La fine dell’illusione democratica
di Thomas Fazi
Per gentile concessione dell’editore pubblichiamo la prefazione del libro di Paolo Botta, Cos’è lo Stato. Capitalismo, democrazia e socialismo del XXI secolo (Rogas, 2025), in uscita oggi. Buona lettura!
Esistono libri che cambiano per sempre il modo in cui guardiamo la realtà, costringendoci a rimettere in discussione concetti che ritenevamo assodati. Il libro di Paolo Botta è, a mio avviso, uno di quei libri. Il tema è lo Stato, inteso non come sinonimo di Paese ma come apparato statuale. Un tema apparentemente ostico, ma in realtà – come dimostra l’autore – centrale in quasi ogni aspetto della nostra vita, da cui discende tutto: la politica, l’economia, la società, la cultura. Il punto di partenza è la consapevolezza che «le nostre conoscenze sullo Stato sono da considerare ancora troppo ristrette, sia sul piano disciplinare che su quello di una visione complessiva». Una consapevolezza che, al termine della lettura, difficilmente il lettore potrà non condividere.
Come spiega Botta nelle primissime pagine: «Il presente contributo non ha avuto come finalità prioritaria quella di esaminare in maniera astratta o normativistica il concetto di Stato, anche se in alcuni passaggi si è proceduto a chiarire la natura giuridica e politica dello stesso, ma di definire secondo un approccio realistico le sue caratteristiche oggettive che si manifestano nelle sue performance strategiche in interazione in primis con la società e l’economia». In altri termini, il libro non si muove sul terreno delle astrazioni teoriche o delle speculazioni accademiche, ma su quello di un’analisi rigorosa e scientificamente fondata, che ambisce a cogliere le dinamiche reali del potere statale così come si manifestano nei contesti concreti: nei rapporti sociali, nei meccanismi economici, nei conflitti geopolitici. È questo approccio empirico e strutturale che conferisce al testo la sua forza esplicativa e la sua rilevanza politica.
Il libro si apre con un’analisi della perdurante centralità dello Stato. Contro la vulgata secondo cui, negli ultimi decenni, lo Stato sarebbe stato progressivamente marginalizzato o reso obsoleto dai “mercati” e da dinamiche globali e sovranazionali, l’autore mostra come in realtà esso rimanga un’istituzione assolutamente centrale nella vita politica ed economica.
Ciò a cui abbiamo assistito semmai è una rifunzionalizzazione radicale dello Stato, non certo una sua marginalizzazione. Come scrive Botta: «Non solo lo Stato-nazione non è in crisi, ma si potrebbe addirittura parlare di uno Stato iper-politico di fronte a un’economia che richiede continui interventi pubblici».
È, anzi, proprio nelle economie liberiste – quelle che predicano la riduzione dell’intervento pubblico – che lo Stato si fa più pervasivo, nel momento in cui si trova costretto a intervenire sistematicamente, e spesso in modo surrettiziamente keynesiano, per salvare il sistema dalle crisi da esso stesso generate (spesso a causa di politiche di compressione della domanda interna).
L’autore demistifica anche il mito della globalizzazione come superamento dello Stato, mostrando come la narrazione attorno ai presunti limiti imposti dalla globalizzazione, più che descrivere una realtà oggettiva, sia stata «utilizzata come alibi per giustificare i cambiamenti che negli ultimi trent’anni hanno caratterizzato il mondo occidentale». In altre parole, dietro la retorica del “ritiro dello Stato” si cela un suo riposizionamento strategico, funzionale a un nuovo paradigma politico ed economico.
Fin qui l’autore si muove in un solco analitico già tracciato da altri studiosi. È nella seconda parte del libro, dove l’autore passa ad analizzare cosa sia lo Stato e come esso si collochi all’interno della più vasta dimensione della politica, che emergono le intuizioni più originali. Qui Botta propone una tesi forte: lo Stato non è semplicemente uno dei tanti attori che concorrono a determinare le dinamiche politiche economiche e sociali all’interno di un certo territorio, ma è piuttosto il fondamento stesso – l’elemento di base – di queste dinamiche.
Questa ipotesi, come vedremo, ha implicazioni profonde anche per il nostro modo di intendere la democrazia. Nei paesi liberaldemocratici, siamo soliti identificare lo Stato con il governo e il parlamento, supponendo che queste istituzioni ne determinino le scelte, nel rispetto di Costituzioni e leggi. Ma Botta rovescia questa visione: non solo lo Stato non coincide con le istituzioni della democrazia rappresentativa, ma l’uno e le altre appartengono a due sfere distinte della politica: la politica degli Stati, da un lato, e quella che l’autore chiama “politica popolare” dall’altra.
Quest’ultima include tutte le istituzioni che, almeno in teoria, dovrebbero incarnare la sovranità popolare: partiti, sindacati, movimenti e società civile, che poi (sempre teoricamente) dovrebbero trovare una loro espressione all’interno dei parlamenti e concorrere a determinare l’orientamento politico dei governi. Nei paesi liberaldemocratici siamo portati a credere che la politica si esaurisca sostanzialmente in queste istituzioni; del resto, non sono forse proprio queste a occupare quotidianamente le cronache politiche?
Secondo l’autore, però, si tratta di un colossale fraintendimento. Esiste infatti un’altra dimensione della politica – quella propriamente statuale – che non coincide affatto con la sfera della politica popolare. Gli Stati non solo operano in modo sostanzialmente autonomo rispetto a essa, ma occupano una posizione di netta primazia nella gerarchia dei poteri politici.
Secondo l’autore, infatti, lo Stato rappresenta una manifestazione “suprema” della politica, innanzitutto perché detiene in via esclusiva il “monopolio della forza”, come affermato da Max Weber. Un potere che si esercita non solo sulla società, ma anche sugli altri poteri politici, economici e culturali che, pur essendo molteplici e di diversa natura, restano in ultima analisi subordinati all’egida statale. Ma anche perché, in ultima istanza, non potrebbe essere altrimenti, giacché «il pullulare delle organizzazioni in generale e di quelle molto forti in particolare ha bisogno di essere governato da un super-potere dotato di forza e sovranità».
In questo senso, osserva l’autore, gli Stati sono da considerarsi «gli artefici massimi della dimensione politica». Un’affermazione che implica – come anticipato – una loro autonomia, non solo rispetto alla società civile, ma anche, e questo è forse il nodo centrale della sua tesi, rispetto ai parlamenti e persino agli stessi governi. Si tratta di una posizione senz’altro controversa, ma che l’autore sostiene con coerenza argomentativa e notevole forza analitica. Ed è una tesi che, se accolta, impone un ripensamento radicale del modo in cui concepiamo la politica nei paesi occidentali a tradizione liberaldemocratica.
«Raramente lo Stato è inteso come entità concreta sganciata dai parlamenti e dal governo e, di conseguenza, nella sua soggettività politica autonoma», scrive Botta, ma in realtà sono molto frequenti le situazioni «in cui lo Stato fa scelte che non sono rintracciabili né nelle leggi né nel rispetto degli orientamenti politici prevalenti in parlamento». Di esempi, nota l’autore, la storia ne è piena: dai colpi di Stato realizzati con il sostegno degli apparati statuali – in primis gli eserciti – fino ai passaggi di regime, come la nascita della Seconda Repubblica in Italia o l’adesione degli Stati all’Unione europea. In entrambi i casi, i nuovi assetti istituzionali hanno segnato una rottura profonda con l’impianto giuridico e politico precedente e, anche nel caso di transizioni istituzionali “democratiche”, si sono spesso affermati in assenza di un’esplicita legittimazione popolare, quando non apertamente in contrasto con essa.
Ma se lo Stato non si identifica (o non si esaurisce) nei parlamenti e nei governi – e anzi va inteso come un’entità autonoma e gerarchicamente superiore rispetto a queste istituzioni, che sono invece espressione della politica popolare – allora viene naturale chiedersi: in cosa consiste, in concreto, lo Stato? In altre parole: cos’è lo Stato? Lo Stato, spiega l’autore, si manifesta essenzialmente nella burocrazia pubblica, intesa come l’insieme degli apparati che esercitano funzioni fondamentali di indirizzo, controllo e regolazione, al di là (e spesso al di sopra) della politica elettorale.
Questa burocrazia si articola in più livelli e comprende tanto le istituzioni formalmente statali ma non governative – visibili e operative “alla luce del sole” – quanto strutture più opache. Per quanto riguarda le prime, si pensi, ad esempio, al ruolo marcatamente politico assunto negli ultimi anni dalle corti costituzionali, frequentemente in tensione con gli indirizzi dei governi eletti, oppure, restando nel contesto italiano, al potere non trascurabile esercitato dal Presidente della Repubblica, figura formalmente neutra ma spesso decisiva nei momenti di crisi politica.
Vi sono, poi, gli apparati repressivi dello Stato, come le forze di polizia, che vengono spesso mobilitati contro settori della società civile, in particolare quando questi assumono posizioni critiche, antigovernative o apertamente antisistemiche; si pensi, ad esempio, alla gestione delle manifestazioni di piazza o dei movimenti di protesta. Accanto a queste strutture visibili, operano anche apparati più opachi, incaricati di influenzare in modo diretto o indiretto il corso politico degli Stati: è il caso dei servizi di intelligence, che spesso agiscono in sinergia con poteri informali od occulti non riconducibili a una dimensione istituzionale tradizionale, come logge massoniche, reti d’influenza parallele od organizzazioni criminali. Trattasi di quello che spesso viene chiamato Stato profondo (deep state) o Stato permanente: un livello sotterraneo ma strategicamente decisivo dell’autorità statale.
Infine, vi è una dimensione ancora più ampia: quella delle strutture sovranazionali e internazionali – l’Unione europea rappresenta l’esempio più evidente – che, in numerose occasioni, hanno operato non solo in assenza di legittimazione democratica, ma in aperto contrasto con la volontà popolare e, talvolta, anche con le scelte dei governi formalmente eletti. Tuttavia va sottolineato che queste entità, lungi dall’essere del tutto esterne, collaborano spesso in modo stretto con segmenti dell’apparato statale nazionale.
L’autore osserva che è «convinzione diffusa che i dipendenti pubblici siano al servizio del governo, che in regime democratico (e non) ha ricevuto un’investitura popolare. Ma ciò è molto discutibile perché in genere l’organizzazione statuale segue vie autonome, scorporate rispetto al potere politico che esprime i governi e che è parte integrante della politica popolare». A suffragio di questa tesi, basti ricordare come la burocrazia statuale tenda a conservarsi intatta nel tempo, continuando a esercitare le proprie funzioni indipendentemente dagli avvicendamenti politici o dai mutamenti di governo.
Lo si è visto chiaramente in diversi momenti di transizione o persino di rottura dei regimi, in cui gli apparati burocratici sono rimasti sostanzialmente invariati, nonostante trasformazioni di portata storica. In questo senso, lo Stato si configura come un organismo sociale dotato di una propria continuità e di una propria logica interna, capace di perseguire indirizzi e obiettivi spesso indipendenti da quelli dichiarati o perseguiti dalle leadership politiche del momento.
L’autore si rifà in particolare all’approccio teorico di Ralph Miliband, tra i primi a mettere in discussione l’idea che il potere statale si esaurisca nella sfera governativa. Come ebbe a dire un autore a proposito dell’approccio di Miliband, citato da Botta, egli «opera una distinzione tra il governo e lo Stato, sostenendo che il governo è la parte più visibile, ma non necessariamente la più importante, dello Stato».
A proposito del governo, Miliband osserva: «In altre parole, il fatto che il governo parli in nome dello Stato e sia formalmente investito del potere statale, non significa che esso lo controlli effettivamente». Una distinzione cruciale, che apre alla comprensione della complessità degli equilibri interni allo Stato. Anche la funzione della burocrazia viene radicalmente reinterpretata. «Formalmente, la burocrazia è al servizio dell’esecutivo, ne è lo strumento obbediente, il braccio della sua volontà», scrive Miliband. «Nella realtà concreta non è nulla di simile. Ovunque, e inevitabilmente, il processo amministrativo è anch’esso parte del processo politico». Pur riconoscendo l’importanza dell’analisi di Miliband, soprattutto per la distinzione che opera tra apparati statali e governi, Botta gli critica però il fatto di mettere i due sullo stesso piano: «In realtà le istituzioni parlamentari e governative non sono parte della politica degli apparati, ma sono invece parte integrante della politica popolare, di cui non sono altro che articolazioni. Distinguere tra Stato e governo è essenziale, perché quest’ultimo è parte integrante della politica popolare vs. quella statuale degli apparati e delle burocrazie».
Se accettiamo la tesi – a giudizio di chi scrive, molto convincente – secondo cui lo Stato costituisce un’istituzione dotata di un alto grado di autonomia non solo rispetto alla società civile, ma persino nei confronti dei governi eletti, allora si impone una domanda fondamentale: chi stabilisce le linee strategiche di fondo di questa super-macchina? Chi sono i grandi decisori? E, soprattutto, se lo Stato può dirsi autonomo dalla politica popolare, lo è altrettanto nei confronti delle élite economiche, dei poteri oligarchici, degli organismi sovranazionali?
Secondo l’autore, la risposta è affermativa: «Al di là di tutte le influenze cui ogni Stato è sottoposto nel suo rapporto con il mondo a lui esterno, la tesi qui sostenuta è che lo Stato sia autonomo in tutte le sue articolazioni interne. […] [L]o Stato è certo condizionato dall’economia, ma in ultima istanza è il titolare della decisione finale in virtù della propria natura istituzionale e politica».
Su questo punto mi permetto di proporre una lettura più sfumata. Se è vero, come giustamente sottolinea l’autore, che va respinta la semplificazione di certa vulgata marxista – secondo cui il capitalismo, e in particolare il settore finanziario, sarebbe l’artefice ultimo di ogni decisione politica e lo Stato una semplice marionetta priva di autonomia – è altrettanto difficile negare che, in un contesto sempre più oligarchico come quello occidentale degli ultimi quarant’anni, i confini tra poteri “interni” ed “esterni” allo Stato si siano progressivamente sfumati.
In una tale configurazione, più che interrogarsi sul grado di influenza che i secondi esercitano sui primi – influenza che appare peraltro innegabile – ritengo sia più utile parlare di un processo di cooptazione e infiltrazione graduale, attraverso il quale le élite economico-finanziarie hanno finito per colonizzare interi settori dell’apparato statale. Al punto che la distinzione tra “dentro” e “fuori” perde progressivamente di significato: i poteri formalmente interni allo Stato diventano, in modo quasi naturale, veicoli degli interessi di centri decisionali esterni, privi di legittimazione democratica ma dotati di enorme capacità di influenza.
A sostegno della propria tesi sull’autonomia – pressoché assoluta – dello Stato rispetto sia alla società civile e alla volontà popolare, sia agli interessi della classe dominante, Botta richiama uno dei principali teorici della “relativa autonomia” dello Stato: Nicos Poulantzas. Tuttavia, va sottolineato che, per Poulantzas, lo Stato capitalistico è relativamente autonomo rispetto alla classe dominante solo nella misura in cui è costretto a mediare, oltre agli interessi divergenti all’interno della classe dominante stessa, anche tra gli interessi di quest’ultima e le pressioni provenienti dalle classi subalterne – da quella che Botta definirebbe, con un lessico diverso, la politica popolare.
Quest’ultima, all’epoca in cui scriveva Poulantzas – gli anni Settanta – era ancora piuttosto forte, contribuendo a spingere lo Stato verso scelte che non coincidevano immediatamente con gli interessi di breve termine della borghesia, pur rimanendo all’interno del quadro di riproduzione dei rapporti di classe. Ma negli ultimi decenni questa dimensione è stata progressivamente annientata, come riconosce lo stesso autore (un tema su cui torneremo più avanti). A questo punto, viene da chiedersi: possiamo davvero continuare a parlare di autonomia dello Stato rispetto ai ceti dominanti anche in assenza di un autentico contropotere popolare?
Per provare a rispondere a questa domanda, può essere utile richiamare un’altra tesi centrale dell’autore: quella secondo cui lo Stato persegue costantemente i propri interessi specifici, sia sul piano interno, sia sul piano internazionale. In riferimento a questo secondo ambito, Botta scrive: «Lo Stato, dopo aver attuato il suo potere egemonico all’interno, attraverso gli strumenti di cui dispone e di cui parleremo in seguito, deve necessariamente decidere la propria collocazione a livello geopolitico sia per difendere la propria sicurezza da eventuali aggressioni esterne sia per trarre vantaggi da una corretta collocazione nel sistema interstatale, dentro il quale non può fare a meno di inserirsi».
In altre parole, lo Stato non sarebbe solo un soggetto strategico al proprio interno, ma anche un attore razionale e relativamente autonomo nella sfera geopolitica, capace di orientare le proprie scelte in funzione di interessi istituzionali propri, distinti sia da quelli del governo in carica sia da quelli delle élite economiche dominanti. Qui l’autore sembra riecheggiare il cosiddetto “presupposto dell’attore razionale”, centrale nella scuola realista delle relazioni internazionali (si pensi, ad esempio, a John Mearsheimer). Secondo questa impostazione, gli Stati – in particolare quelli che occupano una posizione privilegiata all’interno del sistema-mondo, per usare la terminologia di Wallerstein – agiscono in modo strategico e calcolato per promuovere e massimizzare i propri interessi.
Naturalmente, individuare quali siano gli interessi “oggettivi” di uno Stato è tutt’altro che semplice. Tuttavia, si possono individuare alcune costanti strutturali: è oggettivamente nell’interesse di ogni Stato garantirsi l’accesso stabile a risorse e materie prime; creare condizioni favorevoli allo sviluppo economico e alla crescita della propria base produttiva; e minimizzare il rischio di conflitti armati, in particolare con potenze di pari livello o superiori, specialmente se dotate di capacità nucleari.
Da questa prospettiva, però, osservando il comportamento degli Stati europei negli ultimi tre anni e mezzo – ovvero dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina – risulta difficile sostenere che l’allineamento pressoché incondizionato alla strategia USA-NATO abbia effettivamente giovato agli interessi “oggettivi” dell’Europa. Al contrario, il coinvolgimento indiretto nel conflitto e l’adozione di misure sanzionatorie che si sono rivelate, nei fatti, autentiche auto-sanzioni, hanno prodotto effetti devastanti sull’economia dei Paesi europei e contribuito ad aggravare in maniera significativa i rischi per la sicurezza dell’intero continente. Particolarmente sconcertante, poi, è stato il silenzio – o, peggio, la rimozione deliberata – da parte delle autorità europee, compresa la Germania, direttamente colpita, rispetto all’attentato terroristico nei confronti del gasdotto Nord Stream, infrastruttura cruciale per la sicurezza energetica europea.
Si può davvero sostenere che in questa congiuntura gli Stati europei abbiano agito nei “loro” interessi, comunque li si voglia definire? Certo, si può ipotizzare che anche nel caso del conflitto ucraino gli Stati europei abbiano seguito una loro specifica visione – per quanto opinabile – di ciò che ritenevano essere l’interesse nazionale. Tuttavia, risulta difficile all’avviso di chi scrive accettare l’idea che qualsiasi decisione assunta da uno Stato sia, per definizione, un’espressione del suo interesse strategico. Affermare che gli Stati perseguono sempre i propri interessi, anche quando non ne comprendiamo la logica, rischia di ridursi a un ragionamento circolare, che impedisce di interrogarsi sulle dinamiche e sui condizionamenti che possono aver determinato certe scelte.
Ritengo invece che le politiche adottate dagli Stati europei negli ultimi anni rendano necessario prendere in considerazione un’ipotesi alternativa: che tali scelte non rispondano affatto a una concezione, per quanto discutibile, dell’interesse nazionale, ma piuttosto agli interessi particolari delle élite – nazionali e sovranazionali – che oggi governano l’Europa e dei gruppi di potere a cui queste sono strutturalmente legate. Analizzare nel dettaglio la natura di tali interessi esula, com’è ovvio, dall’ambito di questo testo (a tal fine si rinvia ad altri testi del sottoscritto).
Il punto essenziale è un altro: la progressiva cooptazione degli apparati statali da parte di élite che rispondono a logiche esterne rispetto agli interessi nazionali – gruppi economico-finanziari, poteri oligarchici transnazionali privati, organismi sovranazionali o internazionali come l’Unione europea e la NATO, il sistema imperiale statunitense nelle sue varie articolazioni – impone di ripensare quella che Botta definisce la politica degli Stati, soprattutto in ambito internazionale.
Questo discorso si intreccia inevitabilmente con il tema della sovranità statale. Botta sostiene che «il potere è prevalentemente, anche se non esclusivamente, nelle mani dello Stato come organizzazione politica dotata di sovranità assoluta». Se – anche alla luce di quanto detto finora – si può ritenere in ultima analisi fondata la tesi secondo cui lo Stato detiene una piena sovranità sul piano interno, in quanto «la [sua] potestà si esercita su qualunque altro potere sia collocato nella società, rispetto al quale lo Stato ha un predominio non solo legalizzato ma supportato dalla forza», risulta invece più difficile, all’avviso di chi scrive, sostenere che tale sovranità si estenda con la stessa pienezza anche sul piano esterno.
Molti Stati, soprattutto quelli economicamente più deboli, presentano una fragilità oggettiva – in termini di sviluppo delle forze produttive, accesso ai mercati internazionali, controllo del territorio, capacità militare ecc. – tale da renderli, nel contesto internazionale, sovrani solo in senso formale. In realtà, questi Stati si trovano spesso alla mercé di potenze più forti, incapaci di esercitare un’autentica autodeterminazione. Basti pensare, per citare un caso recente, alla facilità con cui la Siria è stata sottoposta a un cambio di regime promosso dalle potenze occidentali (e da Israele) con la complicità di gruppi armati locali. Del resto, lo stesso Botta riconosce che solo grazie a un intenso processo di sviluppo delle proprie forze produttive – tanto sul piano economico quanto su quello militare – Paesi come la Russia e la Cina sono riusciti a sottrarsi a una condizione strutturale di colonizzabilità da parte dell’Occidente, riconquistando così una sovranità effettiva anche sul piano internazionale.
Che dire, invece, dei Paesi occidentali – e di quelli europei in particolare – che occupano indubbiamente una posizione privilegiata nella gerarchia del sistema-mondo? Questo status basta, di per sé, a qualificarli come realmente sovrani sul piano internazionale? Chi scrive sostiene da tempo che il processo di integrazione economica e politica dell’Unione europea abbia profondamente eroso – se non quasi del tutto cancellato – la sovranità degli Stati membri, soprattutto in ambito economico. Gli Stati europei hanno infatti ceduto il controllo su tutti i principali strumenti che storicamente definiscono la sovranità statale in campo economico: la gestione del tasso di cambio, la politica monetaria e, di conseguenza, anche quella fiscale. Come aveva già lucidamente previsto l’economista britannico Wynne Godley, nell’anno stesso della firma del Trattato di Maastricht:
[I]l potere di emettere la propria moneta, di fare ricorso alla propria banca centrale, è la cosa principale che definisce l’indipendenza di una nazione. Se un paese rinuncia a, o perde, questo potere, acquisisce lo status di ente locale o di colonia. Le autorità locali e le regioni, ovviamente, non possono svalutare. Ma si perde anche il potere per finanziare il disavanzo attraverso la creazione di moneta, mentre altri metodi di ottenere finanziamenti sono soggetti a regolamentazione da parte dell’autorità centrale [la BCE]. Né si possono modificare i tassi di interesse. Poiché le autorità locali non sono in possesso di nessuno degli strumenti di politica macroeconomica, la loro scelta politica si limita a questioni relativamente minori: un po’ di istruzione qui, un po’ di infrastrutture là.
Aderendo all’euro, in breve, gli Stati membri hanno acquisito lo status di ente locale o di colonia, secondo la definizione di Godley. Botta, con ogni probabilità, dissentirebbe da questa lettura. Secondo l’autore, infatti, il processo di integrazione europea non avrebbe compromesso la sovranità degli Stati membri, in quanto la decisione di trasferire competenze all’Unione europea sarebbe stata essa stessa un atto di sovranità. In altre parole, delegare potere a istituzioni sovranazionali avrebbe rappresentato, per Botta, una scelta deliberata e autonoma da parte degli Stati, e dunque non un segno della loro subordinazione, bensì una manifestazione della loro sovranità.
Questo è senz’altro vero. Soprattutto a partire dai primi anni Novanta, le classi dirigenti europee – sia quelle elette che quelle riconducibili agli apparati statali – hanno deliberatamente scelto di trasferire un numero crescente di prerogative nazionali alle istituzioni sovranazionali dell’Unione europea. Tale scelta non fu il frutto di una costrizione esterna, ma si inseriva in un preciso disegno politico, con un duplice obiettivo.
Da un lato, si trattava di mascherare una serie di decisioni profondamente impopolari – finalizzate a ristabilire la redditività del capitale e, più in generale, a rovesciare i rapporti di forza a favore di quest’ultimo, attraverso la compressione salariale, la precarizzazione del lavoro e lo smantellamento delle tutele sociali – presentandole come l’esito inevitabile di presunti “fattori oggettivi” o “vincoli esterni”, anziché come il risultato di scelte politiche intenzionali (basti pensare al celebre mantra «ce lo chiede l’Europa»).
Dall’altro, l’obiettivo era indebolire la capacità dei cittadini di orientare l’indirizzo dello Stato e di incidere sulle sue politiche, soprattutto in ambito economico, attraverso una sistematica autolimitazione da parte dei governi rispetto all’intervento pubblico. In tal senso, il processo di desovranizzazione intrinseco al progetto di integrazione europea ha funzionato anche come strumento di de-democratizzazione: un dispositivo istituzionale volto a sottrarre alla sfera della decisione politica – e quindi del conflitto democratico – le leve fondamentali dell’economia.
Ciò non toglie, tuttavia, che il processo di indebolimento delle sovranità nazionali in Europa sia stato reale, profondo e difficilmente reversibile, a prescindere dal fatto che si sia trattato di una decisione “sovrana” delle élite nazionali, e non di una costrizione imposta dall’esterno. Il fatto che la rinuncia alla sovranità sia avvenuta per scelta autonoma non ne attenua la gravità, né rende più semplice rimediare alle sue conseguenze. Se decido liberamente di amputarmi un braccio, la natura volontaria del gesto non rende il danno meno grave – né più facile da riparare. Fuori di metafora, qualsiasi governo – o Stato – che oggi intendesse adottare una linea politica alternativa rispetto ai vincoli imposti dalla UE (e dalla NATO) si troverebbe a confrontarsi con ostacoli e vincoli reali e concreti, pur essendo stati autoimposti dai governi – o dagli Stati se si preferisce – che lo hanno preceduto.
Certo, esiste sempre la possibilità di rompere quei vincoli e recuperare la sovranità economica – sostanzialmente uscendo dal sistema UE-euro – ma ciò comporta degli ostacoli tecnici e politici di enorme portata, che di fatto favoriscono una politica di continuità con lo status quo. Siamo, insomma, di fronte a un classico esempio di path dependence, ossia di “dipendenza dal percorso” o più propriamente di “dipendenza dalla storia”, che descrive una condizione nella quale gli eventi passati influenzano significativamente le possibilità future, in modo che le scelte attuali sono limitate e dipendenti dalle scelte fatte in precedenza.
Ad ogni modo, al di là di alcune divergenze interpretative tra l’autore e il sottoscritto, i temi dell’autonomia dello Stato dai ceti dominanti e della sua effettiva sovranità sul piano esterno – in particolare nel contesto europeo – restano, tutto sommato, aspetti secondari rispetto a quella che, come detto, considero l’intuizione centrale del libro e sulla quale concordo pienamente: la primazia della politica statuale rispetto a quella popolare o democratica. È un punto a cui abbiamo già accennato, ma su cui voglio ritornare per tirare le fila di quanto detto finora.
Come si è detto, secondo l’autore lo Stato non solo non può essere identificato tout court con le istituzioni della democrazia rappresentativa, ma appartiene a una sfera distinta – sebbene in costante interazione – rispetto a queste ultime. Botta distingue infatti tra la politica degli Stati e la politica popolare, che comprende partiti, parlamenti, sindacati, movimenti e altri strumenti di rappresentanza democratica. Gli Stati, afferma Botta, sono soggetti strutturalmente autonomi rispetto alla politica popolare e nella gerarchia dei poteri politici occupano una posizione di chiara supremazia. Questa autonomia e primazia non riguardano soltanto la società civile, ma si estendono anche – ed è questo uno dei punti più controversi e originali della sua tesi – ai parlamenti e persino ai governi stessi, che risultano subordinati all’apparato statuale nel senso più profondo e permanente del termine.
Oggi questo fenomeno appare più evidente che mai. Da anni, in Occidente – e in particolare in Europa – assistiamo a un’escalation autoritaria, repressiva e antidemocratica che sembra non avere fine. Già durante la crisi dell’euro del decennio scorso, si è manifestato un progressivo accentramento del potere nelle mani delle istituzioni sovranazionali dell’UE, con ingerenze sempre più profonde nei processi democratici degli Stati membri: dal “golpe monetario” della BCE contro il governo Berlusconi nel 2011, al ricatto finanziario esercitato nei confronti del governo Tsipras in Grecia, fino all’imposizione di leader tecnocratici privi di qualunque legittimazione popolare.
Una deriva che ha subito un’accelerazione drammatica durante la pandemia da Covid-19, quando abbiamo assistito a una soppressione senza precedenti delle libertà civili, delle procedure democratiche e dei vincoli costituzionali: militarizzazione della vita pubblica, imposizione di misure di controllo sociale mai sperimentate prima, concentrazione straordinaria di potere esecutivo. Queste stesse logiche autoritarie si sono ripresentate in forma ancora più estrema con lo scoppio del conflitto tra Russia e Ucraina, in un contesto di crescente militarizzazione delle società europee: censura sistematica, repressione del dissenso, limitazione delle libertà di espressione, persecuzione delle voci critiche.
L’apice di questa trasformazione si è forse raggiunto con la decisione della Corte costituzionale rumena, nel dicembre 2024 – con il pieno sostegno dell’establishment UE-NATO – di annullare i risultati del primo turno delle elezioni presidenziali, che avevano visto la vittoria del candidato indipendente e critico della NATO Călin Georgescu, successivamente bandito dalla possibilità di concorrere alle elezioni, sulla base di presunte – ma mai dimostrate – interferenze russe.
Tutti questi episodi delineano, nel loro insieme, quella che molti osservatori hanno definito una radicale trasformazione dei sistemi liberaldemocratici in postdemocrazie autoritarie. In queste nuove configurazioni di potere, le élite non si accontentano più di indirizzare l’esito dei processi elettorali attraverso la manipolazione mediatica, la censura, la strumentalizzazione giudiziaria, le pressioni economiche o le operazioni di intelligence: quando questi strumenti si rivelano insufficienti, sono ormai disposte a sospendere anche le strutture formali della democrazia, comprese le elezioni stesse. Come scrive Botta, siamo di fronte a una crisi così profonda della democrazia liberale, e a una sua regressione oligarchica così estrema, che si può parlare di «una sorta di ripristino dell’assolutismo antecedente alla realizzazione dello stato di diritto», che egli definisce neo-assolutismo:
La crisi della democrazia liberale, ormai evidente in tutto il mondo occidentale, si esprime nella marginalizzazione della politica e della sovranità popolare. Ciò ha comportato una forte marginalizzazione di tutte le componenti tipicamente democratiche che includono parlamenti, partiti, leader politici ecc., relegando il “dibattito»”pubblico soprattutto sugli schermi televisivi. La vanificazione della democrazia nei suoi principi basilari e la connessa politica televisiva sono espressione di un effettivo ritorno ad alcuni caratteri che erano tipici dello stato nel periodo delle monarchie assolute.
Il concetto di neo-assolutismo si collega a quello dello stato di eccezione, formulato da Carl Schmitt, per significare il fatto che le democrazie occidentali ricorrono sempre più frequentemente a una sospensione delle garanzie costituzionali e democratiche per imporre scelte che i canali normali della politica popolare non potrebbero garantire efficientemente e velocemente, non permettendo modifiche profonde nel modo di vivere e di interagire nella vita democratica di routine.
L’analisi dell’autore, però, si differenzia da quella di Schmitt per il fatto che, come ha sottolineato anche Giorgio Agamben, lo “stato di eccezione” è ormai diventato una condizione permanente degli Stati occidentali. Il che, ovviamente, rappresenta un paradosso: se è permanente non è più, per definizione, uno stato di eccezione. Ma l’autore va oltre: lo stato di eccezione permanente non rappresenta una particolarità della fase attuale – e nemmeno, come sostengono taluni, dell’era iniziata qualche decennio fa con l’avvento della controrivoluzione neoliberale – ma rappresenta una caratteristica fondamentale di ogni Stato, anche nelle sue declinazioni liberaldemocratiche.
In altre parole: lo “Stato democratico” è sempre stato assolutista, anche se – per un breve periodo della sua esistenza – ha concesso, o meglio è stato costretto a concedere, più democrazia relativamente a oggi. Detto diversamente: l’attuale fase “postdemocratica” non rappresenta una rottura radicale rispetto a un passato “realmente democratico”, ma rappresenta piuttosto un disvelamento, una radicalizzazione di una realtà che è sempre esistita.
Per comprendere appieno la portata di questo concetto, è utile partire da un punto fondamentale: la democrazia liberale occidentale, anche nella sua accezione più minimale – ossia come sistema di governo rappresentativo basato sul suffragio universale – è un fenomeno storicamente molto recente. Contrariamente a quanto spesso si dà per scontato, essa esiste da meno di un secolo nella sua forma compiuta. Il suffragio universale maschile è stato introdotto, in un numero limitato di Paesi, solo tra la fine del diciannovesimo e l’inizio del ventesimo secolo, prevalentemente negli Stati Uniti, in Europa e in alcuni Paesi del Commonwealth.
Ma persino in questi contesti, la traiettoria è stata tutt’altro che l neare: in diverse nazioni europee tale diritto è stato sospeso per anni durante i regimi fascisti e nazisti. Quanto al suffragio femminile, esso è stato generalmente riconosciuto solo poco prima o subito dopo la seconda guerra mondiale. E in molti casi – come negli Stati Uniti – il diritto di voto per le minoranze razziali, in particolare per la popolazione nera, è stato effettivamente garantito solo diversi decenni più tardi.
Dunque, la democrazia – non nel senso idealizzato della polis greca, ma nel significato che le attribuiamo oggi: un sistema in cui, almeno in linea di principio, ogni cittadino ha il diritto di voto indipendentemente da ricchezza, proprietà, razza o classe sociale – è un fenomeno che esiste solo da pochi decenni. Prima di allora, la “democrazia” era appannaggio esclusivo delle classi proprietarie e dei ceti abbienti; le masse popolari, i lavoratori, ne erano sistematicamente esclusi. Questa prospettiva di lungo periodo, che colloca la democrazia formale all’interno di un arco temporale ristretto e tutt’altro che lineare, tende spesso a essere dimenticata nelle discussioni sull’attuale stato della democrazia. Ecco dunque il primo punto da sottolineare: la democrazia, anche solo nella sua dimensione procedurale, è un’esperienza storicamente molto recente.
Ma naturalmente, quando parliamo di democrazia, intendiamo qualcosa di ben più sostanziale del solo atto di votare – altrimenti non avrebbe senso discutere oggi di una “crisi della democrazia”, considerando che le istituzioni formali del sistema democratico (partiti, elezioni, parlamenti) continuano, almeno formalmente, a esistere, per quanto sempre più svuotate e minacciate. La maggior parte delle persone intende la democrazia non solo come la possibilità di esprimere un voto ogni tot anni, ma come la capacità effettiva dei cittadini di partecipare alla vita politica, economica e sociale del proprio Paese.
Una democrazia reale implica che i cittadini possano influenzare l’indirizzo del governo e contribuire a definire l’agenda politica, soprattutto sulle questioni fondamentali – economiche, sociali, culturali – che strutturano la vita collettiva. In altre parole, democrazia significa poter incidere sul modello stesso di organizzazione della società, e non limitarsi a operare ai margini del sistema o a scegliere, a intervalli regolari, tra opzioni politiche preconfezionate e spesso indistinguibili.
Quella di cui parliamo è ciò che potremmo definire democrazia sostanziale, in contrapposizione alla mera democrazia formale. Ed è proprio da questa prospettiva che la questione si complica notevolmente. Perché, pur potendo ancora (almeno per ora) esprimere il nostro voto, molti sarebbero probabilmente d’accordo nel riconoscere che la nostra capacità reale di incidere sugli esiti politici è estremamente limitata. Le decisioni fondamentali sembrano spesso già prese altrove, da forze che operano dietro le quinte:poteri economici, burocrazie permanenti, apparati di sicurezza, organismi sovranazionali.
A questo punto, però, la domanda inevitabile è: questa forma di “democrazia reale” è mai esistita? Nel corso della pur breve parabola storica della democrazia liberale occidentale, abbiamo mai conosciuto un momento in cui la volontà popolare sia riuscita a determinare in modo sostanziale l’orientamento delle politiche pubbliche?
Naturalmente, la risposta dipende in larga parte da come definiamo “democrazia sostanziale”. Ma se la intendiamo come la possibilità, per le classi popolari, di influenzare attivamente e in modo strutturale la direzione della vita collettiva, allora mi azzarderei che no, non abbiamo mai conosciuto una vera democrazia sostanziale nel senso di una partecipazione popolare capace di determinare in modo diretto e sistematico gli esiti politici. Tuttavia, per un periodo relativamente breve – all’incirca tra gli anni Quaranta e gli anni Settanta – abbiamo conosciuto una forma di democrazia decisamente più sostanziale di quella che esiste oggi.
Nel corso di quel trentennio, molte economie industrializzate adottarono politiche che combinavano l’impianto capitalistico con principi e strumenti propri della socialdemocrazia: redistribuzione del reddito, espansione dello Stato sociale, tutela del lavoro, investimenti pubblici, partecipazione sindacale. È il periodo che viene comunemente descritto come “età d’oro del capitalismo” e che, da taluni, è spesso evocato con nostalgia come l’epoca della “vera democrazia” – quella che, secondo molti, sarebbe andata perduta a partire dagli anni Ottanta, con l’affermazione del paradigma neoliberista.
A prescindere dal fatto che si consideri o meno quel periodo come un’espressione autentica di “vera democrazia”, è indubbio che si sia trattato di un momento storico in cui le masse popolari conquistarono un’influenza sull’agenda politica senza precedenti. Per la prima volta nella storia, le classi lavoratrici furono integrate nei sistemi politici occidentali in modo strutturale e continuativo. In Europa, questo processo si concretizzò soprattutto attraverso l’azione dei grandi partiti di massa, in particolare quelli di matrice socialdemocratica, socialista e comunista, sostenuti da sindacati forti e radicati, capaci di esercitare un’influenza reale sulle politiche pubbliche.
Questo processo consentì alle classi lavoratrici di esercitare un’influenza significativa sull’agenda politica, contribuendo a un’ampia espansione dei diritti sociali, economici e civili, in un contesto di forte politicizzazione delle masse. Rispetto alla situazione odierna, si trattava indubbiamente di un sistema più democratico, almeno in termini sostanziali. Tuttavia, è fondamentale non perdere di vista un elemento cruciale: anche accettando questa premessa, parliamo pur sempre di un fenomeno storicamente breve e geograficamente circoscritto: un trentennio, grosso modo, in un ristretto gruppo di Paesi industrializzati dell’Occidente.
Detto ciò, come suggerisce Botta, non bisogna nemmeno cadere nella tentazione di idealizzare eccessivamente quel periodo. È fondamentale riconoscere che anche allora la democrazia, nella sua accezione sostanziale, rimaneva fortemente limitata. Sebbene le élite al potere si siano trovate costrette – sotto la pressione dei movimenti popolari, della Guerra Fredda e del timore di rivolte sociali – a estendere il diritto di voto e a riconoscere una serie di diritti politici e sociali, non lo fecero certo di buon grado. Al contrario, furono spesso animate dal timore che l’ingresso delle masse nel processo democratico potesse tradursi in una minaccia reale per l’ordine sociale costituito, ovverosia che i lavoratori usassero la democrazia per sovvertire i rapporti di potere.
Per questo motivo, accanto alle concessioni, furono introdotti – o mantenuti – una serie di vincoli, limiti istituzionali e dispositivi di contenimento volti a contenere o neutralizzare il potenziale trasformativo della partecipazione popolare. Il suffragio universale fu così accompagnato da meccanismi politici, economici e culturali pensati per arginare l’impatto della democrazia sostanziale e garantirne un controllo dall’alto.
Ad esempio, i moderni sistemi costituzionali – compresi, nel caso dell’Europa occidentale, gli assetti quasi-costituzionali di natura sovranazionale (come nel caso della Corte di giustizia europea, istituita già nel 1952) – posero limiti ben definiti alla sovranità popolare, ovvero a ciò che può essere deciso democraticamente attraverso il voto. Questo avvenne, tra le altre cose, “costituzionalizzando” certe regole economiche, sottraendole di fatto al dibattito politico; oppure attribuendo ampi poteri alle corti costituzionali, incluse – in alcuni Paesi – prerogative straordinarie come quella di sciogliere i parlamenti.
Contrariamente alla retorica secondo cui tali meccanismi sarebbero serviti a “difendere la democrazia da se stessa”, la loro funzione storica è stata un’altra: tutelare gli interessi della classe dominante dalla “minaccia” della democrazia, impedendo che l’eventuale volontà popolare potesse tradursi in trasformazioni sostanziali degli assetti di potere esistenti.
Alcuni Paesi si spinsero anche oltre in questa logica di contenimento della sovranità popolare. Un caso emblematico è quello della Germania federale del dopoguerra, fondata esplicitamente sull’idea che “la democrazia di massa è intrinsecamente pericolosa” – un principio giustificato dal fatto che Hitler era giunto al potere, almeno in parte, attraverso un processo elettorale. Su questa base fu introdotto il concetto di “democrazia militante”, secondo cui la democrazia deve poter difendersi anche sospendendo, in casi estremi, i propri stessi principi.
In sostanza, lo Stato acquisisce ampi poteri per intervenire nel processo democratico ogniqualvolta ritenga che le masse possano portarlo fuori rotta. Nella pratica, ciò legittimò misure come la messa al bando di partiti politici – in particolare il Partito comunista tedesco – e la limitazione dei diritti politici individuali, giustificate dalla necessità di proteggere l’ordine democratico da presunti “nemici interni”.
Ma il caso tedesco non fu affatto isolato. A partire dagli anni Sessanta, in tutti i principali Paesi occidentali, le istanze di maggiore democratizzazione dell’economia e della politica – avanzate da movimenti operai, studenteschi e popolari – furono sistematicamente contenute, neutralizzate o apertamente represse. Laddove la partecipazione politica dal basso rischiava di mettere in discussione gli equilibri consolidati, le élite reagirono con una combinazione di repressione poliziesca, delegittimazione mediatica e riassetto istituzionale, al fine di riaffermare il controllo sul processo decisionale e impedire che la democrazia si estendesse a sfere considerate “intoccabili”, come quella economica.
Allo stesso tempo, gli “Stati profondi” occidentali – composti da apparati militari, di intelligence e di sicurezza – esercitavano già allora un’influenza significativa dietro le quinte, generalmente sotto la direzione strategica degli apparati di sicurezza statunitensi. Questa influenza si manifestò, per esempio, attraverso una serie di operazioni clandestine, che includevano anche attività di destabilizzazione e, in alcuni casi, vere e proprie azioni terroristiche, generalmente orientate a contenere l’ascesa delle forze di sinistra.
In Europa, il caso più noto è quello di Gladio, una rete paramilitare segreta sotto l’egida della NATO, coinvolta in numerose attività occulte – inclusi attentati attribuiti a gruppi della sinistra radicale – con l’obiettivo di creare un clima di paura e giustificare misure repressive. In alcuni casi, queste operazioni sono state collegate anche a omicidi politici di alto profilo, contribuendo a orientare l’opinione pubblica e l’agenda politica in senso conservatore e anticomunista.
Dunque, fin dai primi giorni della moderna democrazia liberale, le classi dirigenti hanno operato attivamente per delimitare il campo della democrazia entro i confini di una politica considerata accettabile. Questo è avvenuto sia in modo aperto – attraverso la repressione dei movimenti operai, studenteschi e popolari – sia in modo più occulto, tramite campagne di infiltrazione, disinformazione e, in casi estremi, azioni violente e persino assassinii politici.
Detto ciò, è innegabile che il secondo dopoguerra abbia rappresentato un momento straordinario di espansione dei diritti economici, sociali e civili per le masse popolari. Ma questa conquista non fu il frutto di una benevola concessione dall’alto: fu resa possibile da un insieme di condizioni storiche molto particolari. Tra queste: il trauma collettivo provocato dalla guerra; la pressione esercitata dalla sfida sistemica posta dall’Unione Sovietica; il radicamento delle ideologie socialiste e comuniste; e, soprattutto, la forza organizzata del lavoro, incarnata da sindacati potenti, partiti di massa e una rete capillare di organizzazioni di base, in grado di esercitare un’effettiva pressione sul potere politico.
Per un certo periodo, il potere delle masse organizzate riuscì effettivamente a contenere, più di quanto fosse mai accaduto prima, la forza organizzata dell’oligarchia. Tuttavia, questo equilibrio era strettamente legato a specifiche condizioni economiche e sociali: l’esistenza di grandi concentrazioni industriali, economie fortemente incentrate sulla manifattura e forme di lavoro relativamente omogenee e sindacalizzabili.
A partire dagli anni Settanta, queste condizioni iniziarono a sgretolarsi, per cause in parte strutturali (legate ai processi di deindustrializzazione e globalizzazione), in parte politiche (legate all’offensiva neoliberale). Il punto decisivo, però, è che da quel momento abbiamo assistito a una graduale polverizzazione della classe operaia come soggetto politico unificato, con conseguente indebolimento della sua capacità di incidere sull’agenda politica.
Questo processo ha aperto la strada a una vera e propria controrivoluzione dall’alto, volta a smantellare le conquiste, pur parziali, ottenute dalle masse nei decenni precedenti. È questa la logica profonda del progetto neoliberista, che si configura fin dall’inizio come un tentativo deliberato di espellere le masse dal processo politico. Un documento emblematico in questo senso è La crisi della democrazia, pubblicato nel 1975 dalla Commissione Trilaterale. In quel testo, la “crisi” non viene interpretata come una carenza di democrazia, bensì come un suo eccesso, cioè una partecipazione popolare troppo ampia, considerata destabilizzante per l’ordine liberale. La soluzione proposta era una sistematica de-democratizzazione dei processi decisionali.
Questo obiettivo fu perseguito su più fronti: alimentando l’apatia politica, anche attraverso il consumismo e l’intrattenimento privatizzato; ma soprattutto isolando le leve del potere reale dalle pressioni democratiche, attraverso il trasferimento di prerogative politiche a organismi internazionali, sovranazionali e tecnocratici. Come già detto, il caso più estremo – e paradigmatico – è quello dell’Unione europea, emblema di una governance postdemocratica sottratta al controllo dei cittadini. Il risultato è stato un processo di radicale de-democratizzazione delle società occidentali, che ha svuotato la democrazia dei suoi contenuti sostanziali, riducendola a pura liturgia procedurale.
Questo lungo processo di depoliticizzazione ha finito per generare un contromovimento sotto forma di una crescente domanda di ripoliticizzazione, esplosa soprattutto dopo la crisi finanziaria del 2008. È in quel contesto che hanno iniziato a emergere le prime grandi rivolte populiste del nuovo secolo: dalla Brexit all’elezione di Trump, fino ai gilet gialli in Francia. Si è trattato di un tentativo spontaneo e disorganico delle masse di rientrare nel campo della politica, dopo decenni di esclusione sistematica.
Di fronte a questa reazione popolare, l’establishment ha risposto con un contraccolpo particolarmente duro, sia in termini repressivi che ideologici. In questo senso, si può interpretare la pandemia da Covid-19 – al di là della sua natura epidemiologica – come un “evento strutturale profondo” che ha accelerato e giustificato un rafforzamento ulteriore dei meccanismi di controllo politico e sociale. È come se la pandemia abbia fornito l’occasione perfetta per consolidare una tendenza già in atto: l’accentramento autoritario del potere sotto l’egida di un blocco oligarchico-tecnocratico.
Questo contraccolpo ha condotto a un’ulteriore restrizione dello spazio democratico, non solo in senso sostanziale – cioè nella capacità effettiva dei cittadini di incidere sulle decisioni – ma, come detto, sempre più anche in senso formale e procedurale. Tuttavia, le élite non possono spingersi fino in fondo nell’eliminazione della democrazia, perché è proprio il suo simulacro a fornire loro la legittimità necessaria per governare.
È questa la contraddizione centrale del nostro tempo: da un lato, il potere dell’oligarchia, dello Stato profondo e delle istituzioni sovranazionali appare oggi senza freni, poiché l’unico vero limite che lo aveva contenuto – la politica di massa – è stato smantellato; dall’altro lato, le strutture democratiche non possono essere del tutto abbandonate, e dunque le elezioni rappresentano ancora un problema, una possibile fonte di instabilità. Da qui nasce la necessità, per le élite, di intervenire sempre più energicamente per indirizzare il processo elettorale verso esiti “accettabili”, soprattutto nel contesto europeo, dove il rischio che emergano opzioni politiche non allineate è sempre più percepito come una minaccia sistemica.
È in questo contesto che si spiega, in larga parte, il fallimento della politica populista e “antisistema” contemporanea. In assenza di partecipazione popolare organizzata e di un radicamento nel potere materiale ed economico della classe lavoratrice, questi movimenti possono spingersi solo fino a un certo punto. Le elezioni possono concedere loro una parvenza di potere, una legittimità formale, ma senza una forza sociale alle spalle, le loro azioni restano spesso limitate a slogan retorici e gesti simbolici.
Senza un blocco sociale organizzato a sostenerli, non possiedono la leva strutturale necessaria per attuare trasformazioni reali, né per sfidare efficacemente gli assetti di potere consolidati. Privati di un supporto materiale e organizzativo, vengono facilmente neutralizzati, cooptati o marginalizzati, soprattutto di fronte alla reazione coordinata delle istituzioni e delle élite.
In sintesi, il futuro della politica democratica in Occidente appare decisamente cupo. Le condizioni materiali, sociali e geopolitiche che avevano reso possibile il breve interludio di democrazia sostanziale nel secondo dopoguerra sono ormai venute meno, e difficilmente si ripresenteranno nel breve periodo. In questo senso, si potrebbe affermare che la democrazia – almeno nella sua forma più compiuta e “reale”, nella misura in cui è mai esistita veramente – è morta, e non può essere semplicemente rianimata riproponendo formule del passato. È una realtà con cui dobbiamo confrontarci lucidamente.
Ma questo non significa che ogni speranza sia perduta. La storia non è mai scritta una volta per tutte, e proprio nei momenti di crisi più profonda si aprono, talvolta, le condizioni per nuove possibilità politiche, a patto di saperle riconoscere e di avere la volontà di organizzarle.
Il progressivo disfacimento dell’ordine geopolitico che ha sostenuto per decenni il dominio occidentale sta producendo un cambiamento profondo negli equilibri di potere globali, con conseguenze rilevanti sulla capacità delle élite occidentali di preservare il proprio controllo interno. Per oltre mezzo secolo, questo ordine – fondato sulla supremazia militare, sull’egemonia economica e su un’imponente influenza culturale – ha consentito alle potenze occidentali, guidate dagli Stati Uniti, di imporre la propria visione del mondo e di schermare le proprie strutture di potere da contestazioni sostanziali.
Ma oggi, l’avanzare di un mondo multipolare – segnato dall’ascesa della Cina, dal rafforzamento dei BRICS e dall’allineamento crescente del Sud globale contro l’unilateralismo occidentale – sta erodendo le fondamenta stesse di quell’ordine egemonico, minandone l’autorità e aprendo scenari nuovi e imprevedibili.
Questo mutamento epocale sta incrinando seriamente il potere delle élite occidentali, il cui dominio si è a lungo fondato su una duplice strategia: la proiezione esterna del potere e la repressione interna del dissenso, esercitate attraverso sofisticati apparati economici, politici e mediatici. Ma in un contesto globale in rapida trasformazione, l’efficacia di questi strumenti appare sempre più logorata, e le élite si trovano costrette ad affrontare una pressione crescente per ridefinire le proprie strategie di legittimazione e di dominio.
L’erosione dell’influenza globale occidentale compromette la capacità delle sue élite di imporre paradigmi economici e modelli ideologici fuori dai propri confini, mentre sul piano interno serpeggia un malcontento diffuso, alimentato da disuguaglianze strutturali sempre più visibili e dal fallimento della governance (post-)neoliberale. In questo contesto, il tramonto del “momento unipolare” seguito alla Guerra fredda non solo indebolisce la capacità delle élite occidentali di proiettare la loro egemonia su scala globale, ma mette anche a nudo le fragilità strutturali dei loro assetti interni. Le ondate populiste e i movimenti antiestablishment che hanno attraversato l’Occidente nell’ultimo decennio e mezzo – seppur contenuti, cooptati o repressi – sono la manifestazione visibile di contraddizioni più profonde, insite nell’architettura postdemocratica che regge questi sistemi.
Venuta meno la stabilità geopolitica e il predominio economico che per decenni hanno attutito o nascosto tali tensioni, le élite occidentali si trovano ora esposte a sfide per le quali appaiono sempre meno attrezzate, non solo sul piano della legittimità, ma anche su quello della capacità di gestione politica e sociale.
Questo disfacimento apre potenzialmente lo spazio per l’emergere di un nuovo ordine che potrebbe andare ben oltre una semplice riconfigurazione del potere geopolitico: potrebbe segnare l’inizio di una reinvenzione radicale dei sistemi politici ed economici nel loro complesso. Mentre le élite occidentali arrancano di fronte all’erosione della propria egemonia, si intravedono margini di possibilità per l’affermazione di visioni alternative della governance e della democrazia. Una simile trasformazione, però, non è affatto garantita.
Il crollo del vecchio ordine, da solo, non basta: data la scarsa fiducia che, all’avviso di chi scrive, possiamo riporre nella capacità e volontà di autoriforma delle classi dirigenti, o degli stessi apparati statali, occidentali, sarà determinante la capacità di far emergere una nuova soggettività politica, capace di elaborare, organizzare e attuare una nuova politica popolare. Una soggettività che dovrà agire in condizioni inedite, segnate dall’assenza di quei quadri organizzativi forti e coerenti – partiti di massa, sindacati radicati, ideologie strutturate – che nel secolo scorso avevano rappresentato il veicolo principale di una forma comunque relativa e condizionata di contropotere popolare.
Questo nuovo inizio richiederà un ripensamento radicale non solo del modo di fare politica, ma anche dello stesso concetto di democrazia, andando oltre le forme svuotate e rituali della democrazia liberale. Sarà necessario liberarsi da molti pregiudizi teorici e pratici, coltivati dentro un orizzonte che oggi si è fatto insufficiente, e aprirsi a nuove categorie analitiche, nuove forme di organizzazione e nuovi immaginari politici. In questo percorso, il libro di Paolo Botta rappresenta un prezioso punto di partenza: non solo per le sue riflessioni sui limiti della democrazia liberale, ma anche per l’attenzione che dedica allo studio dei modelli alternativi a quello liberalcapitalista occidentale, non meramente sul piano teorico ma anche e soprattutto su quello realmente esistente. Da qui il sottotitolo del libro, Capitalismo, democrazia e socialismo nel XXI secolo.
In particolare, Botta si concentra sulla Cina come alternativa rispetto al modello occidentale, non solo sul piano economico e politico, ma anche come modello alternativo di democrazia. Secondo l’autore, il sistema cinese non è riconducibile al capitalismo neoliberale occidentale. Sebbene esistano elementi di economia di mercato, la Cina è vista come una forma di “socialismo prospettico”: un modello ibrido e in transizione che conserva un forte ruolo dello Stato nell’economia, nel controllo dei capitali e nella pianificazione strategica. In contrapposizione al modello occidentale, in cui lo Stato è spesso subordinato alle logiche di mercato, il sistema cinese afferma con forza la sovranità dello Stato. Il Partito comunista cinese viene interpretato come una “costituzione vivente” che permea lo Stato e ne orienta la strategia, assicurando stabilità, sviluppo e coesione sociale.
Botta propone l’idea che in Cina sia in atto a tutti gli effetti una forma originale di democrazia, diversa da quella liberale. In questo modello, il dialogo tra Stato, Partito comunista e forme di partecipazione dal basso (soprattutto a livello locale e regionale) costituisce una struttura di democrazia funzionale. Tale sistema ha portato a risultati concreti: eliminazione della povertà estrema, miglioramento delle condizioni di vita e salari, avanzamento scientifico e tecnologico. Questo modello, secondo Botta, riduce la separazione tra Stato e società civile che esiste nel modello occidentale, grazie all’identificazione tra Partito, Stato e popolo, permettendo una maggiore coerenza strategica e stabilità.
In sintesi, l’autore propone la Cina come un paradigma alternativo sia al neoliberismo occidentale sia alla democrazia liberale rappresentativa, enfatizzando il ruolo centrale dello Stato, l’interazione virtuosa con il partito e la capacità di rispondere efficacemente alle sfide socioeconomiche, delineando una forma di democrazia postliberale con caratteristiche cinesi. Ovviamente, Botta è consapevole del fatto che il modello cinese non è replicabile sic et simpliciter in un contesto occidentale, né lo auspica; il punto è capire in che misura è possibile operare una sintesi tra i due modelli, per arrivare a quello che potremmo definire un neo- socialismo del XXI secolo con caratteristiche occidentali.
In ultima analisi, il libro di Botta si distingue non solo per la profondità della sua analisi teorica, ma soprattutto per il coraggio con cui interroga le fondamenta stesse dell’ordine politico contemporaneo e per la lucidità con cui individua le strutture di potere reale. Un contributo fondamentale per chi voglia ripensare la politica – e l’idea stessa di Stato e di democrazia – alla luce delle sfide del presente.
Comments
Al contrario, desterebbe, probabilmente, maggiore perplessità, ogni atteggiamento che sconfinasse in qualche forma idealistica di interpretazione e rappresentazione dello stato, come tende a fare la bolsa retorica e propaganda dei dominanti, adottata peraltro dalla sinistra degenerata nel fascismo.
Infatti lo stato si definisce concretamente in rapporto al sistema di espropriazione di plusvalore, di generazione e appropriazione del surplus e di interazioni nell’ambito della struttura di rapporti di classe e sociali.
La Golden Age, particolarmente in Italia, fu caratterizzata da un sistema politico e partitico parlamentare dotato di una robusta capacità di rappresentare le classi inferiori e forza intellettuale e decisionale per proporre indirizzi politico economici e per plasmare, entro certi limiti, la macchina burocratica statale, (che, come osservò Gramsci, fu in qualche modo il vero sostegno del fascismo, dietro al clown Mussolini).
Da ciò sorse lo straordinario sviluppo economico, basato sulla consapevole adozione di un capitalismo marxiano kaleckiano.
Il colpo di stato del 92 e più in generale il paradigma neoliberale fascista studiato e imposto a partire dagli 70, ha avuto come scopo quello di ridefinire il ruolo della politica e dello “Stato” secondo gli interessi della classe dominante.
Non è che lo “Stato” abbia perso potere, anzi, ma i suoi poteri li esercita per sostenere e tutelare il capitalismo finanziario di estrazione di rendita e per favorire il maggior afflusso possibile di risorse finanziarie nelle mani di pochissimi privati. Non vi è stata resistenza di classe a livello parlamentare, né opposizione sociale, soprattutto per il fatto che la sinistra è diventata macchina di promozione del fascismo neoliberale e “macchina statale” operativa in quel senso.