Non è solo umanitarismo: la Palestina come questione politica globale
di Dario Franco
Nei giorni della partenza della Global Sumud Flottilla[i] assistiamo, finalmente diremmo, alla rottura nel mainstream di una cappa insopportabile che da decenni difendeva lo Stato di Israele da tutte le sue malefatte. Non ci accostiamo a coloro che criticano questa operazione come un mero tentativo da parte dell’opinione pubblica occidentale di pulirsi la coscienza. Siamo consapevoli dello stato sopito in cui si sono trovate, soprattutto nel nostro Paese, le mobilitazioni a favore della causa palestinese e del nervosismo che trapela da parte dei sostenitori del sionismo e dei suoi rappresentanti istituzionali verso tutto ciò che critica o pone dubbi sulle azioni dello Stato di Israele.
Lontani dai numeri che si sono visti in città come Londra o Sydney, non possiamo non rallegrarci che in un Paese come l’Italia, dove il conflitto sociale è ai minimi storici, gran parte della popolazione sia informata su questa azione di lotta. La Freedom Flotilla Coalition da decenni si inserisce nel novero delle azioni di resistenza – in questo caso non violente – volte a dare luce all’opposizione palestinese e a sfidare quella narrazione opprimente che ci presenta Israele come unico baluardo democratico in Medio Oriente.
Attraverso una di queste missioni, alcuni attivisti – tra cui Vittorio Arrigoni – poterono raggiungere le coste di Gaza in anni in cui non vi erano i social media e gli smartphone non erano in possesso della maggior parte della popolazione mondiale.
Fummo testimoni, grazie ai suoi resoconti quotidiani sulle pagine de Il Manifesto e poi in un libro intitolato Restiamo umani[ii], di una delle tante operazioni di pulizia etnica: in quel caso la famigerata “Piombo Fuso”, che colpiva Gaza, la sua popolazione e soprattutto la sua resistenza.
Per questi motivi, viva la Global Sumud Flottilla e massimo sostegno a tutte quelle iniziative che si svolgeranno nei prossimi giorni in supporto alla sua azione volta a rompere l’assedio e il genocidio in corso a Gaza: a partire da quelle dei portuali di Genova, affiliati al collettivo CALP e al sindacato USB, passando per lo sciopero di tutto il Pubblico Impiego di un’ora sempre proclamato da USB, fino alle manifestazioni che si terranno a Udine, volte a far sì che la partita di qualificazione ai prossimi Mondiali di calcio tra la nazionale italiana e quella israeliana non venga giocata.
Al tempo stesso, sono anche i giorni in cui lo Stato coloniale di Israele prova a chiudere il cerchio del progetto sionista cominciato sul finire del XIX secolo[iii]. Sono di queste ore le affermazioni[iv], da parte del ministro israeliano Smotrich – in perfetto accordo con il governo di cui fa parte – di voler annettere l’82% della Cisgiordania (il cosiddetto piano E1). In parallelo, il rifiuto statunitense di concedere i visti ai rappresentanti istituzionali dell’Autorità Nazionale Palestinese[v] per partecipare alla prossima sessione dell’Assemblea delle Nazioni Unite conferma l’assenso, da parte dell’alleato/padre americano, alla definitiva conclusione della questione palestinese.
Le scioccanti rivelazioni del Washington Post[vi] circa i progetti futuri di ricostruzione della “famigerata” riviera di Gaza sono lì a dimostrarlo: un polo logistico-finanziario ad alta tecnologia, dove la presenza palestinese non è minimamente contemplata. Altro che soluzione finale, potremmo dire!
A chiusura del cerchio ci sono le operazioni di consolidamento da parte dell’IDF di nuove annessioni territoriali in Siria, approfittando della lunga e sanguinosa guerra civile che ha colpito il Paese, e le pressioni attuate in Libano per far sì che, in cambio di aiuti economici – in un Paese fortemente in crisi – i partiti della resistenza libanese, Hezbollah e Amal, che in questi anni sono stati importanti argini contro le stragi dello Stato sionista nel Paese dei cedri, depongano le armi. A ciò si aggiungono le lamentele, presentate in sede ONU, per far sì che si concluda la missione di peacekeeping dell’UNIFIL, nata nel 1978 per garantire il ritiro delle truppe israeliane dal sud del Libano.
Senza dimenticare la fragile tregua temporanea che regge nei confronti dell’Iran, dove – secondo molti analisti – quella dei “12 giorni” di guerra è stata solo un’anteprima.
Sbaglieremmo – ed è qui che vorrei soffermarmi – se dessimo la colpa di questa accelerazione dei processi alle sole frange della resistenza palestinese, alle loro scelte “scellerate” o, secondo la fantasia di qualche analista geopolitico, a decisioni prese in capitali straniere. Israele, fin dagli Accordi di Oslo – prima, durante e dopo – ha come obiettivo quello di controllare e annettere ciò che resta della Palestina storica. È evidente che il 7 ottobre non ha fatto altro che velocizzare processi già in corso.
Basta citare un rapporto di Save the Children[vii], in cui si attesta che il 2022 è stato l’anno in cui, in Cisgiordania, si è verificata una rapida espansione degli insediamenti coloniali, con un forte aumento degli attacchi contro i palestinesi, il cui prezzo più alto è stato pagato dai bambini: 34 morti. Dal 2006 non si registrava un numero così alto di minorenni uccisi in Cisgiordania. Una pulizia etnica e un processo di annessione coloniale che proseguivano in maniera strisciante, mentre a Gaza persisteva quel campo di concentramento denunciato dalle più importanti organizzazioni internazionali.
Parallelamente, avanzavano i processi di normalizzazione diplomatica tra Israele e i regimi arabi collaborazionisti, tra cui la stessa ANP, noti come “Accordi di Abramo”[viii].
Sarebbe un errore di giudizio non considerare che anche le dirigenze israeliane abbiano guardato con preoccupazione il ritiro americano dall’Afghanistan – con le immagini emblematiche della fuga dall’aeroporto di Kabul, il 15 agosto 2021 – il suo lento disimpegno dal Medio Oriente, i nuovi scenari di guerra aperti (in Ucraina) e silenziosi in altre aree del mondo (come l’Indopacifico e il Sud America), per non citare la nuova fase neoisolazionista – a parole – inaugurata dalla seconda amministrazione Trump.
C’era dunque qualche altro mezzo, magari pacifico, per far aprire gli occhi al mondo su ciò che stava accadendo in Palestina? I palestinesi ci hanno provato. Molti dimenticano, anche a sinistra, le manifestazioni pacifiche che si tennero a Gaza durante “La Grande Marcia del Ritorno” nell’aprile del 2018[ix]. Vere e proprie mobilitazioni da parte di giovani e non, abitanti di Gaza in tutte le loro componenti politiche, che – armati solo delle bandiere nazionali – sfidavano i cecchini israeliani nei pressi di quel muro della vergogna che chiude e affama i gazawi.
Quella protesta, raccontata anche nel documentario Erasmus a Gaza[x], si concluse con una mattanza di morti e feriti e con un’opinione pubblica sostanzialmente indifferente a ciò che accadeva.
Siamo così arrivati a quasi un anno dalla seconda “ricorrenza” del 7 ottobre 2023. Due anni di genocidio, pagati a caro prezzo dalle palestinesi e dai palestinesi, ma anche mesi di una resistenza armata che – in un territorio piccolo come quello della Striscia e di fronte a uno degli eserciti più tecnologici e avanzati al mondo – a oggi resiste e continua a vendere cara la pelle.
Va dato atto che simbolicamente i palestinesi sono riusciti a rompere quella narrazione d’acciaio israeliana secondo cui lo Stato di Israele aveva sempre il “diritto a difendersi”. Lo stanno pagando con il costo che tantissime altre popolazioni colonizzate, prima di loro, hanno pagato: vietnamiti, africani, indigeni americani e altri ancora ne sono la testimonianza.
È questo passaggio politico che, in primis, attivisti e militanti pro Palestina non devono dimenticare quando scendono in piazza e mettono in campo – per quanto possibile – azioni di mobilitazione alle nostre latitudini, tenendo conto anche dei violenti sistemi di repressione oggi presenti nei Paesi occidentali, che colpiscono tutti coloro che denunciano e protestano contro il genocidio.
Ce lo hanno detto sin dal primo momento, nei mesi immediatamente successivi all’ottobre 2023, le studentesse e gli studenti che – dai campus americani fino alle scuole italiane – protestavano da soli, venendo repressi ed etichettati come “antisemiti”.
La questione palestinese, che oggi sembra essere diventata una mobilitazione globale, non è quindi solo una questione umanitaria, come parte del mainstream vorrebbe raccontarla, ma racchiude in sé molti aspetti politici che determineranno nei prossimi tempi quali spazi di autodeterminazione e libertà potranno avere – in primis – i palestinesi, ma anche tutte e tutti coloro che combattono ogni giorno per un mondo più giusto, libero dallo sfruttamento e dal colonialismo.