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Ciò che precede

Appunti intorno a Finché la vittima non sarà nostra di Dimitris Lyacos

di Andrea Carnevale

 

La tempesta primordiale

L’Angelus Novus di Klee è per Benjamin la figura della storia che avanza inesorabile, sospinta dalla tempesta primordiale, e distrugge inevitabilmente ad ali spiegate ogni cosa. Il suo volto guarda all’indietro, capace solo di contemplare le macerie che si lascia alle spalle. Finché la vittima non sarà nostra pare evocare proprio questa figura. Pare soltanto però, perché l’Angelo della storia di Benjamin è una metafora, il nuovo libro di Lyacos —salvo che per un unico aspetto, su cui occorrerà tornare — no.

Il lettore inizia così a cercare nel caleidoscopio delle categorie letterarie quella, o quelle, entro cui poter inserire l’opera per riuscire a definirla: distopia, favola nera, opera mondo… Nomi della letteratura. Ma Finché la vittima non sarà nostra gli scappa via, è uno strano liquido che, appena lo si prova a versare in qualche contenitore letterario, si rapprende, si solidifica, si oppone.

Più facile allora concentrarsi sul contenuto. E qui non si può sbagliare: l’opera ha per oggetto e tema la violenza. Facile. No, difficile: quale violenza? Nelle diverse inquadrature, nell’autonomia (che non è indipendenza) dei capitoli, la violenza messa in scena da Lyacos (in un procedere assemblato che è insieme testimonianza e rappresentazione) progredisce infatti reinventando sé stessa: dal cannibalismo all’omicidio religioso, dalla guerra dall’esilio e dalla tortura fisica alla rarefatta coercizione della Legge, dalla disciplina carceraria e dall’isolamento al massacro industriale e al lavoro forzato.

Nelle sue metamorfosi, la violenza si adatta alle proprie vittime e gradualmente si fa più impercettibile, lasciando andare il corpo e prendendo possesso della mente, fino a presentarsi come forma “benigna” di controllo, come medicina che non infligge dolore ma pretende di alleviarlo: una violenza che non versa più sangue, ma si diluisce in esso.

Dunque l’oggetto del libro è indubitabilmente la violenza, ma il tema, forse, è ulteriore, se il procedere dei capitoli rappresenta le diverse mutazioni storiche dell’oggetto indagato: perché la violenza evolve, muta, si adatta, in quei precisi modi, in quelle precise forme? Questo è il tema del nuovo libro di Lyacos: la costruzione dell’opera lo impone come domanda sotterranea persistente, anzi, perenne e sempre preesistente, che spinge i capitoli come la tempesta primordiale l’Angelo di Benjamin.

Finché la vittima non sarà nostra indaga quel particolare carattere umano (un carattere universale, che può volgersi in forma positiva o negativa, nella verità o nella falsità, in ciò che è giusto e in ciò che è ingiusto) che chiamiamo potere, e in particolare il perché, nella nostra società occidentale, l’esercizio del potere sia progressivamente divenuto più anonimo, simile a un fenomeno naturale, in un processo di recessione dell’uomo in favore dell’avanzamento dell’apparato, cioè delle capacità di inventariare, registrare, organizzare, amministrare burocraticamente, in una parola: di economicizzare l’uomo, fino all’attuale dominio dell’algoritmo, (che tratta l’uomo nello stesso modo con cui la macchina tratta la materia da cui ricava i suoi prodotti).

 

Sequenze da un presente eterno

L’opera dà dunque accesso a declinazioni della violenza meno immediate, dimostrando così la vastità del suo potenziale. Per chi ha a che fare con i libri e con la letteratura, almeno due di esse appaiono rilevanti.

Finché la vittima non sarà nostra è innanzitutto un montaggio. Non è figura letteraria della metafora di Benjamin, perché se da una parte seleziona (con precisione chirurgica) alcuni punti — i punti secondari di importanza primaria, direbbe Heaney — dell’avanzata dell’Angelo (che molti si ostinano a chiamare “progresso”), dall’altro questo sguardo proviene al contempo anche dal basso: è sguardo dell’Angelo verso le proprie macerie, ma anche quello che le macerie gli restituiscono. Sguardi soggettivi che sulla pagina si alternano e convivono, montati in modo da restituire l’impressione di un’oggettività. Alla quale non si giunge per somma algebrica o per via metaforica. Alla quale non si giunge punto. Perché è un’oggettività che precede, da cui — consapevolmente l’autore, inconsapevolmente, per lo più, il lettore — si parte. Che non è l’esito ma la causa: montaggio come oggettività preesistente di un’oggettività preesistente, come forma e struttura di quella domanda sul potere che è il tema dell’opera.

In un contesto in cui, sospinta dalla tempesta di un’estetica del mero intrattenimento, la letteratura sta importando un modo di pensare e di immaginare proprio del cinema (in una sorta di lenta e progressiva resa a un linguaggio artistico altro, per lo svuotamento di senso del proprio), Lyacos introietta lo spirito dei tempi in maniera radicale, definitiva, assumendo la grammatica stessa del linguaggio cinematografico come grammatica letteraria: dalla parole alla langue.

La vittima diventata nostra, assorbita, è allora la letteratura stessa, per come è stata intesa in Occidente fino a oggi, e l’opera così configurata propone il dominio della funzione sulla scoperta, dell’autore sul lettore, che viene definitivamente sgravato da qualsiasi (residua) responsabilità sulla costruzione del senso dell’opera stessa. Fino al capitolo Z, l’ultimo, il libro di Lyacos è anche questo. Tanto che pare lecito chiedersi se l’opera sia effettivamente, ancora, letteratura.

La seconda declinazione afferisce alla lingua, perché nessuna lingua è innocente. In ogni scelta linguistica si sta escludendo (inevitabilmente) qualcosa. Da qui il valore antropologico della traduzione – ed è ad esso che occorre guardare per capire il perché Lyacos scriva in greco, ma pubblichi solo in traduzione. Ogni lingua esprime sé stessa anche e soprattutto in ciò che non può o non sa dire, nel suo non manifestarsi, nel suo silenzio. Ne deriva che anche la lingua può essere uno strumento di dominio sulla realtà, e dunque può diventare uno strumento violento, un esercizio della violenza del potere: può scegliere anche cosa silenziare, cosa obliare, cosa non voler rivelare sottraendolo al confronto con le altre “lingue”.

Per questo i capitoli di Finché la vittima non sarà nostra sono nominati (e qui sì che la scelta è metaforica) con le lettere dell’antico alfabeto latino, la prima lingua “imperiale” del nostro Occidente. Ma l’alfabeto è finito, l’impero ha usato ormai tutte le lettere. E infatti oggi viviamo un mondo in cui la lingua imperiale è l’algoritmo, un alfabeto numerico. Da questo punto di vista, la vittima è diventata nostra, è stata assorbita, dove la vittima è la comunicabilità tra individui, la traducibilità come condizione di possibilità per la conoscenza di sé stessi e del mondo, di sé stessi nel mondo. È il dominio della predizione sulla relazione, del calcolo sulla scoperta, del consumismo meccanizzato sull’invenzione del quotidiano, che viene definitivamente sgravato da qualsiasi (residua) responsabilità in relazione al domani, in un indistinto, impersonale, massificato eterno presente. Il libro di Lyacos è dunque anche la forma di questo presente eterno.

 

Chiudere il libro per riaprire la coscienza

Anche. Perché esiste Poena Damni. Perché gli preesiste Poena Damni: si è già usciti, con la gente dal ponte, da questa prima morte. Un altro mondo è pensabile, perché già esiste. Finché la vittima non sarà nostra è effettivamente il grado zero della Trilogia che ha reso Lyacos una delle voci più note e riconoscibili nel panorama letterario internazionale.

Una domanda è però rimasta in sospeso. Il capitolo conclusivo (Z) rivela anche il carattere sommamente letterario del disegno complessivo. Soprattutto nella voce “sabotatrice” che interpella l’individuo, invitandolo, alle prime luci (come nel Prologo, ma qui siamo agli antipodi, al reciproco della situazione del Prologo, dove la voce era riferita — “la voce ha parlato” — e rivolta a uno scimpanzé, mentre qui parla direttamente all’uomo), ad alzarsi, a buttare il libro (la lingua imperiale, l’apparato di potere che si sta nutrendo anche di lui, che lo sta mangiando, per assorbirlo a sé), a scappare.

Di chi è quella voce? Da dove parla? Che lingua parla?

Di chiunque sia, è l’anello che non tiene, il punto – l’ultimo (l’unico?) – non ancora assimilato, la condizione di possibilità di un’alternativa, di una salvezza. Vivibile solo nella relazione, nella riaccensione, nel soggetto a cui si rivolge (e in un solo colpo il lettore riacquista tutta la decisività del suo ruolo in termini di costruzione del senso dell’opera), della cognizione del peso della responsabilità della sua libertà. Una coscienza. Chiudi il libro e scappa. Ora. Lascia a metà la frase. È nella vita che c’è tutto, anche la salvezza. Non nell’arte. E l’arte è vera, la letteratura è grande, quando non si propone come salvezza, ma quando ci riscaraventa nel mondo per cercarla.

La storia ricomincia nuovamente con ogni uomo,

e ricomincia a ogni ora, in ogni vita di uomo.

Ed ha perciò, in qualsiasi momento, la possibilità di cominciare di nuovo,

da quell’inizio che qui è stato posto” (R. Guardini).

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