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commonware

Tra reazione e avanguardie. Composizione del rider in Italia

di Andrea Rinaldi

A seguito delle mobilitazioni dei rider in alcune città italiane, Andrea Rinaldi ci offre un'analisi delle componenti che attraversano questo settore lavorativo

rider75Durante una nota trasmissione radio (La Zanzara) che è un po’ un coacervo di rancore via telefono, chiama un uomo che si qualifica come rider, il presentatore se la ride con un po’ di disprezzo classista, il lavoratore (bolognese) si fa subito benvolere con qualche battuta da ‘uomo di strada’ che piace tanto alla produzione, poco dopo cattura sdegno e attenzione ammettendo candidamente che quando non gli viene lasciata la mancia dai clienti dei quartieri alti si riserva il diritto di sputare sui campanelli. Sulla radio di Confindustria non si parla di condizioni lavorative e sfruttamento, dei veri motivi per cui un lavoratore finisce a sfogarsi (anche legittimamente) sui clienti, e il rider in questione è probabilmente estraneo alle mobilitazioni in corso a Torino, Milano, Bologna. Però dal suo gesto, assolutamente non isolato, che ispira benevolenza dallo speaker di destra e orrore allo speaker di sinistra, vengono fuori alcune questioni, che bene o male muovono questo articolo.

Sarebbe inutile rimarcare ulteriormente l’utilità strategica per il sistema economico che hanno i rider in questa pandemia, i rischi che corrono o la paga da fame con cui vengono retribuiti. Difatti si accumulano sui giornali innumerevoli inchieste e articoli sulla subalternità della loro condizione, molti meno ovviamente sulle punte di radicalità e utilità raggiunte dalle loro mobilitazioni.

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rizomatica

Tech Worker, lavoro tecnologico e identità. Nuovi orizzonti e nuove forme di conflitto

di Simone Robutti

Questo articolo presenterà un’analisi utile a comprendere la nuova ondata di organizzazioni, scioperi e proteste che attraversa il settore dell’Information Technology(IT), in particolare in USA e Nord Europa, scritta dal punto di vista di un Tech Worker. La speranza è quella di dare trasparenza a questi fenomeni e permettere di comprenderne più a fondo le peculiarità, le similarità con strutture e processi passati e presenti ma anche le profonde differenze sia sul piano della prassi che sul piano dell’identità

XA6MW13Nota: in questo articolo si utilizzerà il termine “Tech Worker” per identificare esclusivamente figure tecniche o creative impegnate nello sviluppo di software, hardware e artefatti tecnologici in genere. Questo uso del termine differisce da quello, ad esempio, di Tech Workers Coalition che definisce Tech Worker chiunque sia coinvolto nel processo di produzione di una tecnologia. Questa scelta è fatta per meglio mapparsi sulla nascente identità del Tech Worker, che sebbene venga forzosamente allargata a figure molto diverse tra loro per scopi strategici, ad oggi ha trazione principalmente tra figure tecniche. Questa non è una critica all’obiettivo di creare solidarietà tra diverse categorie di lavoratori ma esclusivamente una semplificazione fatta per dare chiarezza alle idee qui esposte. Alcune mansioni associabili a questa definizione di Tech Worker sono: grafici, programmatrici, designer, sistemisti, architetti del software, tester, quality assurance, copywriter.

Il Capitale Digitale è un colosso dai piedi d’argilla. La testa d’oro, la parte più visibile, è quella di Mark Zuckerberg, Sundar Pichai o di Jeff Bezos che iniziano a trattare con gli Stati-Nazione da pari. Ormai insidiati nelle strutture produttive, logistiche e burocratiche di ogni paese, hanno reso dipendenti non solo i consumatori ormai inseparabili dai loro schermi (incluso il sottoscritto) ma anche tutti i tessuti sociali di cui fanno parte. Una rimozione repentina di Google Search, Google Cloud Platform o Amazon Web Services avrebbe un impatto traumatico su tanti settori industriali, al punto che l’Unione Europea insegue il sogno di un Cloud indipendente e di servizi web liberi dalla giurisdizione americana non solo come stimolo al settore digitale del vecchio continente ma anche e sopratutto come strumento di indipendenza tecnologica.

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marxismoggi

Epidemia del lavoro stagnante

di Carla Filosa

proxy imagenhy54Scrive Marx nel suo Discorso sulla questione del libero scambio (Bruxelles, gennaio 1848):

“Bowring[1] presenta gli operai come mezzi di produzione che è necessario sostituire con altri mezzi di produzione meno costosi. Egli finge di vedere nel lavoro di cui parla un lavoro del tutto eccezionale, e nella macchina che ha schiacciato i tessitori una macchina altrettanto eccezionale. Dimentica che non vi è lavoro manuale che non sia suscettibile di subire da un momento all’altro la sorte dell’industria tessile…

Il dottor Ure… parla di alcuni mali individuali e dice, nel medesimo tempo, che questi mali individuali mandano in rovina intere classi; il quale parla di sofferenze passeggere del periodo di transizione e in pari tempo non dissimula il fatto che queste sofferenze passeggere hanno significato per i più il passaggio dalla vita alla morte e per i restanti il passaggio da una condizione migliore a una peggiore.

Quando dice, in seguito, che le sventure di questi operai sono inseparabili dal progresso dell’industria e necessarie al benessere nazionale, egli afferma semplicemente che il benessere della classe borghese ha per condizione necessaria la miseria della classe lavoratrice…

Voi, migliaia di operai che morite, non doletevene. Voi potete morire in tutta tranquillità. La vostra classe non perirà. Essa sarà sempre tanto numerosa che il capitale la potrà decimare senza temere di annientarla. D’altronde, come volete che il capitale trovi un impiego utile se non avesse cura di tenersi costantemente in serbo la materia da sfruttare, gli operai, per sfruttarli di nuovo?”

Se queste parole fossero state scritte in questi ultimi tempi – non tradite da nomi noti di due secoli fa – avremmo dato un significato esclusivamente virale alle “sofferenze” e al “passaggio dalla vita alla morte”, come pure un’interpretazione di un inconscio o di un pensiero inespresso di molti capitalisti da quel “Voi, migliaia di operai…” fino al “di nuovo”.

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la citta futura

Lavoro fluidificabile

di Carla Filosa

Il prolungamento produttivo della giornata lavorativa, realizzato sia allungando sia diminuendo l’orario di lavoro, si attua mediante l’accorciamento del tempo che i lavoratori hanno da vivere, nell’usura incondizionata delle energie vitali pur di rendere liquida al massimo possibile la forza-lavoro

480bae171885ba234c1f977d10eedcf5 XLSollecitati dalla “Mozione conclusiva dell’assemblea dei lavoratori e delle lavoratrici combattive” tenutasi il 27 settembre 2020 a Bologna, cerchiamo di mettere a fuoco il 3° paragrafo della mozione, quello in cui si inizia “All’attacco a salari e diritti dobbiamo allora contrapporre una piattaforma generale di lotta…” con “parole d’ordine storiche del movimento operaio”.

Nell’ottica di sostanziare la potenzialità delle rivendicazioni proposte si cercherà di approfondire le modalità con cui il padronato ha fin qui condotto la sua lotta di classe nei confronti di un proletariato ormai mondiale, generato appunto dall’estensione planetaria del sistema di capitale impropriamente chiamata globalizzazione. Sapere o capire come viene fatto variare il salario, in base alle sole esigenze produttive dei capitali, significa poter poi lottare nella certezza di incidere significativamente sul sistema di sfruttamento non solo inarrestabile, ma programmato in continuo aumento dalla crisi strutturale raddoppiata da quella sanitaria sopraggiunta. Cominciamo a considerare che una qualsiasi giornata lavorativa può essere variata a discrezione, sulla base della quantità di plusvalore prodotto (cioè ricchezza prodotta e non remunerata, di cui non si ha mai consapevolezza) dal lavoro superfluo. Questa quota di ricchezza va distinta da quella remunerata prodotta nella trasformazione lavorativa per la necessaria ricostituzione della forza-lavoro, e che si presenta nell’operare concreto del cosiddetto lavoro necessario. Questa distinzione, specifica del modo capitalistico di produzione, può diventare visibile solo se si ha accesso alla conoscenza teorica di questo modo di produzione, mentre invece rimane oscura nell’unificazione apparente della giornata lavorativa determinata dall’orario di lavoro in base a cui si percepisce un salario.

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ragionipolitiche

Il lavoro nelle tradizioni politiche moderne: bilancio e prospettive*

di Carlo Galli

ph 222 2Non si può parlare di lavoro, in chiave storica e teorica, senza confrontarsi con le principali categorie del discorso filosofico-politico: soggetto, proprietà, Stato, società, pubblico/privato, libertà/alienazione, disciplinamento; insomma con la nozione di politica moderna in generale. Infatti, il lavoro interseca le quattro grandi invenzioni della modernità: lo Stato, il mercato, il partito e la tecnoscienza.

Il mondo antico conosce il lavoro, naturalmente, ma nella teorizzazione classica il lavoro ha scarso rilievo. Certamente, in Platone (Repubblica 369b-374d) e in Aristotele (Politica 1252b) c’è l’idea che la città è prima di tutto cooperazione, un operare comune, e che questo cooperare grava sulla città, la fonda e la determina; ma c’è, altrettanto chiaramente, l’idea che ciò che è importante – l’attività di governo, o l’attività della filosofia, variamente intrecciate o addirittura coincidenti –, non è il lavoro. La politica ha a che fare con la libertà, la filosofia, la scienza, la guerra e la gloria, mentre il lavoro appartiene al regno della necessità. Del resto, mai i Greci hanno sentito il bisogno di pensare una divinità del lavoro: i Titani lavorano perché sconfitti; Afrodite è la dea della universale fecondità, della riproduzione ma non della produzione, e il suo infelice marito, Efesto, benché lavori è il dio del fuoco; Demetra è la dea delle messi, non la dea dei contadini; Ermes è il dio della comunicazione, del commercio e anche del furto; ma il dio del lavoro si cercherebbe invano: il lavoro non è cosa da dei.

Una delle poche voci importanti del mondo greco in cui il lavoro diventa una realtà politica è l’Epitaphios Logos, il discorso di Pericle che commemora i caduti ateniesi del primo anno (431/430 a.C.) della guerra del Peloponneso, riportato, probabilmente con fedeltà, da Tucidide nel II libro della Guerra del Peloponneso.

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palermograd

Le tecnologie dell'industria 4.0 e l'assorbimento del lavoro improduttivo

di Barbara Ambrogio*

la quarta rivoluzione industriale iniziata 8 638Industria 4.0, Smart factory, Advanced manufacturing, Internet industriale, sono tutti sinonimi per descrivere il modello produttivo che poggia sull’integrazione di strumenti digitali e di intelligenza artificiale nei sistemi di automazione dei processi produttivi di merci e servizi. Può essere definita come parte del processo di approfondimento dell’automazione industriale attraverso le tecnologie digitali.

Nel dibattito politico e accademico viene per lo più presentata come uno sviluppo autopoietico delle trasformazioni tecnologiche, progresso ineluttabile e sostanzialmente positivo, rispetto al quale i sistemi politici possono intervenire a posteriori per raccogliere il massimo dei vantaggi possibili. In questo modo si tralascia di affrontare i conflitti sottesi a questa ondata di innovazione tecnologica, e le tensioni che l’hanno stimolata.Dall’analisi preliminare di una mole di informazioni sulle modalità di funzionamento delle tecnologie dell’industria 4.0, emerge l’ipotesi che i costi del lavoro improduttivo sono quelli su cui si prova a intervenire in modo sostanziale verso una loro riduzione e sostituzione. Si tratta di una problematica assente nella letteratura politica e scientifica.

L’impatto di tali tecnologie sul lavoro improduttivo può essere colto ai tre livelli in cui nel capitalismo si sono storicamente configurate le relazioni tra attività produttive e non produttive di valore: l’organizzazione del processo produttivo industriale, il settore terziario e le supply chains.

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sulatesta

Il lavoro. Quale, fatto da chi, per chi e per che cosa

di Dino Greco

Editoriale del n. 2 2020 della rivista Su la testa

Schermata del 2020 09 20 12 48 10Il capitalismo sta morendo”, recitava l’ottimistico refrain di una scolastica marxista conquistata alla credenza di un prossimo, necessario tramonto del sistema imperniato su rapporti capitalistici di produzione. La stupefacente capacità del vecchio mondo di risorgere dopo ogni crisi si è incaricata di dimostrare l’infondatezza di meccanicistiche profezie “crolliste” e il capitalismo, nella sua vocazione polimorfa, ha saputo di volta in volta mettere in atto misure antagonistiche che lo hanno reso capace di sopravvivere alle crisi più acute da cui è stato attraversato. Del resto, mai Marx aveva autorizzato l’illusione di un epilogo evoluzionistico verso il socialismo dei rapporti sociali, avendo non a caso dedicato l’intera sua vita all’organizzazione del partito comunista. E da Rosa Luxemburg ad Antonio Gramsci fu subito chiaro che il capitalismo non se ne sarebbe andato da solo.

Colonialismo, imperialismo, inaudita concentrazione del potere, globalizzazione, iperfinanziarizzazione dell’economia, misure non convenzionali di politica monetaria, innovazione tecnologica, organizzazione del lavoro, sino al ricorso allo sfruttamento umano spinto a limiti estremi e – non ultima ratio – il ricorso alla guerra, sono lì a dimostrare che la piovra ha saputo trovare e trova in se stessa mille risorse ed artifizi per riprodursi.

 

La crisi sistemica del capitale

Cionondimeno, il sistema retto sul rapporto di capitale è entrato in una crisi sistemica, andando progressivamente a sbattere contro quello che Marx definì un suo limite “interno”, un limite che rende via via decrescente la remunerazione del capitale in rapporto all’investimento fisso. Comunque la si pensi a questo riguardo, è un fatto difficilmente contestabile che la crescita rallenta da decenni in tutto l’Occidente sviluppato e che lo stesso vale per il saggio di profitto, ovunque in tendenziale diminuzione.

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coku

Il lavoro c'è, se non lo trovi è solo colpa tua

di Eugenio Donnici

prontiUna delle prediche che i giovani si devono sorbire, quando conseguono un diploma o una laurea, è quella che non sono preparati per entrare nel mondo del lavoro - detta brutalmente «Non sanno fare niente!». Si tratta di una critica disarmante, e per certi aspetti pericolosa, poiché butta fango sul sistema educativo in generale e denigra il bagaglio culturale di chi segue i percorsi formativi delle scuole secondarie e quelli universitari.

A nulla valgono tutti in tentativi di stare al passo coi tempi, cioè di praticare e sperimentare forme didattiche laboratoriali. Anzi, più ci si affanna ad adeguarsi al mondo del lavoro e più si percepisce che quel mondo tende a chiudere le porte, rinfacciando a chi bussa di non essere all’altezza del compito che dovrebbe svolgere. Alcune critiche nei confronti dei neolaureati e neodiplomati sono così aspre che sfiorano il ridicolo: questi soggetti non sarebbero in grado di scrivere un curriculum vitae, di sostenere un colloquio di lavoro.

Neolaureati e neodiplomati sono completamente smarriti e disorientati. A nulla valgono le conoscenze e le competenze che hanno sviluppato: per lo più finiscono per essere considerate solo carta straccia.

La frattura che si è aperta tra i sistemi formativi e i relativi mondi del lavoro si è trasformata in una falla o, meglio, è proprio il movimento sottostante al terreno su cui continuiamo a poggiare i piedi che alimenta costantemente quella rottura che noi vediamo in superficie.

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coku

Non c'è democrazia senza riduzione dell'orario e redistribuzione del lavoro

di Eugenio Donnici

kellowIn seguito alla Grande Depressione che colpì, in primo luogo, i paesi economicamente più sviluppati come gli Usa, la stragrande maggioranza della popolazione cadde nel panico e nella disperazione, ma soprattutto fu pervasa dalla rassegnazione. Non ci furono le rivolte che abbiamo visto pochi giorni fa e che sono scaturite dall’uccisione di G. Floyd, rabbia e frustrazioni non trovarono uno sfogo immediato, cosicché quando le organizzazioni dei lavoratori provarono ad alzare la testa fu troppo tardi, infatti si trovarono la strada sbarrata dai caporali, dai capitalisti e dal loro braccio armato rappresentato dalla malavita organizzata. In realtà, il sindacato dei lavoratori americani, ancor prima di essere messo fuori gioco, provò ad arginare il dilagare della disoccupazione, infatti il 20 luglio 1932 il consiglio direttivo della American Federation of Labor (uno dei più importanti sindacati statunitensi), riunitosi ad Atlantic City, fece una richiesta formale al Presidente Hoover per fissare un incontro tra le organizzazioni imprenditoriali e i sindacati, allo scopo di trovare un accordo per una settimana lavorativa di 30 ore.

La sintesi di questa mediazione trovò uno sbocco nella proposta di legge del senatore dell’Alabama Hugo L. Black, alla fine del 1932. Tuttavia, l’entusiasmo iniziale, che si ebbe con l’approvazione al Senato, fu stroncato con l’ascesa di Roosvelt, il quale sposò le preoccupazioni e le angosce delle classi imprenditoriali, per le implicazioni rivoluzionarie del provvedimento, pertanto affossarono il disegno di legge alla Camera.

Al contrario di quello che accade oggi, negli Usa, in quel periodo storico, ci sono una serie di grandi imprese che si prodigano alla sperimentazione della riduzione dell’orario di lavoro, per far fronte alla disoccupazione, tra queste ricordiamo: la Kellogg’s, la Sears, la Standard Oil e la Hudson Motors.

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coniarerivolta

Quando lo sfruttamento si fa smart

di coniarerivolta

swcL’emergenza COVID-19 ha portato alla ribalta un concetto, quello di “smart working” o “lavoro agile”, che fino a poco prima dell’emergenza interessava una parte minoritaria dei lavoratori.

Come noto, molte attività sono state svolte dai lavoratori – anche su input del Governo – fuori dall’usuale luogo di lavoro (generalmente in casa, data la pressoché totale impossibilità di uscire durante il lockdown). Ciò ha alimentato inevitabilmente un dibattito su questa modalità di lavoro. Se, da un lato, lo smart working può effettivamente mettere il lavoratore nella posizione di avere più tempo libero (si evitano gli spostamenti, si possono utilizzare i tempi morti della giornata lavorativa per svolgere attività utili al lavoratore stesso o al suo nucleo familiare), dall’altro può facilmente condurre ad abusi, soprattutto laddove il passaggio al modello organizzativo basato sul lavoro a distanza avvenga, come è accaduto durante l’emergenza, senza il tempo sufficiente per definire la cornice in cui la prestazione lavorativa deve svolgersi.

Divisi anche gli osservatori. Da un lato, gli ottimisti come Domenico De Masi (sociologo vicino al M5S e, quindi, animato da visioni futuristiche e senza classi sociali, nello stile dei Casaleggio) sostengono che lo smart working sia una specie di pietra filosofale o di macchina del moto perpetuo, grazie alla quale “ci guadagnano tutti”. Dall’altro, il sempreverde Pietro Ichino, che si lamenta della “vacanza pagata al 100%” di cui, secondo lui, avrebbero usufruito i lavoratori pubblici (ma di lui ci siamo già occupati). E, ancora, dal punto di vista dei sindacati, c’è chi sostiene che lo smart working può costituire un nuovo strumento di sfruttamento.

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contropiano2

La “valle della gomma”, o l’inferno lombardo

di Redazione Contropiano

2 3 800x540Quando si dice che “solo le imprese creano lavoro”.

Quando gli industriali assicurano che nei loro stabilimenti è assicurata “la tutela della salute”.

Quando ti dicono che la prima cosa da fare è “sostenere le imprese”…

In questo e altri mille casi del bombardamento mediatico quotidiano bisogna leggere inchieste come questa, condividerle, diffonderle, seminare schifo, sconcerto, destabilizzare le coscienze avvelenate dalla “narrazione” mainstream.

C’è tutto quel che serve per conoscere il mondo produttivo dei contoterzisti, che vivono spremendo schiavi e si considerano “l’élite del Paese”, gli “unici che sanno quel che bisogna fare per modernizzare”.

Questo tipo di imprese sono la “base elettorale” di Assolombarda e di Confindustria, quelle che hanno scelto – su spinta dei big locali come Tenaris e Brembo (la famiglia Rocca e Bombassei) – il nuovo presidente Carlo Bonomi. Quello che un giorno sì e l’altro pure tempesta da ogni media sulla necessità di abolire qualsiasi vincolo (normativo, regolamentare, contrattuale, fiscale, ecc) al libero strapotere dell’impresa.

Quello che auspica l’eliminazione del potere legislativo (proprio del Parlamento e, al limite, del governo, che già sarebbe una forzatura anti-democratica) a favore di una “contrattazione pubblico-privato” per arrivare a definire le leggi (per loro natura erga omnes, e quindi di interesse generale, non particolare).

Questo inferno sulla terra è stato attraversato da due ottimi “investigatori”, che hanno poi pubblicato il proprio lavoro su Gli stati generali (niente a che vedere con l’iniziativa di Giuseppe Conte, ovviamente).

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officinaprimomaggio

Conflitti nel Taylorismo Digitale

Le lotte dei drivers di Amazon a Milano

di Riccardo Emilio Chesta

Abstract. Gli scioperi dei corrieri milanesi di Amazon hanno acceso i primi segnali di conflitto in uno dei settori più sconvolti dalla digitalizzazione, il lavoro di consegna a domicilio. L’introduzione degli algoritmi si basa su un vecchissimo imperativo, saturare i tempi di lavoro calcolando automaticamente le rotte di consegna e quindi tempi e distanze: una forma di “taylorismo digitale”. Attraverso un’analisi delle modalità di mobilitazione e dei contenuti di lotta dei corrieri milanesi, si mostra l’evolversi del conflitto in un settore chiave dell’e-commerce

P 20180914 142036Introduzione

La mobilitazione dei drivers di Amazon costituisce un caso rilevante nel panorama lavorativo e sindacale contemporaneo attraversato dai nuovi processi di digitalizzazione [1]. Gli scioperi e le azioni di protesta dei corrieri milanesi mettono in luce problematiche e tendenze di un settore, quale quello delle consegne a domicilio, la cui organizzazione è stata ristrutturata dalle innovazioni digitali che hanno permesso l’avvento dell’e-commerce di massa.

Questo contributo parte da una domanda specifica. Che cosa mostrano le lotte dei drivers riguardo alla nuova relazione tra autonomia e controllo sul lavoro allo stadio attuale di riconfigurazione tecnologica? Dalla stessa domanda ne consegue un’altra: questo caso si identifica o si discosta dal modello generale di impresa Amazon, che tiene insieme diversi attori, quali clienti, altre imprese di fornitura e lavoratori (dalla logistica di magazzino a quella delle consegne)? Il modello è definibile come «taylorismo digitale», estensione di alcuni punti del tradizionale taylorismo e riedizione della one best way attraverso le nuove tecnologie digitali che rendono possibile: 1) calcolare e intensificare in maniera automatizzata tempi e ritmi della prestazione di lavoro, 2) ridurre deviazioni e tempi morti dovuti ad autonomia e discrezione nell’espletamento della funzione lavorativa. In ultima, l’applicazione degli algoritmi permette di superare la compresenza spazio-temporale in un luogo e il tramite di un supervisore umano per il monitoraggio.

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officinaprimomaggio

Industria 4.0 e lavoro operaio

di Matteo Gaddi

133415668 ae976911 df57 4ed3 a13e b87ff03d612d1. Le parole

Il termine Industria 4.0 è stato coniato in Germania e indica sia un insieme di tecnologie applicate alla produzione industriale per aumentare la produttività, sia una precisa strategia politica del governo tedesco per mantenere e rafforzare la competitività del proprio sistema manifatturiero.

Il progetto di Industria 4.0 si è rapidamente diffuso, diventando in breve tempo un programma di politica industriale per tutti i governi europei. In effetti si tratta di una strategia per la trasformazione del settore manifatturiero, che utilizza un insieme di tecnologie in grado di modificare i processi di produzione, in particolare grazie a strumenti di comunicazione, connettività, raccolta ed elaborazione dati. Indubbiamente anche la robotica e l’automazione di nuova generazione possono essere considerate parte di Industria 4.0, ma i fenomeni di automazione, anche spinta, dei processi produttivi, sono conosciuti e praticati da decenni. La vera novità della trasformazione in corso è la connettività come portato delle Information and Communication Technologies (ICT): se strumenti di lavoro, impianti, stabilimenti e prodotti sono connessi, allora possono comunicare direttamente tra loro e con sistemi centralizzati (questo è il punto fondamentale!) di raccolta ed elaborazione dati, a una velocità tale da poterlo fare in continuo e in tempo reale.

In questo modo i processi produttivi diventano interamente computer-driven.

L’aumento della computerizzazione dei sistemi manifatturieri e l’utilizzo delle tecnologie di rete e ICT consente infatti di integrare tutte le parti del sistema in un network informativo.

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officinaprimomaggio

Industria 4.0, modello tedesco. Dove è finito il Lavoro?

di Sergio Bologna

Audi fabbrica robot 467 kzsF 835x437IlSole24Ore WebDopo aver adottato nel 2013 il Piano Industria 4.0, il governo tedesco avviò nel 2015-16 un processo di consultazione tra i vari attori sociali per conoscere la loro opinione sulle conseguenze che la rivoluzione digitale avrebbe potuto avere sul mercato del lavoro. Fu redatto un Libro Verde a cura del Ministero degli Affari Sociali, retto allora dalla Ministra Andrea Nahles (che sarebbe diventata anche segretaria della SpD), dove si esplicitava una serie di problemi ai quali imprese, associazioni, sindacati, chiese, enti vari avrebbero dovuto dare risposta. Ma il valore dell’iniziativa stava nelle dichiarazioni programmatiche contenute. Il governo non chiedeva il parere degli stakeholders con un atteggiamento passivo o “neutrale”, ma dichiarava apertamente quale ottica avrebbe seguito nell’accompagnare la rivoluzione digitale. Dalla serie di citazioni tratte dal testo si può capire l’orientamento politico ed etico cui erano ispirate.

 

1. «Non si tratta d’intervenire solo sui fenomeni a margine e sulle conseguenze indesiderate dei processi, anche se è comunque necessario farlo», si tratta di andare oltre e lo stato deve intervenire per “plasmare” il processo secondo il quale la tecnologia possa diventare un mezzo per realizzare le nostre aspirazioni a una vita migliore e a un migliore modo di lavorare.

Questa forte presa di posizione contro un laissez faire, questo non voler lasciare le cose alle forze del mercato si accompagna alla reiterata affermazione che se le macchine debbono sostituire una parte del lavoro umano, «si pone il problema di come distribuire gli incrementi di produttività che ne conseguono».

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La fine del lavoro: versione Postone o Castoriadis?

di Bernard Pasobrola

casto postoMoishe Postone,con il suo libro "Tempo, lavoro e dominio sociale" è stato uno degli ispiratori del gruppo di teorici tedeschi riunito intorno alla rivista Krisis. Questo gruppo, nato nel 1986 a Norimberga, ha incentrato la sua riflessione sulla teoria del valore di Marx e poi, grazie soprattutto a Robert Kurz, sulla critica del lavoro e del "feticismo della merce". Il legame teorico con la Scuola di Francoforte è esplicito, soprattutto con Adorno e con il suo allievo Hans-Jurgen Krahl. La partecipazione di Anselm Jappe, ha poi contribuito ad accentuare il riferimento all'Internazionale Situazionista, in particolare a Guy Debord.

Postone cerca di scoprire quale sia l'essenza del capitalismo a partire dalle categorie critiche del Marx della maturità, proponendo una «ri-concettualizzazione del capitale che fondamentalmente rompe con il quadro tradizionale di interpretazione marxista». Per lui, Marx utilizza il termine merce «per designare una forma storicamente specifica di relazione sociale, costituita come una forma strutturata di pratica sociale, che allo stesso tempo è il principio strutturante delle azioni, delle visioni del mondo e della disposizione delle persone». Postone aggiunge che la «specificità del lavoro nel capitalismo consiste nel fatto che esso media le interazioni umane con la natura, così come le relazioni sociali tra le persone».

La sua griglia analitica fa uso perciò di quelli che sono dei concetti piuttosto ortodossi (merce, capitale, lavoro, valore...), ma si sforza però di determinare quale tra loro sia quello che svolge il ruolo di vero principio strutturante, o di vera mediazione, che renda razionale il sistema.