondire la presa economica, ma anche politica e ideologica, sul mondo, poi quella di ridurre i costi di produzione, approfittando in particolare del bassissimo livello dei salari nei paesi del Terzo Mondo, a fronte di una forza lavoro che in quei paesi andava tra l’altro scolarizzandosi, insieme, soprattutto in alcuni di essi, a una certa dotazione di infrastrutture funzionali a rendere efficiente il processo di delocalizzazione.

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Nel 1992, sollecitato sul tema della costituenda unione monetaria dal giornalista Mario Pirani, in un’intervista per la Repubblica, il prof. Frank Hahn, autorevole economista di Cambridge, affermava che «l’unione monetaria va contro tutto quello che sappiamo di economia».

 

Il vero obiettivo dell’euro, il controllo della classe lavoratrice

Si riferiva chiaramente all’analisi delle aree valutarie ottimali. È noto infatti che la condivisione di una valuta – ma il discorso vale anche per forme più limitate di coordinamento valutario, quale l’adozione un regime di cambi fissi – richiede per ben funzionare una serie di condizioni, tra le quali particolarmente rilevante è la mobilità dei fattori produttivi. Hahn spiegava che, in una situazione come quella europea, di limitata mobilità dei fattori, una volta bloccata la valvola di sfogo rappresentata dal tasso di cambio, il ruolo di stabilizzatore rispetto agli squilibri della bilancia dei pagamenti sarebbe toccato al mercato del lavoro. Data la rigidità dei salari, il riequilibrio richiesto avrebbe determinato fluttuazioni nel livello di disoccupazione: «I cambi fissi sostituiscono le fluttuazioni del cambio con quelle dell’occupazione». A giudizio di Hahn, queste conclusioni, benché note agli economisti, erano ignorate dai decisori politici a causa di un’eccessiva preoccupazione per la stabilità dei prezzi.

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17033503170872512859886099243511.jpgPer rispondere alla domanda cosa resta degli anni ‘70 è necessario porsi prima un’altra domanda: cosa sono stati gli anni ‘70?  La risposta, per chi non è accecato dalle cattive ideologie dei giorni nostri, è semplice. Gli anni ’70 sono stati il tentativo di mettere in forma gli anni ’60.  Un tentativo tragicamente chiuso, dal punto di vista storico-politico, il 16 marzo 1978 con il rapimento di Aldo Moro. Un giorno che segna anche la fine della prima Repubblica.

Senza i costituenti anni ’60 e la rabbiosa risposta ad essi dei poteri costituiti non si capisce un bel niente degli anni ’70. Il tema assegnatomi mi aiuta. La libertà e la dignità del lavoro è, infatti, il terreno che in modo esemplare riassume la passione costituente degli anni ’60 e ’70. Costituente persino nel lessico, se un gruppo musicale, come quello che qui celebriamo, porta impresso nel nome un luogo artigianale e operaio. La forneria. Premiata, un auspicio divenuto ben presto, contro ogni previsione dei benpensanti, realtà.

Non la farò lunga. Potete spegnere per qualche minuto i vostri smartphone. Che c’entrano i cellulari? Molto, moltissimo, come dirò conclusivamente.

 

Prima dell’autunno caldo

Serve fare un passo indietro. Serve un po’ di storia sociale, civile e politica, di storia vissuta e non meramente statistica. Tornare con il cuore alla condizione del lavoro prima dell’autunno caldo.

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labottegadelbarbieri

False promesse e ristrutturazioni ai danni dei lavoratori

di Alessandra Ciattini e Federico Giusti

mauroBiani padroniProletari.pngPrima e dopo il neoliberismo

Lavorare meno per lavorare tutti\e, era uno slogan, anzi un obiettivo, del movimento operaio per ridurre l’orario giornaliero e settimanale, allentare la morsa dello sfruttamento, favorire nuova occupazione sapendo che un esercito industriale di riserva avrebbe potuto alla lunga determinare la contrazione dei salari e un sostanziale arretramento delle condizioni di vita e di lavoro. Il progresso tecnologico, consentendo di ridurre il lavoro necessario alla produzione rende la riduzione dell’orario di lavoro non solo possibile, ma anche necessaria se vogliamo garantire il lavoro a tutti. Perciò tale riduzione a parità salariale, in un determinato contesto storico, ha rappresentato anche una richiesta legata alla riconquista dei tempi di vita a favore dello studio, del tempo libero e delle relazioni familiari e sociali. Per lo stesso motivo il capitale rifugge la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario in quanto il ricatto della disoccupazione costituisce un formidabile fattore di disciplinamento della classe lavoratrice.

Erano gli anni nei quali le ricette neo liberiste in economia e in campo sociale non avevano ancora preso il sopravvento e lo Stato sociale, costruito prevalentemente sulle famiglie monoreddito, per quanto incompleto era tale da consentire una pensione dignitosa (gli anni maturati erano calcolati con il sistema retributivo con un assegno previdenziale in linea con gli ultimi stipendi percepiti), servizi pubblici in campo educativo e sanitario tali da far studiare i figli all’università, grazie anche alle allora famose 150 ore, assicurando alla popolazione il diritto alla cura e alla prevenzione, alla tutela insomma della salute.

Erano anche gli anni nei quali si rivendicava una medicina del lavoro atta a prevenire malattie professionali o a curarle con ampio ricorso a servizi gratuiti e semi gratuiti.

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Salario minimo e questione salariale generale: gli obiettivi di una nuova lotta di classe contro il governo e le forze sindacali concertative

Editoriale di Stefano Tenenti*

salario minimo.jpgLa crescita esponenziale del lavoro povero

L’Italia è l’unico Paese OCSE in cui le retribuzioni medie lorde negli ultimi trenta anni sono diminuite. Mentre in Germania sono salite del 33,7% e in Francia del 31,1% in Italia si è registrato un calo del 2,9%. Nessun Paese occidentale ha avuto un andamento peggiore del nostro, come si evince dal 55° rapporto CENSIS 2021 sulla situazione sociale del Paese. nel frattempo le cose sono ulteriormente peggiorate.

Dentro questa situazione media generale si registra l’allargamento clamoroso del lavoro povero. Il ministro del lavoro Orlando, in carica fino a ottobre 2022 che aveva incaricato un gruppo di studiosi in materia per una ricerca correlata, ha chiarito che i “lavoratori poveri” in Italia sono il 25% del totale, uno su quattro, con una significativa differenza tra gli uomini che sono il 16,5% e le donne che invece schizzano al 31,8%. I settori dove si concentra questa condizione sono quello turistico-alberghiero, il commercio, il pulimento, la vigilanza, l’agricoltura, pur estendendosi a tutta l’economia del Paese. E questi non sono i dati peggiori, perché ci sono altri studi che, concentrandosi sul solo salario, avevano stabilito che sotto la soglia d’indigenza, nel 2017, si collocava il 32,4% della popolazione. (VisitINPS Scholars).

Ovviamente c’è un dato strutturale che spiega questa diffusione del lavoro sottopagato rappresentato dalla deindustrializzazione nazionale favorita dalla dismissione di gran parte dell’economia pubblica e dalla conseguente scomparsa di una politica industriale. Ma c’è anche un dato politico che pesa fortemente: la diffusione dei bassi salari e della conseguente ricattabilità di tutti i lavoratori aiuta i governi, da ultimo quello Meloni, a perseguire linee di concorrenza interna del mercato del lavoro che aiutano a spingere le retribuzioni verso il basso.

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collegamenti

“Uneasy rider” di Valentina De Nevi

Una recensione e alcune considerazioni sul quadro attuale

di Mauro De Agostini

Valentina De Nevi, “Uneasy rider. La storia nascosta del food delivery,” Novalogos, 2022, 129 p., 14 euro

9788831392105 0 536 0 75.jpgIl libro si propone di “indagare il mondo del food delivery in quanto contesto di oggettivazione delle dinamiche di quello che è stato definito ‘capitalismo delle piattaforme’” (p. 7), l’indagine si è svolta in pieno periodo pandemico (con tutte le difficoltà del caso) attraverso colloqui con esponenti delle Camere del lavoro autonomo e precario e della Rider Union di Bologna, interviste a rider, analisi dei siti e social e lo studio di un ricco apparato di studi preesistenti. Purtroppo, come precisa l’autrice, non è stato possibile includere tra gli intervistati lavoratori immigrati (ormai massicciamente presenti nel settore), questo sia a causa delle barriere linguistiche, sia dal fatto che, causa le limitazioni della pandemia, l’autrice ha dovuto svolgere buona parte della ricerca sul campo nel proprio luogo di residenza: una città medio-piccola del centro Italia. I rider intervistati lavoravano per Just Eat, Deliveroo e per una azienda locale, una rider è stata accompagnata nel corso di una settimana nel suo lavoro di consegna (p.15-19, 92).

Dalla ricerca emerge tra l’altro che le app di food delivery (consegna di cibo. Il lettore ci scuserà ma ormai sembra impossibile parlare di alcunché senza un profluvio di anglicismi) permettono di lucrare contemporaneamente sui ristoratori (che pagano per il servizio), sui lavoratori sui quali vengono scaricati i costi materiali e immateriali attraverso la pratica del cottimo che “riemerge da un passato che si pensava lontano ed esonda senza argini dallo spazio digitale al terreno sociale: lo sfruttamento è ‘arcaico’ ma il padrone è un algoritmo” (p. 8), ma anche (ben aldilà dell’ovvia commissione richiesta) sugli stessi clienti.

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coku

Tutti giù per terra

Salario minimo versus riduzione dell’orario di lavoro a parità di retribuzione

di Eugenio Donnici

il 1195x600.jpgPremessa

Di tanto in tanto, anzi molto sporadicamente e con scarsa visibilità, riappare il tema della riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario. Il 24 settembre scorso, il Manifesto, con un titolo ad effetto, “Facciamola breve”, riporta il tentativo del sindacato Ig Metall di rimettere al centro il Kurzarbeit, il “lavoro breve”, cioè una settimana lavorativa di quattro giorni, senza decurtare il salario. In realtà, è stata ripresa la proposta di Hoffman, leader dell’Ig Metall, quando nel 2020, in piena pandemia, si accarezzò l’idea che per salvare migliaia di posti di lavoro nell’industria dell’auto, era necessario ridurre la settimana lavorativa. A distanza di tre anni, la potenza di quell’idea è scemata ed ha indossato le vesti, ha assunto la concezione, di un esperimento laboratoriale. Il management dell’azienda Intraprenör, con sede a Berlino, ha avviato il progetto pilota, godendo dell’appoggio del maggiore sindacato tedesco, che fa parte del Comitato consultivo, e dell’organizzazione internazionale Four Day Week Global. Quest’ultima organizzazione, come ci fa notare Lucia Conti, (1) mette in evidenza i successi derivanti da questo genere di sperimentazioni in Gran Bretagna, sottolineando non solo i benefici per i dipendenti (maggior tempo libero, riduzione dei problemi di salute e di stress), ma addirittura anche un aumento dei profitti, con valori che hanno raggiunto il 36%. (2)

Se è vero che in altri paesi europei ci troviamo di fronte a tentativi sperimentali (isolati) per affrontare il problema della riduzione dell’orario di lavoro, cosa accade in Italia?

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conness precarie

Le improbabili genealogie di uno sciopero

Lotte di classe dentro e contro il sindacato

di Felice Mometti

image 768x512bed.pngDopo 46 giorni di sciopero, che nell’ultima fase ha coinvolto 45 mila lavoratori su 146 mila, alla Ford, General Motors e Stellantis – le cosiddette Big Three americane dell’automotive – sono stati rinnovati i contratti per i prossimi i 4 anni e 7 mesi. Se, di primo acchito, si facesse un confronto tra le rivendicazioni iniziali del sindacato United Auto Workers of America (UAW) e i risultati ottenuti, sarebbe a dir poco impietoso. Nella piattaforma sindacale, presentata un paio di mesi prima della scadenza contrattuale, c’erano cinque obiettivi definiti qualificanti e irrinunciabili: un aumento salariale del 40% in quattro anni, una riduzione a 32 ore settimanali pagate 40, l’abolizione dei due macro-livelli salariali e normativi introdotti dopo la crisi del 2008, l’abolizione del regime pensionistico a prestazione variabile in base all’andamento del mercato finanziario, la reintroduzione del Cost of Living Allowance (COLA) per recuperare completamente il potere d’acquisto che verrà eroso dalla futura inflazione.

Nelle 915 pagine del contratto Ford, nelle 458 del contratto General Motors e nelle 313 del contratto Stellantis non ci sono tracce dell’aumento del 40% del salario, della riduzione d’orario a 32 ore, dell’abolizione dei due macro-livelli salariali e normativi e delle pensioni variabili in base al mercato. Ci sono un aumento del salario del 25% in un contratto allungato di 7 mesi, quando l’inflazione negli ultimi 4 anni negli Stati Uniti è stata del 22% e le proposte delle Big Three oscillavano tra il 20-23% in quattro anni; un COLA, quantificato mediante astrusi calcoli, che recupera più o meno il 50% dell’inflazione futura con pagamenti posticipati di due mesi rispetto alla rilevazione statistica e la cancellazione dell’adeguamento, sebbene parziale, del salario negli ultimi sei mesi di valenza contrattuale; una riduzione da otto a tre anni per raggiungere il massimo salariale per i lavoratori del secondo macro-livello.

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ilpungolorosso

Il SI Cobas sciopera venerdì 17 novembre a sostegno del popolo palestinese, per fermare il genocidio a Gaza

Intervista al compagno Aldo Milani*

ghedi testa corteo 3.jpgL’Esecutivo nazionale del SI Cobas ha preso ieri sera una decisione della massima importanza: organizzare uno sciopero venerdì 17 novembre in solidarietà con la lotta del popolo palestinese, per contribuire a fermare immediatamente il massacro che l’esercito israeliano sta portando avanti a Gaza con l’appoggio totale degli Stati Uniti e dei paesi dell’UE, tra cui in prima fila l’Italia di Meloni e Mattarella. Ne chiediamo la ragione al compagno Aldo Milani, coordinatore nazionale del SI Cobas.

* * * *

Aldo Milani – Questa nostra decisione non cade dal cielo. Da sempre il SI Cobas sente di avere obblighi di solidarietà nei confronti dei proletari di tutti i paesi del mondo. Il nostro sindacato è composto da lavoratori e lavoratrici di più di 35 diverse nazionalità. Molti di loro provengono dai paesi arabi e di tradizione islamica. Perciò posso affermare che il SI Cobas ha l’internazionalismo proletario nel suo dna.

Da più di un anno, poi, siamo impegnati, con i compagni della Tendenza internazionalista rivoluzionaria (TIR) ed altri, in una serie di iniziative contro la guerra in Ucraina che ci hanno portato il 21 ottobre ad un grosso corteo davanti alla base militare italiana di Ghedi, dove sono depositate decine di bombe atomiche della Nato. In quella manifestazione abbiamo denunciato l’azione genocida dello stato di Israele, che data da decenni ma ha raggiunto in questi giorni una violenza sanguinaria spaventosa contro la popolazione di Gaza. Abbiamo fatto comunicati, indetto assemblee, partecipato a tante manifestazioni, ma – vista l’estrema urgenza di fermare questa mattanza – è venuto il momento di far fare un salto di qualità alla nostra azione. Lo sciopero è l’arma di lotta più efficace a nostra disposizione. E abbiamo deciso di usarla venerdì 17 in tutti i magazzini della logistica, nelle fabbriche e negli altri luoghi di lavoro in cui siamo presenti.

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paroleecose2

Torniamo a parlare di lavoro. Facciamolo collettivamente

di Gianluca De Angelis

grandidimissioniCon Le grandi dimissioni. Il nuovo rifiuto del lavoro e il tempo di riprenderci la vita (Einaudi, 2023), Francesca Coin dà voce a un dibattito di cui in Italia c’è un tremendo bisogno e lo fa in modo intelligente e comprensibile, senza lasciarsi naufragare dalla riflessione teorica o statistica da cui parte e centrando nel vivo la questione: arrivat3 a questo punto, perché lavoriamo?

È un libro per tutt3, che parla a chi un lavoro lo cerca, perché sappia cosa attendersi, a chi ce l’ha, perché possa trarne di meglio, e a chi sta pensando di lasciarlo, perché possa sentirsi meno sol3. È un libro che parla soprattutto attraverso le voci di chi il lavoro l’ha mollato, questo ne fa un volume a tratti duro da leggere. Le dimissioni sono infatti liberatorie, arrivano dopo le sofferenze, le discriminazioni, l’impotenza. Sono l’atto finale di una storia di costrizioni, che danno potere a chi se ne va togliendone al padrone, che spesso nemmeno lo sarebbe davvero – padrone, ma che ugualmente “gioca a fare dio” con l3 dipendenti.

Le storie prendono forma nei contesti lavorativi più esposti alla fuga de3 dipendenti in Italia: la sanità, la ristorazione, la grande distribuzione. Spesso sono storie di lavoratrici. Perché è quello di genere il terreno sul quale le contraddizioni del lavoro in Italia si manifestano più acutamente: l’induzione all’amore incondizionato che è ancora oggi la base dell’educazione delle fanciulle[1] si riorienta verso il posto di lavoro, dove, come nelle case, soffoca ogni barlume di emancipazione. Il lavoro femminile vale meno di quello maschile. Non si tratta solo di gap salariale, ma anche dello spazio che il lavoro può rivestire nella vita di una lavoratrice quando è anche madre e figlia.

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officinaprimomaggio

Gig work tra passato e futuro

di Bruno Cartosio

a groups of several gig workers protesting holding a banner across a crosswalkA ogni epoca i suoi precari, e sempre con gli Stati Uniti a tracciare la linea. Nel “libero mercato del lavoro” creato dalla combinazione di attacco neoliberista e tecnologie digitali, il lavoro precario ha anche cambiato nome: gig work. Ha preso a prestito l’etichetta dal mondo dello spettacolo, dove indica il “numero” che un attore senza compagnia è chiamato a fare se si ha bisogno di lui e per il quale è pagato. Chiamare gig questa modalità di lavoro occasionale, intermittente evoca la leggerezza dei palcoscenici, quasi che montare un armadio o guidare la propria auto per conto di qualcuno fosse come recitare una parte, suonare un pezzo o cantare una canzone. Il gig work è lavoro precario basato su rapporti a tre: le corporation che gestiscono le attività, gli individui che richiedono un servizio occasionale, le persone che prestano la loro opera a chiamata, senza vincoli contrattuali, per un compenso pattuito con l’azienda-piattaforma cui si rivolgono gli utenti tramite una “app” condivisa. Per questo le corporation-piattaforme cui i gig workers fanno capo classificano i prestatori d’opera come “lavoratori autonomi”, self-employed, invece che dipendenti, employed, a cui dovrebbero garantire un salario e tutti i benefits e le coperture assicurative e previdenziali che il rapporto di lavoro regolare porta con sé.

Le aziende eponime del gig work sono nate nella San Francisco dei ricchi: Uber e Lyft, rispettivamente nel 2009 e nel 2012, e prima ancora TaskRabbit nel 2008. Dopo quegli inizi il successo delle “piattaforme” e del loro modello di funzionamento è stato fulmineo. La grande crescita della domanda di gig workers, le cui prestazioni sono poco costose per le aziende e per gli utenti, hanno mutato i rapporti dei lavoratori con le stesse piattaforme.

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sinistra

Lotta alla precarietà del lavoro, snodo decisivo per sinistra politica e sindacato

di Carlo Lucchesi

5d7e71c67582552a05884f2f2fde51e9 XL1. Le più importanti e profonde riforme del dopoguerra si sono fatte in Italia negli anni ‘60 e ‘70 del secolo scorso quando al governo del Paese c’era una coalizione di centro-sinistra nella quale la parte moderata era nettamente maggioritaria. Fu possibile essenzialmente grazie all’iniziativa del movimento sindacale capace di elaborare proposte unitarie sui grandi temi del welfare e deciso a sostenerle con la lotta dei lavoratori tanto da conquistarsi il consenso di gran parte del Paese. Si trattò dello sviluppo e della proiezione nei territori e nell’intera società nazionale delle lotte di fabbrica, che già avevano raggiunto un’estensione straordinaria. L’organizzazione tayloristica del lavoro aveva sì enormemente incrementato la produttività, ma aveva consegnato ai lavoratori un potere di interdizione sul processo produttivo che, una volta tradotto dai Consigli dei delegati in capacità e potere negoziale, aveva fatto compiere un grande salto in avanti non solo al salario, ma all’intera condizione di lavoro. Lo slogan “dalla fabbrica al territorio” segnalava appunto l’esigenza e la volontà di consolidare quelle conquiste tanto come difesa del potere d’acquisto, quanto come spostamento nei rapporti di potere fra le classi. Sul piano politico, il PCI dall’opposizione e il PSI dal governo fecero in modo che sul terreno legislativo si realizzassero mediazioni di alto contenuto alle quali dettero un notevole contributo l’area socialmente progressista della DC e parti consistenti dell’associazionismo cattolico.

Niente del genere è accaduto da allora, neppure quando al governo si sono trovate coalizioni di centro-sinistra formalmente assai più sbilanciate a sinistra di quanto fossero i governi degli anni ‘60 e ‘70.

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sbilanciamoci

Nuova rivoluzione tecnologica e lavoro

di Vincenzo Comito

Il programma di AI generativo ChatGPT, sospeso e poi riammesso in Italia, sta invadendo i mercati e riaccende il dibattito sulle ricadute di queste tecnologie innovative sul mondo del lavoro e sui possibili effetti disastrosi sulle competenze umane. Di sicuro niente che il mercato potrà regolare da solo

chatgptIntelligenza artificiale, produzione additiva, auto a guida autonoma, digitalizzazione “tradizionale”

Stiamo apparentemente entrando in una nuova grande fase di innovazione tecnologica. A differenza di quella precedente, questa non sembra toccare tanto i consumatori, ma, prevalentemente, le imprese e l’industria. Questa nuova fase si va sviluppando lungo diverse direttrici.

-I progressi recenti dell’intelligenza artificiale 

La messa sul mercato dell’ultimo ritrovato nel campo dell’intelligenza artificiale, il programma ChatGPT, il primo di una serie di sistemi di IA cosiddetti “generativi” che stanno in questo periodo invadendo i vari Paesi, con il suo successo immediato, ha riacceso il dibattito su alcune questioni di base, quali prima di tutto quella della vecchia paura che tale tecnologia esca fuori controllo, prendendo il sopravvento sugli umani. Qualcuno stima in effetti che potremmo raggiungere verso il 2030 la cosiddetta “intelligenza artificiale generale”, con il risultato che l’umanità perderebbe il controllo della tecnologia che sta sviluppando e che alla fine tutti sulla terra morirebbero (Thornhill, 2023). Si discute poi sulla preoccupazione per il grandissimo potere che vanno assumendo i pochi gruppi oligopolistici che controllano le tecnologie, su come mettere a punto strumenti giuridici per far fronte ai sorprendenti tempi nuovi, e , infine, tema anch’esso di grande rilievo, delle conseguenze sul futuro quantitativo e qualitativo del lavoro, nonché parallelamente, della paura che la nuova tecnologia possa esacerbare le diseguaglianze sociali e inquinare l’informazione pubblica, tutti temi sui quali anche gravano delle previsioni molto inquietanti. 

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carmilla

E intanto corre, corre, corre la locomotiva…della guerra di classe

di Sandro Moiso

ferrovieri contro la guerraIn assenza di più vaste mobilitazioni contro la guerra, che non siano soltanto per implorare la “pace”, fa bene notare e ricordare che uno dei settori del mondo del lavoro più impegnati contro la guerra e i suoi catastrofici effetti sociali ed economici è quello del trasporto ferroviario e marittimo.

Non soltanto qui in Italia dove una significativa manifestazione in tal senso si è svolta a Genova, indetta dai portuali, ma anche in Giappone e in Corea, dove sono stati i ferrovieri a promuovere una risoluzione contro il riarmo giapponese su larga scala. Risoluzione che sottolinea come la guerra iniziata in Ucraina stia trascinando il mondo intero nel vortice della guerra. In cui l’amministrazione statunitense di Biden, mano nella mano con l’amministrazione giapponese di Kishida, intende scatenare una guerra contro la Cina e la Corea del Nord.

Lo scorso dicembre l’amministrazione Kishida ha deciso di stanziare oltre 43 mila miliardi di yen (300 miliardi di euro) in cinque anni in un gigantesco programma di riarmo destinato da un lato a calpestare la vita e le condizioni di lavoro dei salariati e dall’altro una guerra contro la Cina anche a costo di centinaia di migliaia di morti e feriti. Mentre nel bel mezzo di questa situazione, il presidente coreano Yoon Suk-yeol ha attuato una straordinaria repressione nei confronti della KCTU (Confederazione coreana dei sindacati) attraverso la legge sulla sicurezza dello Stato.

Il governo giapponese sembra in questo modo voler cancellare senza vergogna il fatto che l’imperialismo giapponese ha una storia di annessione della Corea e ha posto la Corea sotto una dura dominazione coloniale e anche che l’invasione imperialista giapponese si estese alla Cina e ad altri Paesi asiatici, privando della vita 20 milioni di persone.

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lafionda

Forza lavoro autoctona e migrante, sfruttamento e riduzione del potere di acquisto

di Federico Giusti

immigrato a lavoro 1 scaled 1La libera circolazione di merci e di capitali ha favorito l’arrivo di nuovi e maggiori flussi migratori che hanno determinato l’acuirsi di alcune contraddizioni anche in seno alla classe operaia. Veniamo da anni bui per un pensiero critico, in materia di immigrazione la bussola di orientamento è stata rappresentata dai diritti umani o al massimo quelli civili, un approccio umanitario di stampo cattolico progressista (assai più avanzato, per intenderci, del pensiero democratico americaneggiante se non proprio liberista del centro sinistra) che non ha saputo indagare alcuni aspetti dirimenti dei flussi migratori.

Se vogliamo entrare nel merito delle questioni non possiamo eludere alcuni fatti storici come il crollo del Muro di Berlino, le politiche di assalto neo liberiste che hanno spinto all’immigrazione i popoli dell’est Europa, le guerre scatenate dalla Nato che a loro volta hanno disegnato nuove rotte immigratorie (ad esempio dalla Siria e dai paesi africani).

Se poi pensiamo alla Ue dovremmo aprire prima una seria riflessione sugli interessi reali che hanno portato al pareggio di bilancio nella Costituzione Italiana, ai flussi migratori verso i paesi europei alimentati anche dalla necessità di alcuni paesi di quella manodopera a basso costo indispensabile per le loro aziende. Il rapporto tra guerra e immigrazione dovrebbe alimentare la nostra analisi; basterebbe guardare ai numeri della popolazione ucraina in uscita verso i paesi Ue, da qui ogni ulteriore considerazione sul ruolo della Nato. Proviamo allora a riflettere, in maniera volutamente schematica, su alcuni punti dirimenti per non farci sommergere da una lettura parziale e spesso acritica.