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officinaprimomaggio

Gig work tra passato e futuro

di Bruno Cartosio

a groups of several gig workers protesting holding a banner across a crosswalkA ogni epoca i suoi precari, e sempre con gli Stati Uniti a tracciare la linea. Nel “libero mercato del lavoro” creato dalla combinazione di attacco neoliberista e tecnologie digitali, il lavoro precario ha anche cambiato nome: gig work. Ha preso a prestito l’etichetta dal mondo dello spettacolo, dove indica il “numero” che un attore senza compagnia è chiamato a fare se si ha bisogno di lui e per il quale è pagato. Chiamare gig questa modalità di lavoro occasionale, intermittente evoca la leggerezza dei palcoscenici, quasi che montare un armadio o guidare la propria auto per conto di qualcuno fosse come recitare una parte, suonare un pezzo o cantare una canzone. Il gig work è lavoro precario basato su rapporti a tre: le corporation che gestiscono le attività, gli individui che richiedono un servizio occasionale, le persone che prestano la loro opera a chiamata, senza vincoli contrattuali, per un compenso pattuito con l’azienda-piattaforma cui si rivolgono gli utenti tramite una “app” condivisa. Per questo le corporation-piattaforme cui i gig workers fanno capo classificano i prestatori d’opera come “lavoratori autonomi”, self-employed, invece che dipendenti, employed, a cui dovrebbero garantire un salario e tutti i benefits e le coperture assicurative e previdenziali che il rapporto di lavoro regolare porta con sé.

Le aziende eponime del gig work sono nate nella San Francisco dei ricchi: Uber e Lyft, rispettivamente nel 2009 e nel 2012, e prima ancora TaskRabbit nel 2008. Dopo quegli inizi il successo delle “piattaforme” e del loro modello di funzionamento è stato fulmineo. La grande crescita della domanda di gig workers, le cui prestazioni sono poco costose per le aziende e per gli utenti, hanno mutato i rapporti dei lavoratori con le stesse piattaforme.

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sinistra

Lotta alla precarietà del lavoro, snodo decisivo per sinistra politica e sindacato

di Carlo Lucchesi

5d7e71c67582552a05884f2f2fde51e9 XL1. Le più importanti e profonde riforme del dopoguerra si sono fatte in Italia negli anni ‘60 e ‘70 del secolo scorso quando al governo del Paese c’era una coalizione di centro-sinistra nella quale la parte moderata era nettamente maggioritaria. Fu possibile essenzialmente grazie all’iniziativa del movimento sindacale capace di elaborare proposte unitarie sui grandi temi del welfare e deciso a sostenerle con la lotta dei lavoratori tanto da conquistarsi il consenso di gran parte del Paese. Si trattò dello sviluppo e della proiezione nei territori e nell’intera società nazionale delle lotte di fabbrica, che già avevano raggiunto un’estensione straordinaria. L’organizzazione tayloristica del lavoro aveva sì enormemente incrementato la produttività, ma aveva consegnato ai lavoratori un potere di interdizione sul processo produttivo che, una volta tradotto dai Consigli dei delegati in capacità e potere negoziale, aveva fatto compiere un grande salto in avanti non solo al salario, ma all’intera condizione di lavoro. Lo slogan “dalla fabbrica al territorio” segnalava appunto l’esigenza e la volontà di consolidare quelle conquiste tanto come difesa del potere d’acquisto, quanto come spostamento nei rapporti di potere fra le classi. Sul piano politico, il PCI dall’opposizione e il PSI dal governo fecero in modo che sul terreno legislativo si realizzassero mediazioni di alto contenuto alle quali dettero un notevole contributo l’area socialmente progressista della DC e parti consistenti dell’associazionismo cattolico.

Niente del genere è accaduto da allora, neppure quando al governo si sono trovate coalizioni di centro-sinistra formalmente assai più sbilanciate a sinistra di quanto fossero i governi degli anni ‘60 e ‘70.

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sbilanciamoci

Nuova rivoluzione tecnologica e lavoro

di Vincenzo Comito

Il programma di AI generativo ChatGPT, sospeso e poi riammesso in Italia, sta invadendo i mercati e riaccende il dibattito sulle ricadute di queste tecnologie innovative sul mondo del lavoro e sui possibili effetti disastrosi sulle competenze umane. Di sicuro niente che il mercato potrà regolare da solo

chatgptIntelligenza artificiale, produzione additiva, auto a guida autonoma, digitalizzazione “tradizionale”

Stiamo apparentemente entrando in una nuova grande fase di innovazione tecnologica. A differenza di quella precedente, questa non sembra toccare tanto i consumatori, ma, prevalentemente, le imprese e l’industria. Questa nuova fase si va sviluppando lungo diverse direttrici.

-I progressi recenti dell’intelligenza artificiale 

La messa sul mercato dell’ultimo ritrovato nel campo dell’intelligenza artificiale, il programma ChatGPT, il primo di una serie di sistemi di IA cosiddetti “generativi” che stanno in questo periodo invadendo i vari Paesi, con il suo successo immediato, ha riacceso il dibattito su alcune questioni di base, quali prima di tutto quella della vecchia paura che tale tecnologia esca fuori controllo, prendendo il sopravvento sugli umani. Qualcuno stima in effetti che potremmo raggiungere verso il 2030 la cosiddetta “intelligenza artificiale generale”, con il risultato che l’umanità perderebbe il controllo della tecnologia che sta sviluppando e che alla fine tutti sulla terra morirebbero (Thornhill, 2023). Si discute poi sulla preoccupazione per il grandissimo potere che vanno assumendo i pochi gruppi oligopolistici che controllano le tecnologie, su come mettere a punto strumenti giuridici per far fronte ai sorprendenti tempi nuovi, e , infine, tema anch’esso di grande rilievo, delle conseguenze sul futuro quantitativo e qualitativo del lavoro, nonché parallelamente, della paura che la nuova tecnologia possa esacerbare le diseguaglianze sociali e inquinare l’informazione pubblica, tutti temi sui quali anche gravano delle previsioni molto inquietanti. 

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carmilla

E intanto corre, corre, corre la locomotiva…della guerra di classe

di Sandro Moiso

ferrovieri contro la guerraIn assenza di più vaste mobilitazioni contro la guerra, che non siano soltanto per implorare la “pace”, fa bene notare e ricordare che uno dei settori del mondo del lavoro più impegnati contro la guerra e i suoi catastrofici effetti sociali ed economici è quello del trasporto ferroviario e marittimo.

Non soltanto qui in Italia dove una significativa manifestazione in tal senso si è svolta a Genova, indetta dai portuali, ma anche in Giappone e in Corea, dove sono stati i ferrovieri a promuovere una risoluzione contro il riarmo giapponese su larga scala. Risoluzione che sottolinea come la guerra iniziata in Ucraina stia trascinando il mondo intero nel vortice della guerra. In cui l’amministrazione statunitense di Biden, mano nella mano con l’amministrazione giapponese di Kishida, intende scatenare una guerra contro la Cina e la Corea del Nord.

Lo scorso dicembre l’amministrazione Kishida ha deciso di stanziare oltre 43 mila miliardi di yen (300 miliardi di euro) in cinque anni in un gigantesco programma di riarmo destinato da un lato a calpestare la vita e le condizioni di lavoro dei salariati e dall’altro una guerra contro la Cina anche a costo di centinaia di migliaia di morti e feriti. Mentre nel bel mezzo di questa situazione, il presidente coreano Yoon Suk-yeol ha attuato una straordinaria repressione nei confronti della KCTU (Confederazione coreana dei sindacati) attraverso la legge sulla sicurezza dello Stato.

Il governo giapponese sembra in questo modo voler cancellare senza vergogna il fatto che l’imperialismo giapponese ha una storia di annessione della Corea e ha posto la Corea sotto una dura dominazione coloniale e anche che l’invasione imperialista giapponese si estese alla Cina e ad altri Paesi asiatici, privando della vita 20 milioni di persone.

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lafionda

Forza lavoro autoctona e migrante, sfruttamento e riduzione del potere di acquisto

di Federico Giusti

immigrato a lavoro 1 scaled 1La libera circolazione di merci e di capitali ha favorito l’arrivo di nuovi e maggiori flussi migratori che hanno determinato l’acuirsi di alcune contraddizioni anche in seno alla classe operaia. Veniamo da anni bui per un pensiero critico, in materia di immigrazione la bussola di orientamento è stata rappresentata dai diritti umani o al massimo quelli civili, un approccio umanitario di stampo cattolico progressista (assai più avanzato, per intenderci, del pensiero democratico americaneggiante se non proprio liberista del centro sinistra) che non ha saputo indagare alcuni aspetti dirimenti dei flussi migratori.

Se vogliamo entrare nel merito delle questioni non possiamo eludere alcuni fatti storici come il crollo del Muro di Berlino, le politiche di assalto neo liberiste che hanno spinto all’immigrazione i popoli dell’est Europa, le guerre scatenate dalla Nato che a loro volta hanno disegnato nuove rotte immigratorie (ad esempio dalla Siria e dai paesi africani).

Se poi pensiamo alla Ue dovremmo aprire prima una seria riflessione sugli interessi reali che hanno portato al pareggio di bilancio nella Costituzione Italiana, ai flussi migratori verso i paesi europei alimentati anche dalla necessità di alcuni paesi di quella manodopera a basso costo indispensabile per le loro aziende. Il rapporto tra guerra e immigrazione dovrebbe alimentare la nostra analisi; basterebbe guardare ai numeri della popolazione ucraina in uscita verso i paesi Ue, da qui ogni ulteriore considerazione sul ruolo della Nato. Proviamo allora a riflettere, in maniera volutamente schematica, su alcuni punti dirimenti per non farci sommergere da una lettura parziale e spesso acritica.

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cumpanis

Lavoro e reddito di cittadinanza

di Alberto Sgalla

IMMAGINE ARTICOLO SGALLA“Se fra i diritti fondamentali non figura quello per cui è garantita la base materiale della vita, in pratica crolla la società dei cittadini” (R. Dahrendorf)

La questione del “reddito di cittadinanza” o “basic income”, o “reddito minimo garantito”, “è vecchia quanto la rivoluzione industriale stessa o, se si preferisce, quanto la disgregazione della società operata dal capitalismo” (Gorz).

Oggi Il dibattito intorno al rdc deve riferirsi al nuovo assetto c.d. postfordista della produzione e dello spazio sociale, luogo composito della produzione materiale e immateriale, dell’immaginario, del consenso sociale. Deve ruotare su due temi fondamentali della società postfordista: 1) la crisi della società fondata sul lavoro salariato della fabbrica fordista, con l’avvento dell’economia informazionale, della disseminazione di flussi di persone, merci e capitali, della logistica come nuovo ramo dell’economia industriale, della vita sociale plasmata dal codice assoluto della merce, della disoccupazione crescente connaturata allo sviluppo capitalistico; 2) la crisi del sistema di garanzie sociali proprie del Welfare State.

 

La società postfordista

Gli anni ‘70 sono stati il punto di svolta verso il nuovo scenario: aumento dei prezzi delle materie prime, crisi petrolifera, tempesta valutaria connessa all’inconvertibilità del dollaro, attacco neoliberista ai diritti e alle condizioni di vita dei lavoratori, disarticolazione della composizione della forza-lavoro, modello “toyotista” di produzione basato sul just in time (zero stock di magazzino) e l’autoattivazione (costante mobilitazione totale dei lavoratori pluri-mansionali per la missione competitiva dell’impresa), decentramento produttivo ad alto tasso di valore aggiunto.

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collegamenti 

Alcune riflessioni sulle lotte della logistica

di Visconte Grisi

image 1 e1510913536751Alcuni compagni considerano le lotte nella logistica come lotte, se non proprio marginali, quantomeno come lotte settoriali. Personalmente non sono d'accordo con questi compagni. Intanto una lotta settoriale che dura da più di dieci anni, dalla ormai storica vertenza alla Bennet di Origgio del 2008, in forme ora spontanee ora organizzate e che continua ancora ad allargarsi deve contenere per forza di cose elementi più generali.

Certo le lotte nella logistica hanno le loro proprie particolarità, tipiche peraltro del mercato del lavoro italiano: cooperative, appalti e subappalti, forme di caporalato gestite da organizzazioni mafiose, mancanza di diritti sindacali, bassi salari e orari di lavoro prolungati, forme di lavoro schiavistico ecc., tutto quello contro cui si misurano i sindacati autonomi nelle loro vertenze quotidiane. Tuttavia esistono diversi fattori che rendono queste lotte generali e quindi politiche*.

Per capire meglio questa affermazione è necessario aprire una riflessione sulla “globalizzazione”. “Nei primi anni duemila il trasporto marittimo cresceva al doppio del tasso di crescita mondiale... In fondo, da quando il primo container è stato imbarcato su una nave, nel 1956, questa industria è cresciuta in modo inarrestabile, fino a diventare parte indispensabile dell’economia globale... Oggi esistono meganavi capaci di trasportare più di 18mila container”[1]. Da questi primi dati è possibile capire che il trasporto delle merci è una delle principali attività dell’economia globale, che si tratti di oggetti di consumo come televisori, telefonini, vestiti, o di materie prime, o derrate agricole e semilavorati.

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ilpungolorosso

Sull’attacco terroristico al reddito di cittadinanza

di Tendenza internazionalista rivoluzionaria

movimento 7 novembre 3Grigia è ogni teoria, caro amico. Verde è l’albero aureo della vita.” (Goethe – Faust)

Chi ci conosce, sa bene che abbiamo sempre ritenuto il reddito di cittadinanza come poco più che un’elemosina di stato, e ciò da molto prima che il governo Conte 1 lo rendesse realtà.

Per decenni la “fu” sinistra di classe si è fronteggiata duramente e si è divisa attorno al tema delle rivendicazioni immediate per il contrasto alla disoccupazione di massa, fattore fisiologico e “necessario” al normale funzionamento del modo di produzione capitalistico ad ogni latitudine.

Tale confronto si è articolato nel tempo essenzialmente attorno a 3 posizioni:

A) i sostenitori del “lavorismo a tutti i costi”, in larga parte eredi delle concezioni staliniste e togliattiane, secondo i quali “solo il lavoro nobilita l’uomo” e solo attraverso la (s)vendita della propria forza-lavoro, a qualsiasi condizione imposta dai padroni, un proletario può acquisire la “patente” di soggetto antagonista al capitale: per costoro il disoccupato, in sostanza, non è altro che un proletario di “serie B”, o peggio un “sottoproletario“, in quanto tale non meritevole di particolare attenzione politica né tanto meno portatore di interessi che vadano al di là di quello a trovare un impiego, qualsiasi esso sia.

B) la vulgata “post-operaista”, secondo la quale le trasformazioni del capitalismo contemporaneo prodotte dalla cosiddetta “globalizzazione”, e in primis dall’automazione su larga scala, avrebbero portato al definitivo superamento della centralità del conflitto capitale-lavoro e all’emergere di una “moltitudine” di esclusi dal ciclo di produzione, quindi di un “nuovo soggetto” sociale la cui ricomposizione dovrebbe avvenire principalmente attraverso la rivendicazione di un “reddito di base universale“.

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machina

L’individualizzazione del lavoro da remoto nel capitalismo delle piattaforme

di Andrea Fumagalli

0e99dc fa7f459a8fd5462a9393e0e2c9031165mv2Ripetutamente, nell’ultimo anno, abbiamo dedicato spazio e contributi della rubrica ad analisi, opinioni, approfondimenti all’esplosione del cosiddetto «smart working», che l’autore del contributo che segue, opportunamente e in accordo con la maggioranza degli studiosi che hanno esplorato l’argomento, preferisce definire «remote working». Sullo stesso tema pubblichiamo la trascrizione di un intervento di Andrea Fumagalli, economista e militante politico, che in queste pagine non richiede ulteriori presentazioni, autore da almeno tre decenni di saggi e articoli sulle trasformazioni del capitalismo e del lavoro contemporanei, e tra i principali promotori di sperimentazioni politiche e iniziative editoriali. Fumagalli rilegge i risultati di alcune delle numerose inchieste «ufficiali» realizzate nell’ultimo anno sul tema, inquadrando la svolta del remote working nelle trasformazioni più complessive dell’organizzazione produttiva e dell’accumulazione, con l’emergere del «platform capitalism» e dei nuovi livelli consentiti dall’impiego delle nuove tecnologie nella cooperazione tra macchine digitali e capacità umana viva.

* * * *

Parto dicendo che il termine «smart working», diventato ormai di uso comune, secondo me è un abuso, perché in questo tipo di lavoro di «smart» c’è ben poco. Se dovessimo utilizzare una definizione corretta, dovremmo utilizzare «remote working». Il termine «smart», infatti, implica una suggestione di benessere che non sempre cattura la condizione effettiva di chi lo svolge.

Fatto questo breve inciso, queste brevi considerazioni che propongo si svilupperanno su tre livelli per poi concludere con la discussione di alcuni risultati di una ricerca svolta dal «Laboratorio Futuro» dell’Istituto Toniolo dell’Università Cattolica, intitolata Il futuro delle città. Smart working nelle imprese milanesi al tempo del Covid-19 da cui emergono dati empirici particolarmente interessanti.

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machina

L’invenzione della classe operaia

di Maria Grazia Meriggi

0e99dc 36c58a8441194754ac97ee80d1c2a361mv2Vent’anni fa veniva pubblicato il volume L’invenzione della classe operaia di Maria Grazia Meriggi, frutto di una straordinaria ricerca su sopravvivenza e rottura delle dimensioni comunitarie in Francia, su costruzione di forme di partito e sovrapposizione fra rivendicazioni economiche e avventure insurrezionali, tra tramonto del popolo degli artigiani e alba del movimento operaio, fra la svolta della Rivoluzione francese e il 1848. In questo articolo l’autrice ripercorre un viaggio affascinante in mondi del lavoro complessi, composti in molti casi da operai ancora padroni dell’autorevolezza del mestiere ma che gli avversari vedono invece immersi nelle classi pericolose in cui la disoccupazione può farli precipitare.

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Ancora una volta mi preparo a scrivere per «Machina», una rivista affascinante anche quando a volte non se ne condividono tutti i contenuti e sono stata sollecitata a riflettere sui temi di (e a partire da) una mia ricerca che è poi quella che mi è probabilmente più cara anche se studi, saggi e monografie su periodi più recenti hanno suscitato più attenzione e dibattito. Si tratta di L’invenzione della classe operaia. Conflitti di lavoro, organizzazione del lavoro e della società in Francia intorno al 1848 [1]. Tuttavia in un percorso che dura ormai da più di quarant’anni le domande che ponevo come centrali di quel volume nei Ringraziamenti [2], che riguardavano e riguardano tuttora «i contributi delle trasformazioni economiche e delle culture diffuse nel produrre i soggetti sociali» lo sono ancora nelle mie ricerche. In queste righe sono riassunte le ragioni per cui vale la pena di tornare ai contenuti e ai metodi di quella ricerca, al di là della tentazione della ego-histoire.

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acropolis

Il futuro del lavoro: automazione

di Michael Roberts

L’automazione sotto il capitalismo significa perdite significative di posti di lavoro tra coloro che non hanno titoli di studio (l’istruzione è ora sempre più costosa) e colpisce il salario più basso. Sotto il capitalismo, l’obiettivo è aumentare la redditività (e nemmeno la produttività, poiché gran parte dell’automazione può effettivamente ridurre la produttività). E viene utilizzato per controllare e monitorare i lavoratori piuttosto che aiutarli a svolgere i loro compiti. Solo la sostituzione del movente del profitto potrebbe consentire all’automazione e alla robotica di offrire vantaggi reali in termini di orari di lavoro più brevi e maggiori beni sociali

robot texniti noymosini copiaIn questa seconda parte (qui la prima parte) della mia serie sul futuro del lavoro, voglio affrontare l’impatto dell’automazione, in particolare dei robot e dell’intelligenza artificiale (AI) sui posti di lavoro. Ho già trattato questo problema del rapporto tra lavoro umano e macchine , inclusi robot e intelligenza artificiale. Ma c’è qualcosa di nuovo che possiamo trovare dopo il crollo del COVID?

Il principale esperto americano di mainstream sull’impatto dell’automazione sui lavori futuri è Daron Acemoglu, Institute Professor al MIT. In testimonianza al Congresso degli Stati Uniti, Acemoglu ha esordito ricordando al Congresso che l’automazione non era un fenomeno recente. La sostituzione del lavoro umano con le macchine iniziò all’inizio della rivoluzione industriale britannica nell’industria tessile e l’automazione svolse un ruolo importante nell’industrializzazione americana durante il 19° secolo. La rapida meccanizzazione dell’agricoltura a partire dalla metà del XIX secolo è un altro esempio di automazione.

Ma questa meccanizzazione richiedeva ancora il lavoro umano per avviarla e mantenerla. La vera rivoluzione sarebbe se l’automazione diventasse non solo macchinari controllati dall’uomo, ma anche robot nella produzione e automazione basata su software nei lavori d’ufficio che richiedono non solo meno lavoro umano, ma potrebbero sostituirlo totalmente. Questa forma di automazione iniziò a verificarsi a partire dagli anni ’80, quando i capitalisti cercarono di aumentare la redditività eliminando in massa il lavoro umano. Mentre la meccanizzazione precedente non solo ha perso posti di lavoro, spesso ha anche creato nuovi posti di lavoro in nuovi settori, come ha osservato Engels nel suo libro, La condizione della classe operaia in Inghilterra (1844) – si veda il mio libro sull’economia di Engels pp 54-57.

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machina

Industrializzazione del quotidiano e trasformazioni del lavoro

di Salvatore Cominu

0e99dc 07fcc85afbc64376a3f9aade8b0f5e5bmv2Pubblichiamo oggi la trascrizione dell’intervento di Salvatore Cominu nell’ambito del corso di formazione «L’industrializzazione del quotidiano. Dal lavoro flessibile allo smart working», organizzato dal Punto Input di Bologna sul finire del 2021. Negli incontri che si sono succeduti con studiosi di varie discipline, si sono analizzate le trasformazioni del lavoro, in particolar modo le dinamiche di precarizzazione e flessibilizzazione e i processi di automazione e di macchinizzazione delle nuove forme di organizzazione del lavoro. Crediamo che la pubblicazione di questo intervento e degli altri interventi possa essere utile per analizzare e contestualizzare i cambiamenti del lavoro a cui stiamo assistendo da anni. Ringraziamo il Punto Input di Bologna per averci concesso la possibilità di pubblicare questi preziosi interventi.

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Mi interessa, più che entrare nel merito specifico o nella genealogia di quello che per velocità chiamiamo smart working e che nell’esperienza di questi due anni sarebbe più corretto definire lavoro in remoto, soffermarmi sui rapporti tra «digitalizzazione» e lavoro, entrando nel merito di quella espressione un po’ criptica che è industrializzazione del quotidiano e dunque collocando la remotizzazione del lavoro in questo frame. A maggior ragione se pensiamo che non tutto il lavoro per cui è tecnicamente possibile sarà remotizzato (si vedano i ruvidi appelli al ritorno in ufficio di Elon Musk o la preferenza generalmente accordata dai manager HR verso il full-time in sede, almeno per i professional e le figure «core»), mentre larga parte del lavoro che non richiede la compresenza di partner cooperanti o dell’erogatore e del beneficiario della prestazione (ossia, la parte crescente) sarà distanziato, sia che il termine indichi il lavorare da casa o in sedi remote, sia che si vada in ufficio. Distanziato, dunque intermediato da dispositivi digitali.

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acropolis

Il futuro del lavoro

di Michael Roberts

Parte I. Il lavoro a distanza

marantidou 2 thumb large copiaPoche settimane fa, l'uomo più ricco del mondo Elon Musk, CEO di Tesla, ha detto ai suoi dipendenti che dovevano tornare in ufficio o lasciare l'azienda. Musk ha scritto in un'e-mail che tutti in Tesla devono trascorrere almeno 40 ore a settimana in ufficio. “Per essere super chiari: l'ufficio deve essere il luogo in cui si trovano i tuoi colleghi effettivi, non uno pseudo ufficio remoto. Se non ti presenti, daremo per scontato che ti sia dimesso". Ha poi continuato a lodare i lavoratori nelle sue fabbriche cinesi per aver lavorato fino alle 3 del mattino, se necessario. Nel 2021, l'amministratore delegato di Goldman Sachs, David Solomon, ha affermato che "il lavoro a distanza non è l'ideale per noi e non è una nuova normalità" e ha previsto che sarebbe stata "un'aberrazione che correggeremo il più rapidamente possibile " . Un anno dopo, tuttavia, meno della metà dei dipendenti della banca si recava regolarmente alla sede di New York, costringendo Solomon a supplicare nuovamente il personale di tornare. Anche l'anno scorso, Jamie Dimon, amministratore delegato di JP Morgan Chase, ha affermato che lavorare da casa “non funziona per la generazione spontanea di idee. Non funziona per la cultura". Dimon alla fine cedette e disse che il 40% dei 270.000 dipendenti della banca poteva lavorare solo due giorni alla settimana dall'ufficio. Nella sua lettera annuale agli azionisti, ha affermato“è chiaro che il lavoro da casa diventerà più permanente negli affari americani”. Musk e questi altri boss sono come Re Canuto che cerca di invertire la tendenza. Dopo la pandemia, molti lavoratori si rifiutano di tornare a una settimana di cinque giorni a tempo pieno. Più di un terzo della forza lavoro in ufficio del Regno Unito lavora ancora da casa.

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machina

La nocività del lavoro all’epoca della produzione digitalizzata

Un libro di Dario Fontana. Intervista all’autore

0e99dc 0498038aed384715a65d5fe15ba5b333mv2Negli anni più recenti sono state pubblicate alcune ricerche, nel campo delle scienze sociali (nella fattispecie, la sociologia del lavoro), che pure focalizzate su realtà in divenire o ancora in parte da indagare (e dunque quanto mai «attuali»), comunicano una sensazione di proficua inattualità, laterali come sono (per categorie utilizzate e postura di ricerca) dal senso comune che orienta gli interessi più diffusi dei ricercatori. Digitalizzazione Industriale. Un’inchiesta sulle condizioni di lavoro e salute (Franco Angeli, 2021) di Dario Fontana è una di queste. Il bersaglio dell’indagine è condensato nel titolo del volume, che restituisce i risultati di una ricerca pluriennale, realizzata con un impianto metodologico solido, un lavoro in profondità sulle dimensioni analitiche e sull’operazionalizzazione delle variabili, tecniche di analisi multivariate, a supporto di risultati che potrebbero risultare intuitivi, ma apparirebbero paradossali per quanti si avvicinassero ai materiali trattati con il filtro delle idee dominanti sul rapporto tra cambiamento tecnologico e lavoro. Superfluo consigliarne la lettura agli addetti ai lavori e ai praticanti di studi organizzativi e del lavoro, ma anche a sindacalisti, militanti, attivisti, medici, se non fosse per la barriera del costo (l’editoria scientifica ha le sue regole, che non possono essere imputate ai ricercatori!).

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Il rapporto tra scienza, tecnologia, organizzazione e contenuto del lavoro, ma potremmo altrimenti parlare di nessi tra conoscenza, potere e sfruttamento, ha occupato uno spazio centrale nell’esperienza del movimento operaio e fino a qualche decennio addietro (retaggio del lungo ’68 italiano e del residuo egemonico che ancora esercitava sul mondo intellettuale) anche all’interno delle scienze sociali.

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acropolis

Fine del lavoro come la fine della storia?

di Sergio Bologna

Parte I

Storia lavoro veneto rifEra il 1989, anno della caduta del Muro di Berlino, quando Francis Fukuyama abbozzava su una rivista la sua teoria della fine della storia, quella che avrebbe poi esplicitato nel libro, dallo stesso titolo, che lo ha reso famoso, pubblicato nel 1992. Tre anni dopo Jeremy Rifkin pubblicava il suo “La fine del lavoro”.

Sollecitato da un vecchio compagno, ho letto alcuni pezzi di un dibattito riguardante il lavoro che ha percorso le pagine de “Il Manifesto” all’inizio dell’estate 2019. Vi ho trovato molte somiglianze con discorsi che sono circolati largamente altrove, più o meno nello stesso periodo, per esempio nelle iniziative della Fondazione Feltrinelli con il ciclo di conferenze-dibattito dal titolo Jobless Society. L’idea che il lavoro sia destinato a sparire con l’automazione o che sia già scomparso per lasciare il posto a non so quali altre cervellotiche forme di rapporti sociali mi ha riportato alla memoria le teorie di Fukuyama o, meglio, l’interpretazione volgare e banale che di quelle teorie è stata data, perché Fukuyama era molto meno stupido dei suoi fans e intendeva per fine della storia il processo di modernizzazione concluso.

Ora, se noi interpretiamo il salto tecnologico in atto (digitalizzazione, IoT, blockchain ecc.) come un processo di modernizzazione, può andar bene, anzi è persino banale, ma se pretendiamo di qualificarlo come un processo concluso o come una frontiera oltre la quale non c’è più nulla, cadiamo nel ridicolo.

Innanzitutto dobbiamo esigere da coloro che parlano di lavoro di essere espliciti su un punto: si sta parlando del lavoro come generica attività umana o di lavoro per conto di terzi in cambio di mezzi di sussistenza? Si parla di lavoro come espressione di sé, delle proprie aspirazioni, dei propri talenti, o si parla di lavoro salariato, cioé retribuito da un soggetto terzo?