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Gaza o del duplice tradimento dell’Occidente

di Andrea Inglese

La preparazione è giunta a buon punto quando gli individui hanno perso il contatto con i loro simili e con la realtà che li circonda; perché, insieme con questo contatto, gli individui perdono la capacità di esperienza e di pensiero”. Così scriveva Hanna Arendt in Le origini del totalitarismo. Nei settantaquattro anni che ci separano dalla prima edizione nel 1951, le nostre democrazie hanno sì mostrato fragilità, storture, contraddizioni a volte imbarazzanti, ma in un contesto apparentemente garantito di dibattito critico e di pluralità di posizioni. Sappiamo ora, ne abbiamo le prove, che non è più così. Qualcosa di questo scollamento nei confronti sia dell’esperienza sia del pensiero sembra riemergere nel discorso pubblico, assieme a un inquietante e tenace diniego di realtà. Il fenomeno è senz’altro profondo e coinvolge varie dimensioni delle nostre società, ma esso ha avuto una sua cristallizzazione evidente nella reazione dell’Occidente “ufficiale” (mediatico e politico) nei confronti di ciò che sta accadendo tra lo stato di Israele e il popolo palestinese.

Prendiamo l’esempio di No Other Land, film di un collettivo di registi palestinesi e israeliani, uscito nel 2024. È stato premiato alla Berlinale e in altri importanti concorsi europei, ha ottenuto l’Oscar per il miglior documentario. Nonostante ciò, No Other Land ha provocato la prevedibile censura israeliana, sostenuta persino dal ministro della cultura. Nemmeno negli Stati Uniti, terra della libertà di espressione, il documentario ha trovato distributori e anche la sua proiezione puntuale ha suscitato polemiche. In Germania, sono invece gli autori stessi a venire accusati di “antisemitismo” (accusa bipartisan, formulata da un sindaco conservatore e una ministra progressista), in seguito alle dichiarazioni fatte durante la premiazione al Festival di Berlino.

Di fronte a tali accuse, uno dei registri israeliani, Yuval Abraham, ha risposto sul “Guardian” con queste parole: “Essere in Germania come figlio di sopravvissuti all’Olocausto e chiedere un cessate il fuoco, e poi essere etichettato come antisemita, non solo è scandaloso, ma mette letteralmente in pericolo la vita degli ebrei”.

Il documentario non riguarda Gaza né quello che è accaduto dal 7 ottobre 2023. Si svolge in un villaggio della Cisgiordania tra il 2019 e il 2023. Ma per questo e altri dibattiti si potrebbe parlare di una certa (metodica) illogicità funzionale al perpetrarsi di un sopruso.

Una riflessione ampia su quanto è accaduto a Gaza si trova invece in Un giorno tutti diranno di essere stati contro (ed. orig. 2025, trad. dall’inglese di Gioia Guerzoni, pp. 192, € 18, Feltrinelli, Milano 2025) di Omar El Akkad, anche se l’obiettivo del saggio, come dichiara lo stesso autore, “non è il resoconto di quella carneficina”, ma piuttosto l’indagine sullo scollamento tra pensiero ed esperienza che Arendt vedeva come tratto specifico dell’universo totalitario e che oggi s’insinua nel modo in cui il pubblico occidentale percepisce e comprende la carneficina dei gazawi. In questione, nel libro di El Akkad, non è una guerra tra le tante che emergono in quest’epoca di caos sistemico né una catastrofe umanitaria: in questione è il primo genocidio del XXI secolo, ossia una reazione militare che ha perso quasi subito le caratteristiche di una guerra asimmetrica contro miliziani nemici per rivelarsi un’impresa di distruzione sistematica della popolazione civile e del suo territorio. Lo scenario si è ulteriormente aggravato poiché Israele ha intenzionalmente provocato una carestia nella Striscia, dapprima colpendo i mezzi di sussistenza gazawi (sistema agricolo e industria ittica) e, in seguito, realizzando il blocco degli aiuti internazionali (cibo, medicine, carburante). Sappiamo quante resistenze suscita l’uso del termine che designa il supremo e più ignobile crimine che gli uomini possono compiere su altri uomini. Ma secondo l’autore, dietro la controversia terminologica, complicata dalla memoria della Shoah e di altri genocidi, è una soglia epocale quella a cui siamo tutti confrontati: le democrazie liberali d’occidente, e chi s’identifica con esse come Israele, non si sentono più limitate dalle loro contraddizioni, e rivendicano platealmente la necessità della guerra fuorilegge, in spregio di quelle convenzioni internazionali che, dal dopoguerra, avevano fondato il programma di un ordine mondiale non basato esclusivamente sui rapporti di forza. Come i partiti e le correnti di estrema destra, all’interno delle nazioni occidentali, prendono a bersaglio le costituzioni democratiche e antifasciste, così, a livello internazionale, assistiamo agli attacchi da parte di Stati Uniti e Israele dell’Onu, delle sue diverse agenzie e di tutte le ong che per decenni hanno costituito il fiore all’occhiello dei regimi democratici. È di questo che ci parla El Akkad. Anche se il massacro dei bambini, delle donne, dei dottori, dei giornalisti di Gaza, non ci riguarda, perché non si tratta di gente come noi (bianchi, europei, relativamente ricchi, laici, eccetera), quel massacro distrugge puramente e semplicemente la nostra identità morale, ossia il nostro orizzonte di valori.

Di questi El Akkad sa qualcosa, in quanto egli non ne è semplicemente erede, come ogni buon nordamericano o europeo: egiziano di nascita, cresciuto in Qatar, emigrato in Canada, e ora residente negli Stati Uniti, El Akkad ha scelto di fare proprio tale orizzonte di valori, pagando l’inevitabile prezzo di uno sradicamento, di una parziale rinuncia nei confronti della propria cultura d’origine. Lo racconta apertamente nel suo libro: “Volevo quell’altrove, quella parte del mondo in cui credevo esistesse un tipo di libertà fondamentale. La libertà di diventare qualcosa di meglio, la libertà che deriva dall’essere trattati in modo equo nel rispetto dell’ordine pubblico e delle norme sociali”. In lui non c’è nostalgia nei confronti né dell’Egitto né del Qatar, paesi in cui ha toccato con mano la crudeltà e l’arbitrio del potere. Nello stesso tempo, è consapevole di far parte della storia di quei colonizzati che, per offrire ai propri figli un futuro migliore, hanno accettato linguaggio e forme di vita dei colonizzatori: “Questa è la lingua che parlano, queste sono le usanze che praticano, e, se vogliamo che i nostri figli abbiano qualche possibilità qui, devono conoscerle alla perfezione, altrimenti saranno condannati a una vita da niente”.

El Akkad è giornalista e romanziere, ha iniziato la sua carriera di reporter di guerra nel momento in cui gli Stati Uniti, dopo l’11 settembre, lanciavano la loro campagna contro il “terrore”. È stato in Afghanistan e a Guantánamo: ha potuto essere testimone diretto delle atrocità commesse in nome dei valori occidentali di libertà e democrazia, così come, da professionista del quarto potere, ha assistito alla perversione del discorso pubblico, sottoposto ai precetti, ben introiettati, della propaganda occidentale: mezze verità, eufemismi, contesti lacunosi, accomodamento dei “fatti”, ben sapendo “che c’erano crepe profonde” nel “mondo libero”, scrive El Akkad: “Eppure, credevo che le crepe potessero essere riparate”. Dopo l’autunno 2023, è risultato chiaro a lui, come a un’ampia parte della popolazione mondiale, che il sogno democratico-liberale si è infranto irrimediabilmente in mezzo ai cadaveri e alle macerie di Gaza. A scriverlo, non è un perseverante marxista o un adepto del pensiero critico che guarda con sospetto le istituzioni liberali. Non è nemmeno un ingenuo studente rivoluzionario che crede ancora alla possibilità di un altro mondo. Per questo motivo, lo sguardo di El Akkad ha una profondità che nessun bianco occidentale possiede. Una profondità che nasce dall’aver subito un doppio tradimento. Come ognuno di noi, educati a scuola all’importanza del ragionamento autonomo e critico, alla scrupolosa oggettività del pensiero scientifico, all’ammirazione della resistenza alla tirannia, all’apprendimento del “Mai più!” attraverso gli orrori della storia, anche El Akkad, cittadino egiziano-canadese, è stato tradito da tutti quegli atti politici, diplomatici, economici, giornalistici, che negano, nella società degli adulti, ciò che quella stessa società ha trasmesso per anni alla propria gioventù come principi e valori irrinunciabili. Ma il figlio di immigrati egiziani è stato tradito una seconda volta: egli infatti portava con sé il peccato originale di essere un arabo dalla pelle scura, un non-occidentale. Per questa ragione gli è stato detto: rinuncia a quello che sei, perché non vale nulla, e diventa come uno di noi. Noi non abbiamo nulla a che fare né con la barbarie, né con la viltà che tace davanti a essa. E il giornalista, romanziere, egiziano-canadese ha voluto crederci, nonostante la guerra in Afghanistan e le prigioni a Guantánamo, fino all’autunno del 2023. Poi è iniziata la distruzione di Gaza e il massacro sistematico dei gazawi.

A. Inglese è traduttore

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Alfred
Saturday, 04 October 2025 10:27
In Germania, sono invece gli autori stessi a venire accusati di “antisemitismo” (accusa bipartisan, formulata da un sindaco conservatore e una ministra progressista), in seguito alle dichiarazioni fatte durante la premiazione al Festival di Berlino.

La stessa Germania dove il capo della nazione dice: israele fa il lavoro sporco per noi. Il genocidio dei palestinesi (o di chiunque intralci i loro piani par di capire) sarebbe il lavoro sporco. Perche' lavoro sporco per lui e per i 'padroni del mondo' dell'occidente?
Perche' coinvolgere anche i sudditi in quel Noi?
Not in my name viene da dire.
Non solo perche' davvero non e' cosi, ma perche' ognuno di noi che non e' tra i 'padroni del mondo' puo' essere spazzato via con la stessa facilita' con cui oggi stanno spazzando via i palestinesi. Se serve per il lavoro sporco su di noi (quando siamo di troppo, quando non siamo addomesticati e mansueti e sfruttabili) incaricheranno altri. Ci sono sempre lavori sporchi da fare e gruppi umani che si prestano a farli.
Evidentemente il capo tribu tedesco considera i sionisti un gruppo umano al servizio di un lavoro sporco condivisio e/o commissionato.
Cosa c' entra questo con il libro di cui parla A.Iglese?
Dal testo sopra
El Akkad ha scelto di fare proprio tale orizzonte di valori, pagando l’inevitabile prezzo di uno sradicamento, di una parziale rinuncia nei confronti della propria cultura d’origine.

Questa e' l'unica opzione che chi ordina e chi esegue i lavori sporchi lascia a quelli che sopravvivono agli olocausti. Diventare come loro, spesso peggiori di loro anche se non e' il caso di El Akkad. O soccombere o ridiventare colonie e schiavi (di fatto o di diritto).
I sionisti hanno scelto di diventare quello che sono: un lavoro sporco a loro favore e a favore di quelli che li foraggiano e li tengono in vita.
A tutti noi miserabili e' rivolto il trattamento Gaza perche' sia una lezione e impariamo come si sta al mondo, nel loro mondo.
Decidere se vogliamo aderire alla loro visione o scegliere e praticare una alternativa umana sta a noi, alla nostra capacita' di capire e di lottare insieme. Loro hanno finanza e cannoni, noi la forza del numero e dell' aggregazione.
Non sara' facile, ma dobbiamo tentare.
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