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La nuova resistenza a Usrael? Non solo memoria, ma utopia sperimentale

di Alessio Mannino

Dalla mia postazione con fucile a tappo, prendo spunto da un recente post di Andrea Zhok, una delle poche menti libere in circolazione, per suggerire al lettore una critica. “Oggi la vera, principale, essenziale resistenza”, sostiene il filosofo, “è la memoria, memoria che per rimanere vitale deve essere rielaborazione, e che deve rimanere strettamente legata ad una richiesta di giustizia inflessibile. Chi oggi non può sconfiggere il male, domani non deve dimenticarlo”. Zhok conclude così un denso e, in sé, del tutto condivisibile ragionamento che prende le mosse da una presa d’atto: la vittoria su tutta la linea, in questa fase, dei due veri Stati-canaglia che minacciano oggi l’umanità, Stati Uniti e Israele. E la minacciano, anzi la violentano nel senso di schiacciarne e renderne impotente l’attributo che rende umano un essere umano: la capacità di trattenere dall’oblio il ricordo del male. In questo caso, dell’arbitrio sfacciato con cui Usrael, il blocco a guida dell’Occidente, fa carne di porco non solo dei più elementari princìpi di dignità, ma direi proprio anche di quei sentimenti civili in antico sintetizzati nella parola pietas. Siamo giunti a un grado di empietà talmente sfacciata che su questa china perfino il concetto orwelliano di bipensiero, ovvero ritenere valide e associare due cose opposte – cioè per esempio chiamare “liberazione degli ostaggi israeliani” la pulizia etnica e l’occupazione della Striscia di Gaza – risulterà non più calzante. E tuttavia, salvare e tramandare ciò che è avvenuto non può bastare.

Intendiamoci: si tratta di un’operazione indispensabile, vitale, e dovrebbe costituire, fra l’altro, il precipuo compito degli “storici del presente”, come si definiscono con qualche esagerazione gli appartenenti alla categoria di chi scrive, il giornalismo. Per dire: ricordare che la seconda guerra del Golfo in Iraq, secondo stime comprensive dei danni collaterali costata 1 milione di morti, fu scatenata sulla base di prove artefatte (la famosa “fialetta” agitata all’Onu da Colin Powell con le inesistenti armi di distruzione di massa di Saddam), creando le condizioni per la nascita dello Stato dell’Isis nonché, per eterogenesi dei fini, l’espansione dell’influenza del vituperatissimo Iran, è un esercizio mnemonico sempre utile, data l’arroganza con cui a Washington e Tel Aviv si persegue l’idea di avere dalla propria una presunta superiorità morale, di valori, e non soltanto politica, nell’aggredire, bombardare, sanzionare e ricattare chiunque venga bollato come nemico della democrazia, in Medioriente e fuori dal Medioriente. Il caso dell’Afghanistan è ancora più eclatante: vent’anni di sanguinosi tentativi di piegare gli straccioni talebani, senz’altro irricevibili nel loro dogmatismo ma, piaccia o no, con ogni evidenza forti dell’appoggio popolare, tanto da far sloggiare, e con la coda fra le gambe, una coalizione Nato tecnologicamente avanzatissima. Eppure, di questa storica e plateale batosta non si parla mai. Memento perdes, democratico Occidente: ricordati che perderai, se e quando sopravvaluterai le tue forze e sottovaluterai quelle (soprattutto etiche, di forza d’animo, di resistenza per l’appunto) di chi consideri inferiore.

Non è però in virtù di sconfitte, rovine o disastri lasciatisi dietro dalle “democrazie occidentali” che si può sperare di non ridursi a fare una pur necessaria opera di controinformazione e contro-narrazione. Di più: a essere precisi, bisognerebbe togliersi dall’orizzonte mentale anche la prospettiva stessa della speranza, che ha sempre una componente autoconsolatoria, da atto di fede. E ancora, per dircela tutta: neppure il registro ideale e retorico della “resistenza” è immune da una valenza di deprimente passività di fondo. Chi resiste oppone ciò di cui può disporre (nel nostro specifico, le parole) a un oppressore il quale detiene di solito un asimmetrico vantaggio nei mezzi e soprattutto, quando non efficacemente contrastato o contenuto, nell’iniziativa. Resistere oggi a Usrael significa limitarsi a controbattere alle zigzaganti mosse di Trump o alla tracotanza, non di rado a volte inimmaginabile nell’infrazione di ogni limite, di Netanyahu. È esattamente dalla sensazione di uno sforzo continuamente bruciato dagli eventi che deriva quella di impotenza, da fatica di Sisifo, generatrice di un più o meno cosciente pessimismo.

Tutto comprensibile, e in parte giustificabile. Ma solo in parte. Perché, attenzione, non nonostante, ma proprio per lo spadroneggiare dei due gangster internazionali e dei loro reggicoda (fra cui brilla l’Italia) che occorre adottare la mentalità di una resistenza attiva, vale a dire:guerrigliera. Armata sempre, come detto, di parole, o di quelle azioni che non si ritorcano contro le proprie ragioni, che evitino cioè di fare gratuiti regali all’avversario ricorrendo a una violenza stupida, controproducente e – come per Luigi Mangione – masticabile e innocuizzabile nel tritatutto del flusso social. Una guerriglia culturale che usi gli strumenti a disposizione che sono, d’accordo, quelli che conosciamo, posizionati a un livello sostanzialmente giornalistico o attivistico, di puro controcanto o di una divulgazione con ambizioni contro-egemoniche, ma che almeno cerchi di scagliare lampi di luce verso il futuro. Non di salvaguardare esclusivamente il passato, benché ancora caldo.

Anche se può dispiacere ammetterlo, se si vuole dare un senso che non sia di semplice testimonianza al lavoro che si fa anche qui a La Fionda, non è alla sola coscienza dell’ignominia che si deve invitare a riflettere e sensibilizzare. Questa è solo la metà del compito. E come già sottolineato, seppur doveroso, alla lunga è anche abbastanza frustrante. È all’altra metà che bisogna tendere: a fecondare l’immaginario subconscio con idee mirate a suscitare un’azione, e non soltanto una reazione. Coltivare la memoria, allora, è giusto e funzionale per tenere viva l’indignazione, oltre naturalmente che per dotarla di una batteria di fatti e argomenti senza cui ogni discorso scade in luoghi comuni, frasi fatte e banale, crassa ignoranza. Ma è a immaginare un avvenire, ossia un mondo che deve, letteralmente, ancora venire, che è inderogabile puntare. Come dire: l’anamnesi, nella cura del paziente, rappresenta un passaggio fondamentale per stabilire la diagnosi. Però poi alla diagnosi deve seguire uno straccio di terapia, purché non astratta ma sperimentale. Vale a dire che, ricalandoci sul nostro piano, senza parlare del futuro, senza indicare delle mete, senza spostare in avanti la critica, questa rimarrà sempre critica dell’esistente e mai avrà la potenzialità di un sabotaggio realisticamente, per quanto possibile, incisivo.

La democrazia liberale brandita da Usrael è una menzogna? Bene, dopo averlo detto e ripetuto in tutte le salse si indichi un modello differente di governo della società. Si provi a sperimentare, dal lato comunicativo e di linguaggio, qualche nuova parola per designare le nuove esigenze (ad esempio, “capitalismo” e “socialismo”, sebbene tecnicamente ancora attualissimi, da un punto di vista evocativo non funzionano più). Si vada in cerca di simboli da attivare. Si cerchi insomma di dare forma, anche in ordine sparso, a pezzi, a tasselli, a una linea d’indirizzo che separi ciò che va rifiutato da quel che può essere accolto. Con tutta la differenza che passa fra utopia, che indica la direzione di marcia senza illudersi sull’esito finale, dall’ideologia, che è la presunzione di fissare verità assolute e intolleranti.

Si verrà tacciati, a seconda dei casi, di essere “sempre i soliti comunisti” (cit.) o, in alternativa, rossobruni, fascisti, putiniani, amici dei dittatori, retrogradi, sognatori, eversivi, eccetera eccetera? Beh, questo è il meno. Se le idee, intese etimologicamente come visioni e fatte circolare come i pollini, sono di qualità, e se in particolare hanno la qualità di accendere un interesse operativo, di mobilitare per intero il corpo e non la sola testa, di indurre a ritrovarsi di persona alzando il culo dal divano o dalla scrivania, le etichette diffamatorie prima o poi non sortiscono più effetto. Ma queste idee, queste idee forti, anzi, queste idee-forza, dove sono? Quali sono? È in questo campo che bisogna arare e seminare.

Dovrebbe essere la missione di quell’élite, nel significato positivo di persone che si distinguono, che genericamente si nominano intellettuali. Un gruppo necessariamente ristretto, ma non certo circoscritto ai professori, né tanto meno a noi giornalisti (al massimo acuti, quasi mai profondi), e tutt’al contrario aperto a qualunque individuo abbia qualcosa da proporre. Possibilmente, con un valore spendibile al di fuori dell’analisi, in modo fa facilitare la postura psicologica del contrattacco. Così da non limitarsi al solo resistere, come quando si ha il mal di pancia. È il male alla capa che dobbiamo farci venire, estraendo idee, idee, idee dai problemi e dalle ferite della realtà presente. Più esattamente, individuando i bisogni latenti e non riconosciuti, perché repressi o rimossi, all’origine del disagio della nostra nient’affatto superiore civiltà, e sintetizzarli per formulare delle proposte che valgano non da “soluzioni” chiavi in mano (non credibili, senza consenso e massa di manovra), ma almeno da direttrici.

L’umanista Pierluigi Fagan, ad esempio, invita a elaborarne attorno al fondamentale tema della riappropriazione del Tempo, in rapporto al lavoro e al giogo della macchina economica da cui tutti dipendiamo per vivere (“Benvenuti nell’era complessa”, 2025). Suggestione ottima. E infatti la ricerca andrebbe svolta anzitutto su filoni che investono la vita concreta nei suoi aspetti più percettibili e sofferti, e su questo fronte sono gli stessi attuali padroni del vapore, da Gates a Musk, che ci sfidano, quando ad esempio sottoscrivono con mossa paracula il reddito di base (oggi, nell’Italietta stagnante e provinciale, visto come la peste dopo la fallimentare esperienza grillina). Ma si rammenti: anche la migliore e più prolifica fucina di pensiero resterà un cantiere nel deserto, se a tradurlo in agire politico non si congiungeranno, in un combinato disposto non prevedibile, da una parte una sfiducia radicale nell’ordine costituito, e dall’altra un pugno d’uomini e donne con il carisma adeguato ai tempi. Ed è per questo che anziché a ciò che è stato, urge dirigere le energie su ciò che potrà essere. Tutto ciò, s’intende, detto con l’umiltà di un semplice giornalista.

 

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