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Finanza e Difesa: le due bolle che intrappolano l'Europa (e i conti pubblici dell'Italia)

di Alessandro Volpi

Il titolo di Oracle, in una sola seduta di Borsa, ha guadagnato il 40%, portando la capitalizzazione della società non lontana dai 1.000 miliardi di dollari. Era già salito del 45% nelle giornate precedenti. Da che cosa è dipesa una simile impennata? I numeri reali parlano di un fatturato di 57 miliardi di dollari, quattro in più rispetto al 2024 e di un utile netto di 12 miliardi, due in più dell'anno precedente. Numeri importanti, dunque, ma che forse non giustificano un'esplosione come quella registrata in pochissime sedute, su cui hanno pesato molto, invece, la sempre più stretta vicinanza a Trump e alle commesse del Pentagono, l'iniezione di liquidità dei fondi e l'accordo, poi annunciato, con OpenAI, che segna una sorta di cartello dell'Intelligenza artificiale che va da Larry Ellison a Peter Thiel, da BlackRock alla presidenza Trump e al suo progetto "Stargate".

Si tratta di una bolla finanziaria costruita sulla narrazione che gli Stati Uniti intendano puntare il proprio futuro sull'Intelligenza artificiale legata in primis alle strategie del Pentagono in antitesi all'affermazione cinese. La finanza guadagna sull'ipotesi di un conflitto tecnologico tra Usa e Cina: i beneficiari di tale scontro sono evidenti. Il principale azionista di Oracle è come detto Larry Ellison, con il 40%, che non a caso in due giorni è diventato l'uomo più ricco del mondo, seguito da BlackRock, Vanguard e State Street, proprietarie del 15% circa.

L'altra bolla è ancora più pericolosa perché si lega ai fortissimi venti di guerra europei. I droni russi diventano, in tempo reale, il ritorno del 1914, secondo un racconto mediatico e politico dai toni esasperati, e in poche ore tutti i titoli delle società che producono armi si impennano: Rheinmetall, Hensoldt, Bae Systems, Boeing, Leonardo, Lockheed Martin e Raytheon, una raffica di aumenti in grado di fare la gioia, di nuovo, dei grandi fondi e dei maggiori azionisti. Intelligenza artificiale e armi segnano così i confini del capitalismo finanziario dei grandi fondi e dei grandi azionisti, che hanno bisogno vitale di drammatizzare le tensioni geopolitiche.

In quest'ottica i droni militari sembrano destinati a essere uno dei più grandi affari dei prossimi mesi. Forse non a caso. Quali sono infatti le principali imprese che li producono? Procedendo a una cernita molto sommaria se ne possono rintracciare sei di maggior rilievo. Le prime due, General Atomics Aeronautical Systems e Northrop Grumman, sono statunitensi e soprattutto nella seconda hanno un peso decisivo BlackRock, Vanguard e State Street. Due invece sono cinesi: China Aerospace Science and Technology Corporation e Aviation Industry Corporation of China, e sono di proprietà statale. Due sono israeliane: Israel Aerospace Industries ed Elbit, la prima è di proprietà statale e la seconda ha capitale misto israeliano e statunitense, con la presenza dei grandi fondi. Poi c'è la turca Baykar, di proprietà della famiglia Bayraktar.

Come in altri settori, dunque, è evidente la preminenza dei fondi americani e dello Stato cinese, con la presenza, importante della produzione israeliana che ha scelto di investire in un settore che rende difficili le sanzioni e i divieti di un'Europa sempre più militarizzata. Naturalmente l'Italia compra gran parte dei suoi droni dai produttori statunitensi.

Una simile cuccagna finanziaria ha però bisogno di costanti narrazioni destinate purtroppo per la grandissima parte della popolazione italiana a essere costose in termini sociali. Sul Corriere della Sera del 13 settembre è stato pubblicato un articolo a firma di Federico Fubini e di Antonio Polito che è un vero e proprio manifesto per il riarmo europeo. La tesi dei due autori è che non è vero che l'Europa spende troppo in armi e, anzi, dovrebbe investire di più. Naturalmente il termine di paragone è la Russia: anche se l'Europa spende 381 miliardi di euro ogni anno e la Russia circa 150 miliardi, in realtà questa differenza è solo apparente. In primo luogo, sostengono Fubini e Polito, perché le armi d'attacco costano meno di quelle per la difesa, ma soprattutto per altre due ragioni assai discutibili. La prima è contenuta in questa affermazione: "Dire che l'Europa spende di più della Russia in armi è come dire che gli Usa spendono di più in welfare della Svezia: in termini assoluti è ovviamente vero, ma l'affermazione è falsa". Davvero, si fa fatica a capire il senso del ragionamento: la spesa pubblica americana è insufficiente perché va commisurata al numero dei cittadini e delle cittadine americane che ne beneficiano, mentre la spesa militare non può essere certo divisa per il numero degli abitanti per misurarne l'efficacia o in relazione al Prodotto interno lordo (Pil) perché 381 miliardi sono ben oltre il doppio di 150 miliardi e dunque la disponibilità di risorse finanziarie verso il riarmo è decisamente più alta anche se si conteggia una parte di spesa militare che non va ad acquisto di armi in senso stretto. Disporre di 381 miliardi in un unico settore è una cifra enorme e la sua eventuale insufficienza non può essere calcolata in base alla numerosità della popolazione o sulla capacità di generare ricchezza.

La seconda "tesi" è altrettanto criticabile. In pratica, l'Unione europea dovrebbe spendere di più perché la Russia, con meno soldi, fabbrica più armi, e questo dipende dal fatto che dispone di grandi materie prime, di filiere produttive e di una tradizione militare. Ora, pare davvero incredibile pensare che a tutto questo si possa ovviare aumentando la spesa militare perché significherebbe, data la capacità russa di produrre a un prezzo quattro volte inferiore rispetto a quello europeo, portare la spesa militare a livelli tali da assorbire gran parte delle altre spese pubbliche degli Stati europei.

Intanto il ministro dell'Economia Giancarlo Giorgetti ha dichiarato, con un certo imbarazzo, che l'imminente Legge di Bilancio sarà assai diversa da come era stata immaginata dal governo. In altre parole, non ci saranno molte delle promesse meloniane: nessun taglio fiscale e, fortunatamente, nessuna nuova "rottamazione".

In pratica una riduzione di circa una decina di miliardi che vanifica una parte rilevante della narrazione favolistica dell'esecutivo. È molto interessante però sottolineare la ragioni, indicate dallo stesso Giorgetti, di questa "revisione" al ribasso delle promesse del governo. La prima è costituita dall'alto prezzo dell'energia che dipende, in primis, dalle forniture americane che, in maniera paradossale, lo stesso Governo Meloni si è impegnato ad acquistare. Trump vuole arrivare al 50% delle importazioni di gas in Europa proveniente dagli Stati Uniti e l'Italia deve assolvere al proprio compito.

La seconda è il costo dell'impegno militare che l'Italia dovrà sostenere nei prossimi mesi. In altre parole, energia dagli Usa e spesa per il comparto Difesa riducono qualsiasi possibilità di spesa pubblica alternativa. A ciò magari bisogna aggiungere anche un costo degli interessi sul debito in salita, data la crescita dei rendimenti di praticamente tutti i debiti europei e internazionali. La sudditanza agli Stati Uniti e la cecità europea impongono, di nuovo, sacrifici a cui, è probabile, il Governo Meloni supplirà con nuove privatizzazioni e con i dividendi delle società energetiche di cui è azionista, facendo cassa, di nuovo, con le magre risorse dei cittadini. Le bolle vanno sempre alimentate.

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