Karl Marx e l'ebraismo
di Alberto Giovanni Biuso
C’è stato un tempo nel quale la critica all’ebraismo non era foriera di accuse di antisemitismo, di condanne morali e politiche assolute, persino di reato penale. Tale critica era della stessa natura delle critiche che è possibile rivolgere al cristianesimo, all’illuminismo, al comunismo e così via.
Poi è accaduto qualcosa, il Novecento, che ha fatto assurgere l’identità ebraica a principio intoccabile, pena la qualifica di infamia rivolta a quanti cercano di ragionare su una cultura antica e tuttora ben presente nella storia. Ragionare come si ragiona su qualsiasi struttura ed evento umano.
Prima di questa temperie dogmatica, furono molti gli studiosi, i filosofi, i politici, gli scienziati di origine ebraica a criticare in vario modo l’ebraismo. Karl Marx è tra questi. Il suo saggio Sulla questione ebraica, uscito sul primo e unico numero dei Deutsch-Französische Jahrbücher (Annali franco-tedeschi) del febbraio 1844 è in realtà una complessa riflessione sui rapporti tra l’emancipazione civile, vale a dire le rivoluzioni borghesi e liberali, e la rivoluzione sociale, identificata da Marx con la trasformazione dei rapporti di produzione tra borghesia e proletariato.
Uno dei fondamenti di tale analisi è la critica ai Diritti dell’uomo come essi erano stati enunciati e stabiliti dalle varie Costituzioni che si susseguirono nella Francia rivoluzionaria dopo il 1789. Si tratta di una critica che ha un carattere moralistico di fondo che ne compromette in parte la forza, riducendo la questione a una contrapposizione tra egoismo e socialità.
Ad esempio: «Nessuno dei cosiddetti diritti dell’uomo oltrepassa dunque l’uomo egoistico, l’uomo in quanto è membro della società civile, cioè individuo ripiegato su se stesso, sul suo interesse privato e sul suo arbitrio privato, e isolato dalla comunità» (Sulla questione ebraica, in Marx - Engels, Opere scelte, a cura di L. Gruppi, Editori Riuniti, Roma 1966, p. 96).
Una critica che si esprime in modo anche inquietante nel riferimento positivo al Contratto sociale di Rousseau e alla necessità, da Marx condivisa, di «changer la nature humaine» (p. 100). Si tratta di un riferimento pericoloso poiché la radice di molti stermini della storia contemporanea abita proprio in questo progetto impossibile e ultraidealistico di cambiare la natura umana, la quale - proprio perché è un fattore biologico - va riconosciuta, accolta, guidata e adattata per quanto è possibile, ma non può essere trasformata in altro, in qualcosa che non potrà mai diventare.
Quando invece entra nelle concrete strutture dei ‘diritti dell’uomo’ la critica marxiana si fa puntuale e plausibile. Marx nota infatti la rovinosa contraddizione che inerisce alla proclamazione teorica di tali diritti che viene capovolta poi nel loro contrario in nome della difesa dei diritti stessi. Un cortocircuito logico che si presenta identico nelle società contemporanee, che escludono in nome dell’inclusività, che inquinano in nome del green, che distruggono ambienti fisici e culture antropiche in nome della sostenibilità, che cancellano la libertà di scrittura ed espressione in nome, appunto, dei diritti.
Un esempio di tale controsenso logico e politico è quanto Marx scrive a proposito della libertà di stampa sotto il regime giacobino: «In effetti la sua prassi rivoluzionaria [della Rivoluzione francese] si trova in flagrante contraddizione con la sua teoria. […] Mentre la ‘liberté indefinie de la presse’ (Const. de 1793, art. 122) viene garantita come conseguenza del diritto dell’uomo alla libertà individuale, la libertà di stampa viene completamente annullata, dacché ‘la liberté de la presse ne doit pas être permise lorsqu’elle compromets la liberté publique’» (Robespierre jeune, Hist. parlam. de la réa. franc. par Bouchez et Roux, T. 28, p. 159; in Sulla questione ebraica, p. 97).
Sembra dunque che più di due secoli siano trascorsi invano nella mancata soluzione delle contraddizioni inerenti la questione dei diritti umani, in nome dei quali si colpiscono sia i concreti esseri umani sia intere comunità e culture.
Il tema dell’ebraismo è dunque analizzato da Marx all’interno della questione più generale dei diritti e dell’emancipazione. Su di essa il filosofo è molto netto. Attingendo ai testi anche teologici di Bruno Bauer, Marx stigmatizza l’identità troppo forte dell’ebraismo, un macigno che gli impedisce di entrare in rapporti non conflittuali con le altre culture, religioni, prospettive sul mondo; un’identità che rende impossibile la fecondità della differenza.
Marx ribadisce poi come cosa del tutto ovvia il pericolo estremo costituito dal fatto che gli ebrei rimangono sempre stranieri nei luoghi e nelle culture dove pure sono nati e vivono. E questo perché «l’ebreo rispetto allo Stato può comportarsi soltanto da ebreo, cioè come uno straniero rispetto allo Stato, poiché egli alla nazionalità reale contrappone la sua nazionalità chimerica, alla legge reale la sua legge illusoria, poiché egli si immagina autorizzato a isolarsi dall’umanità, poiché egli per principio non prende parte alcuna al movimento storico, poiché egli spera in un futuro che non ha nulla in comune con il futuro generale dell’uomo, poiché egli ritiene se stesso membro del popolo ebraico, e il popolo ebraico il popolo eletto. […] Alla fine, la sua essenza giudaica e limitata trionferà sempre sopra i suoi doveri umani e politici» (p. 76).
Ma la critica dell’ebreo Marx all’ebraismo non si ferma a queste posizioni pur così severe. Essa perviene infatti a tre concetti davvero molto, molto duri.
Il primo è costituito dall’identificazione dell’ebraismo con il culto del denaro, un culto che a partire dall’ebraismo ha pervaso l’intera società contemporanea: «Qual è il fondamento mondano del giudaismo? Il bisogno pratico, l’egoismo. Qual è il culto mondano dell’ebreo? Il traffico. Qual è il suo Dio mondano? Il denaro (pp. 103-104). Il denaro è il geloso Dio d’Israele, di fronte al quale nessun altro dio può esistere. Il denaro avvilisce tutti gli dèi dell’uomo e li trasforma in una merce. Il denaro è il valore universale, per sé costituito, di tutte le cose. Esso ha perciò spogliato il mondo intero, il mondo dell’uomo come la natura, del valore loro proprio. Il denaro è l’essenza fatta estranea all’uomo, del suo lavoro e della sua esistenza, e questa essenza estranea lo domina, ed egli l’adora» (p. 106).
Il secondo elemento è la stigmatizzazione del cristianesimo che si è progressivamente giudaizzato: «Il denaro per mezzo di lui e senza di lui è diventato una potenza mondiale, lo spirito pratico dell’ebreo è diventato lo spirito pratico dei popoli cristiani. Gli ebrei si sono emancipati nella misura in cui i cristiani sono diventati ebrei» (p. 104), tanto da pervenire alla tesi per la quale «il cristianesimo è scaturito dal giudaismo. Nel giudaismo esso si è nuovamente dissolto» (p. 108).
Il terzo elemento consiste nell’auspicio e nella necessità di emancipare sia gli ebrei sia la società dall’ebraismo (i corsivi sono di Marx): «L’emancipazione degli ebrei nel suo significato ultimo è la emancipazione dell’umanità dal giudaismo; L’emancipazione sociale dell’ebreo è l’emancipazione della società dal giudaismo» (pp. 104 e 109).
Quest’ultima affermazione è anche la chiusa del saggio, nel quale Marx enuncia a più riprese una tesi che vale ancor più per il presente rispetto alla situazione storica del 1844, vale a dire l’identità tra ebraismo e capitalismo statunitense. Uno dei passaggi più sintetici è il seguente: «La signoria pratica del giudaismo sul mondo cristiano ha raggiunto nel Nordamerica l’espressione non equivoca, normale» (p. 105).
Ancora una volta, dunque, le analisi di Marx costituiscono un fecondo contributo all’apprendimento delle radici e delle strutture profonde del XXI secolo.