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lacausadellecose

Il sindacalismo operaio nell’attuale caotica fase storica

di Michele Castaldo

unnamedh87657Prendiamo spunto dal risultato referendario in un impianto di Amazon negli Usa per riflettere sulla possibilità di costituire il sindacato all’interno dei suoi stabilimenti e tornare a discutere della questione centrale che ha di fronte il proletariato in questa fase. Al riguardo ci sono altri contributi, ad esempio quello del compagno Alessio Galluppi, ricco di spunti, sul suo blog “noinonabbiamopatria”, al quale perciò rimandiamo per una dovizia di particolari. In queste note cerco solo di riannodare i fili di un ragionamento già impostato nelle sue le linee essenziali.

I fatti: negli Usa il sindacato RWDSU, che aderisce all’Afl-Cio, sollecitato da alcuni lavoratori dell’impianto di Bessemer in Alabama, aveva raccolto le firme per indire

un referendum per la costituzione del sindacato all’interno dello stabilimento. Dopo un paio di mesi di estenuante attesa e di pesante campagna da parte di Amazon, la maggioranza dei lavoratori ha bocciato l’ipotesi, consegnandosi così mani e piedi nelle braccia dell’azienda, rifiutandosi cioè di costituirsi collettivamente per la contrattazione delle proprie condizioni normative e salariali.

Diciamo fin da subito che non schiumiamo di rabbia per il comportamento operaio a Bessemer e di quello – conseguente – del sindacato RWDSU che si era proposto. La storia del movimento operaio, al riguardo, ne racconta di ogni specie e chi ha avuto la possibilità di trovarsi in lotte operaie e proletarie non può che confermare. E una certa Rosa Luxemburg ci metteva in guardia al riguardo:

«Non c’è nulla di più mutevole della psicologia umana. Soprattutto la psiche delle masse racchiude in sé, come “thàlatta”, il mare eterno, tutte le possibilità allo stato latente: mortale bonaccia e bufera urlante, la più abbietta vigliaccheria ed il più selvaggio eroismo. La massa è sempre quello che deve essere a seconda delle circostanze storiche, ed è sempre sul punto di diventare qualcosa di totalmente diverso da quello che sembra. Bel capitano sarebbe uno che dirigesse il corso della nave solamente in base all’aspetto momentaneo della superficie delle acque e che non sapesse prevedere l’arrivo delle tempeste in base ai segni del cielo e del mare».

Questa citazione è per quei compagni che troppo facilmente si entusiasmano per qualche squillo di tromba che si leva tra le file operaie ed altrettanto facilmente si deprimono quando i lavoratori si comportano senza battere ciglio come addentellato del capitale.

Cerchiamo perciò di guardare in faccia la realtà per quella che è, spogliandoci della passione di cui siamo portatori, per capire realmente la fase in cui è il movimento del modo di produzione capitalistico. Altrimenti detto: cosa è in gioco oggi per le classi oppresse e sfruttate da un sistema sociale in una crisi irreversibile.

Gioiscano pure i propagandisti delle classi borghesi per la vittoria di Jeffe Bezos con la sua Amazon nei confronti dell’atteggiamento operaio sulla costituzione del sindacato, perché – è inutile negarlo – nell’immediato gli dà la possibilità di programmare la propria azione senza l’intralcio della contrattazione collettiva dei lavoratori. Ma il povero Bezos, si, il povero Bezos, non sa che il detto di Rosa L. non vale solo per noi illusi idealisti, ma vale in modo particolare per lui e l’insieme del modo di produzione capitalistico perché la storia ci racconta che le rivolte degli oppressi e sfruttati sono improvvise, violente, tremende ed anonime. Ne abbiamo avuto recentemente qualche avvisaglia proprio negli Usa dopo l’uccisione di G. Floyd.

Cosa era in gioco nel referendum che si è svolto a Bessemer? La possibilità di introdurre all’interno degli stabilimenti Amazon la contrattazione collettiva, una contrattazione benedetta dall’alto, cioè dalle grandi istituzioni dello Stato “più” potente al mondo, dell’economia “più” forte al mondo, della democrazia “più” liberale al mondo e via di questo passo.

Bene, Amazon ha dichiarato che non se ne parla proprio, come dire che è il potere economico che domina la politica e non viceversa. Lo ha dichiarato senza mezzi termini, lo ha fatto capire a chiare lettere ai lavoratori e i lavoratori a stragrande maggioranza hanno votato per Amazon contro la contrattazione collettiva. Addirittura si è verificato che i voti a favore sono stati inferiori a quelli che avevano firmato per la richiesta di indizione del referendum. Di che meravigliarsi? Gli operai camminano sulla grigia terra, sono ragionatori e si affidano a chi nel contesto determinato offre maggiori garanzie. E Amazon nell’attuale contesto offre maggiori garanzie rispetto a una ipotetica contrattazione collettiva che richiederebbe – per poter essere realmente tale – una mobilitazione internazionale che al momento non si intravede. Questa è la questione nuda e cruda.

In questo modo svaniscono tutti i sogni che abbiamo cullato sull’autonomia di classe del proletariato come se esso vivesse su un altro pianeta piuttosto che essere parte complementare di un tutto quale il processo di accumulazione del capitale. La campana suona per noi che abbiamo idealizzato una classe dai poteri taumaturgici scorporandola totalmente dal suo stato materiale, cioè di merce concorrenziale al suo interno al pari di tutte le altre merci.

Si tratta di una dura sconfitta? Non esageriamo perché la sconfitta si misura sulla base della forza messa in campo e a Bessemer di forza proletaria in campo non ce n’è stata e con niente si compra niente. Cerchiamo allora di indagare le ragioni, cioè le cause per cui i lavoratori non si attivizzano per contrattare collettivamente la propria forza lavoro. E lo facciamo con un argomento che usò Henry Kissinger nei confronti della stampa che lo accusava di essere troppo cedevole ai vietnamiti negli anni ’70 dicendo: « signori non è possibile conquistare al tavolo delle trattative quello che si perde sul campo di battaglia ». Ecco, sul campo di battaglia c’è stato solo Amazon, ovvero una delle aziende più grandi e potenti al mondo e in continua espansione e gli operai non se la sono sentita di sfidarla.

Ma allora i lavoratori sono opportunisti, sono arrivisti, sono egoisti; oppure sono ricattati e sono minacciati, quando non anche illusi di poter acquisire le capacità necessarie e a scalare la carriera? Sono l’insieme di tutte queste cose, è inutile nascondercelo, gli operai non sono eroi, sono merce fra le merci e come tali si comportano finché non superano il loro stadio inanimato. E il loro stato inanimato lo superano solo se posti nella condizione di estrema ratio, ovvero solo se costretti. Pertanto se li immaginiamo secondo i nostri desideri prendiamo cantonate, perché se un padrone ti offre 15 dollari all’ora e la copertura assicurativa, in una fase come quella attuale che vede trionfare il precariato e aumentare la disoccupazione, l’operaio si contenta e non rincorre motivi ideologici per ribellarsi. Se poi a proporsi come organizzatore collettivo per la sua contrattazione è un affiliato al sindacalismo storico, come l’Afl-Cio, connivente con i poteri forti, il quadro si completa. Al riguardo vorremmo anche mettere in guardia dal vedere nel comportamento operaio una sorta di critica a questo tipo di sindacato e magari proporsi come alternativa ad esso. No, la questione è molto più complessa e va affrontata con realismo.

 

La velocità delle merci in questa fase

Uno degli aspetti fondamentali di questa fase è costituito dalla sempre maggiore velocizzazione che devono avere le merci tra la produzione, la consegna e il consumo che corrisponde al principio della giostra circolante indicato da Marx in M-D-M (Merce Denaro Merce) e D-Merce-D° (Denaro Merce Denaro aumentato). Tale processo non avviene in una sola regione o in una sola nazione, e neppure in un solo continente, ma coinvolge l’intero modo di produzione capitalistico, da nord a sud, da est a ovest, cioè in tutto il mondo oggi come non mai. Si dirà ma il capitalismo è stato sempre internazionale, ha sempre saputo scavalcare i confini, aggirare i divieti, le leggi ecc.; il che è vero, ma non alle stesse condizioni attuali. Oggi Bezos e Amazon hanno di fronte un’Asia che non solo non è più assoggettata al colonialismo e all’imperialismo occidentale, ma è capace di sfidare sul mercato sia della produzione che della distribuzione delle merci a ogni livello le vecchie potenze coloniali che cominciano ad avere serie difficoltà. L’Asia non produce soltanto “cineserie” come si pensava fino a 50 anni fa nella “civile” Europa e nella democratica America del nord, no, oggi tanto la Cina quanto tanti altri paesi asiatici hanno raggiunto livelli di sviluppo da far tremare i polsi al grande capitale occidentale. Non solo, ma una parte dei paesi asiatici ricchi di petrolio e di altre materie prime hanno anche saputo mettere a frutto sul piano finanziario i profitti derivati dalla vendita delle loro materie prime e saputo investire nella City al punto da far scrivere a Parag Khanna nel suo libro Il secolo asiatico? « Un “ponte fintech” tra Londra e Singapore aiuta le nuove società a raccogliere fondi in entrambi i paesi e in particolare le società britanniche che desiderano accedere ai mercati bancari asiatici. Otto banche commerciali cinesi hanno uffici a Londra per facilitare gli investitori europei in Cina e nei progetti della Belt and Road. Oggi più che mai, possiamo affermare che la Gran Bretagna è in vendita ».

Il punto in questione è proprio questo e cioè che l’Asia non solo è cresciuta e continua a crescere, ma lo comincia a fare a spese dell’Occidente, e un gruppo come Amazon ha come concorrente l’Alibaba con meccanismi simili di produzione, raccolta e distribuzione delle merci da far impallidire il povero Bezos e il suo staff di manager retribuiti da nababbi.

Altrimenti detto: l’Asia – come scrive R. Abravanel nel suo libro Aristocrazia 2.0 – ha saputo fare di necessità virtù producendo una struttura manageriale piuttosto che familistica mettendo al primo posto il famoso detto di Deng Xiao Ping: non è importante che il gatto sia rosso o nero, l’importante che prenda i topi.

Diamo solo qualche accenno giusto per stare al tema, nove dei dieci collegamenti internazionali più trafficati al mondo sono tra città asiatiche. Quanto a investimenti, sebbene la Cina sia ancora indietro rispetto al Giappone in quanto a investimenti totali in Asia, sta rapidamente recuperando terreno, mentre diminuiscono i suoi investimenti negli Stati Uniti.

Ora, a fronte di una crescita straordinaria dell’Asia gli Stati Uniti e l’Europa sono costretti a rincorrere affannosamente, al punto che se prima erano gli asiatici che copiavano i prodotti occidentali oggi sono le aziende statunitensi a copiare le innovazioni cinesi. LimBike in California sta copiando il bike sharing dockless inventato in Cina da Ofo e Mobike, tanto per citare un esempio.

Purtroppo noi occidentali ci siamo abituati a guardare il mondo dall’alto in basso e a ritenerci migliori e superiori non solo rispetto alle altre specie della natura, ma anche alle altre “razze” umane che popolano il pianeta, e la storia ci sta mettendo di fronte a una realtà che ci sconvolge.

Tanto per essere ancora più chiari e fornire qualche elemento ulteriore di come sta andando il mondo, « Nel giro di due decenni, le imprese asiatiche sono passate dall’essere dipendenti dai prestiti delle banche occidentali a essere i clienti più ambiti di quelle stesse banche per le loro quotazioni in borsa. L’offerta pubblica iniziale di Alibaba, avvenuta a New York nel 2014, è stato il più grande debutto in borsa di sempre, raccogliendo 24 miliardi di dollari, e le offerte pubbliche di altre imprese asiatiche come la SEA Group di Singapore o la cinese Rise Education sono diventate fondamentali per generare le commissioni che tanto bramano le banche di Wall Street » scrive ancora il Khanna.

 

La natura del sindacato oggi

Torniamo allora a discutere della questione sindacale partendo dall’acquisizione che viviamo in un’altra epoca storica, in un’altra fase del modo di produzione capitalistico, e – per quello che ci interessa in queste note a proposito di Amazon – in un paese in declino, cioè gli Usa. Non siamo noi a dirlo, ma i fatti che riferisce M. Gaggi nel suo libro CRACK AMERICA.

Ora, in un paese in decadenza come gli Usa, un gruppo come Amazon, che rappresenta ancora una potenza economica in espansione e che si rivolge ai propri lavoratori chiedendo fiducia contro i tentativi – tra l’altro molto minoritari - della costituzione del sindacato al proprio interno non può che ottenere piena fiducia. E che il Partito Democratico, attraverso addirittura il suo massimo esponente nonché neopresidente degli Usa, si sia espresso per la costituzione del sindacato all’interno del gruppo Amazon, vuol dire che la questione è seria e complicata e non riguarda la cattiveria del vecchio padrone delle ferriere grasso, ricco col sigaro in bocca rappresentato dalle immagini satiriche del ‘900, ma ci troviamo di fronte a un fenomeno in avanti in termini temporali del modo di produzione, che ha cambiato i caratteri del capitalismo dove la figura del manager si è imposta come ruolo storico nei meccanismi della concorrenza che ha come fiore all’occhiello la vendita online. Bezos è questo, Amazon è questo ed è uno scontro tra titani dove a farne le spese sono i lavoratori tanto dell’uno quanto dell’altro o degli altri. Si tratta di un rapporto certamente di sfruttamento, certamente di oppressione, certamente fatto anche di ricatto e minacce, ma è diverso rispetto alla precedente classe operaia che cresceva di condizione – in modo particolare in Occidente, e in modo ancora più particolare negli Usa – insieme alla crescita dell’accumulazione. Oggi siamo di fronte sempre di più a un proletariato diffuso, fluido, privo di stabilità sia fisica che temporale e un gruppo come Amazon, o Alibaba ancora di più, si presenta – agli occhi del giovane proletario, specie se di colore e/o immigrato, come il salvatore della patria, cioè di chi gli fornisce la garanzia della sopravvivenza, seppure a brutali condizioni lavorative, ma gliela garantisce. I lavoratori hanno questa percezione, e sposano la proposta dell’azienda.

Ora, la differenza con la fase precedente, per quanto riguarda il proletariato e le sue prospettive, si caratterizza come massa fluida e dispersa e perciò sempre più alla mercé del capitale, in modo particolare se si tratta di chi è capace di far intravedere garantita la sopravvivenza, figurarsi 15 dollari all’ora, come ha fatto Amazon a Bessemer.

Non inganni l’episodio in Italia della sentenza del Tribunale sui Rider come lavoratori dipendenti a tutti gli effetti, perché un conto è quello che è scritto sulla carta, tutt’altra cosa è far sì che quei diritti vengano seriamente rispettati da tutte le aziende della ristorazione. Di fronte alla possibilità di lavorare a nero, dunque senza rispettare quello che è scritto, o non lavorare, il giovane o meno giovane disoccupato deve sottostare e, se invece capita in un’azienda che rispetta la legge e si sente perciò garantito, non chiederà l’ingresso del sindacato. Così stanno le cose.

 

La questione sindacale e alcune parole chiare sulla Cina

Cerchiamo di guardarci in faccia, dico ad alcune formazioni che risentono di una certa nostalgia del paese che fu di Mao Tse Tung, del Libretto rosso, della Lunga marcia e del Fuoco sul quartier generale, delle Divergenze tra il compagno Togliatti e noi ed oggi è l’esplicitazione più chiara del concetto di Deng Xiao Ping circa la neutralità del colore del gatto purché prenda i topi.

La Cina dall’indipendenza in poi ha dovuto accelerare all’inverosimile il proprio sviluppo per mettersi al passo con i livelli occidentali. Lo ha fatto ed ha superato di gran lunga la produttività sia delle industrie europee che quelle degli Stati Uniti e del Giappone. È riuscito, come paese, a imporsi in ogni ambito produttivo e commerciale, è diventato una grande potenza. Lo ha potuto fare nel solo modo possibile: centralizzando le risorse in un modo tecnocratico all’insegna di un simbolo che aveva caratterizzato il ‘900, cioè la falce e il martello con stelle su bandiera rossa.

Se oggi la Cina si erge come colosso al cospetto degli occidentali per come ha saputo affrontare la pandemia del Covid, lo deve proprio a quella struttura dello Stato rigorosamente centralizzato e a una economia affidata a criteri tecnocratici.

Quando però leggiamo di massicci prestiti al Venezuela, o di vendita di armi a paesi come Venezuela, Ucraina, il Perù e l’Argentina; oppure che la Cina ha aumentato il suo programma militare; oppure che insieme alla Russia è andata in soccorso al Venezuela per non farlo fallire per la ragguardevole cifra di 160 miliardi di dollari di debito; oppure dei suoi straordinari investimenti tanto in Asia quanto in Africa per infrastrutture e impianti industriali, ci vien da pensare che si tratta di una straordinaria accumulazione espressione di plusvalore estorto al proletariato cinese. Un proletariato complementare, totalmente subordinato, privo di qualsiasi autonomia chiamato a sostenere la causa di un’accumulazione che è capitalistica. Non è un'altra cosa e neppure un altro modello di capitalismo, no, ma è capitalismo allo stato determinato. Dove le uniche strutture rappresentative sono statali e stataliste. E il sindacato? Lo diciamo con una punta di amarezza: altro che concertativi come quelli occidentali, ma nei paesi che scrollandosi di dosso il colonialismo e l’arretratezza del dominio aristocratico, le nascenti borghesie locali hanno dovuto fare di necessità virtù e relegare le necessità autonome e organizzative del proletariato nell’alveo dei desideri dell’idealismo novecentesco. Questa è la realtà, poi di chiacchiere sono piene le biblioteche di un certo marxismo.

Diciamo perciò che siamo probabilmente alla vigilia di grandi sconvolgimenti e di lotte proletarie anche nello Stato “comunista” cinese e in altri paesi asiatici, perché quelle stesse leggi che hanno portato la Cina all’attuale livello di sviluppo, non lo salveranno dall’essere coinvolto nella più grave crisi che la storia moderna abbia mai avuto, perché il modo di produzione capitalistico è monista, tutto si tiene o niente si tiene.

Ha ragione Bezos e Amazon a dire « UNIONS CAN’T. WE CAN (Le Unioni non possono, noi possiamo) », è inutile illudersi perché il sindacato, cioè la possibilità di costituirsi in classe che rivendica un proprio percorso, in questa fase particolare del movimento storico, deve fare i conti con una concorrenza asiatica a ribasso, che è spietata. Ora, mentre il proletariato, come si diceva prima, cammina sulla grigia terra e percepisce esattamente l’amara realtà, un certo sindacalismo rimuove totalmente le difficoltà oggettive del mercato – che è il principio di questo modo di produzione – per spostare sul piano della cattiveria personale di Bezos i problemi e in questo modo ha potuto ingannare sé stesso ma non è riuscito a ingannare i lavoratori a Bessemer.

Cerchiamo di essere ancora più chiari. L’obiezione « ma se i lavoratori avessero votato per la costituzione del sindacato sarebbe stato meglio » non dà luogo a procedere, perché il determinismo comunista non rincorre i se e i ma, ma cerca di spiegare sempre le cause dei fatti. Non a caso alla vigilia del 22 marzo dicemmo che sarebbe stato importante scendere unitariamente in sciopero indetto da Cgil-Cisl-Uil, rivolgendoci all’estremismo sindacale, perché sarebbe stato l’unico modo per tentare di far sentire la propria voce ad Amazon. Il che è molto diverso, perché lo sciopero impegna i lavoratori a rischiare, a disporre della propria forza, e i lavoratori anche in quella occasione, è inutile nasconderlo, non scioperarono, diedero un segnale chiaro e tangibile delle proprie difficoltà. E certi toni trionfalistici stile Manifesto, Bertinotti e altre formazioni di sinistra rappresentavano più i propri pensieri riferiti al tempo che fu, piuttosto che la realtà dei fatti. Un atteggiamento, quello trionfalistico, che è eccessivo e disarmante anche per alcuni limitati risultati ottenuti nella Logistica, ovvero l’altra faccia della stessa medaglia di quello opportunistico bertinottiano perché nega l’evidenza storica, e si comporta, purtroppo, come «il medico pietoso che fa fare al malato la piaga verminosa ».

Per concludere, gioiscano pure i potenti e i loro reggicoda dicendo che « I dipendenti del centro di distribuzione al centro della vicenda si sono espressi per oltre il 70% contro l'adesione alla Retail, Wholesale and Department Store Union ». È nel loro diritto, ma non vorremmo che dietro la soddisfazione di facciata si nascondesse il timore che la valanga asiatica in arrivo è ben più minacciosa dei belati socialdemocratici borghesi che lisciano il pelo agli operai per compattarli ad uno spirito corporativo nella guerra commerciale del continente “giallo” sempre più aggressivo.

Il nostro modesto punto di vista è: attenzione bene, perché chi oggi vi sostiene, domani vi travolgerà, secondo il principio di Rosa: « La massa è sempre quello che deve essere a seconda delle circostanze storiche, ed è sempre sul punto di diventare qualcosa di totalmente diverso da quello che sembra ».

Vorremmo solo dire a quanti oggi si esaltano per questa vittoria di Amazon che solo 100 anni fa l’Europa e gli Usa dominavano il mondo e oggi sono destinati a un miserevole declino. Non lo dice l’idealista comunista, ma lo scrive un vostro storico come Emilio Gentile.

Pertanto chi si sente attratto dalla causa del comunismo deve sapere che solo il capitale attraverso le sue ineluttabili leggi affosserà il capitalismo.

Comments

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Romke
Wednesday, 21 April 2021 12:02
Al di là delle chiacchiere sballate e sghimbesce, forse era sufficiente dire che gli operai Amazon non hanno voluto caricarsi sulle spalle sindacalisti venduti al padronato. In America come in tutto il mondo. E' la sconfitta strategica di Amazon, altro che vittoria! Sono gli operai gli unici che potranno affossare e dirigere l'affossamento del capitalismo. Alla faccia della ciliegina finale dello scritto, che riporta a galla la vecchia schifezza opportunista della morte (non credevo ai miei occhi!: per estinzione? per suicidio? per scoppio di risate irrefrenabili alla lettura di queste fregnacce?) del capitalismo.
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