E dalla Mostra del cinema di Venezia, come stronzi, restarono a guardare
di Max Renn e Guy van Stratten
L’indifferenza e la pochezza culturale che avvolgono il nostro presente fanno capolino anche in quella che si dovrebbe definire come cultura cinematografica: basta leggere le dichiarazioni di alcuni registi e attori italiani presenti a Venezia per la Mostra del cinema che definiscono come stronzate, inutili e scadenti gli appelli per Gaza. Qualcuno di loro ha distrattamente firmato una petizione, probabilmente più per conformismo con la categoria che per altro, salvo poi pentirsene o accorgersi che questa, strada facendo, ha avuto l’ardire di chiedere di starsene a casa a chi pubblicamente ha sostenuto e sostiene la deportazione e lo sterminio per armi e per fame del popolo palestinese. Un vero e proprio atto di “censura”, per carità! Non sia mai.
Altri sono al Lido per passeggiare sul tappeto rosso e per farsi vedere a qualche patetico ricevimento sponsorizzato indossando il vestito buono sulla barba di tre giorni e i capelli un po’ spettinati – che fa sempre tanto “gente di cinema” – per promuovere il loro nuovo filmettino senza nemmeno preoccuparsi che esca nelle sale, confidando al massimo, quando sarà il momento, in qualche autoreferenziale Donatello di consolazione per soddisfare l’ego artistico. Ma in cosa si sta trasformando la Mostra del Cinema? In un sovraffollato centro commerciale di una domenica di fine estate, in cui le opere in concorso sono trattate alla stregua di oggetti di consumo, di merci esposte pronte per essere apprezzate dal primo ricco acquirente, mentre ai confini d’Europa si sta consumando un terribile genocidio? Ma sì, certo, cosa importa ai ricchi e colti ‘artisti’ bianchi europei e italiani dello sterminio del popolo palestinese?
Il menefreghismo e l’indifferenza hanno una parte considerevole nel nuovo assetto colonialista, fatto di un intangibile e violento dominio culturale e ideologico nell’epoca dei social.
Poi ci sono quelli che il problema è sempre “più complesso” e che manco si sporcano le mani per firmare petizioni che poi li costringono a confrontarsi con una marmaglia di colleghi invidiosi, incagabili, presuntuosi, incapaci e concorrenti. Registi e attori non sono gente che può compatirsi di annacquarsi nel mucchio indistinto del mondo del cinema – potrebbero perfino esserci comparse, tecnici e attrezzisti, perdio –, figurarsi poi mescolarsi con emeriti sconosciuti in una manifestazione pubblica ove potrebbe esserci davvero di tutto. La massa indistinta va bene soltanto sotto forma di pubblico in sala o sul divano di casa. Il genio creativo deve essere libero di correre in solitaria. Altri ancora, in preda a irrisolti sdoppiamenti di personalità, si barcamenano nel distinguere ciò che possono affermare da privati cittadini da quanto sentono di poter dire da personaggi pubblici.
Certo, molti di questi signori ci tengono a chiarire che sono ben consapevoli che in Palestina è in atto un genocidio e che è davvero una “cosaccia”, ma tutto ciò non ha nulla a che fare con l’arte cinematografica, con la libertà di espressione, con i tappeti rossi e le cene eleganti del Lido (non di Arcore, per carità: il cinema italiano è signorile per davvero, mica cose da nani e ballerine!). Ci teniamo qui a ricordare quanto ha scritto il grande regista Andrej Tarkovskij nel suo saggio Scolpire il tempo (1985): “Una qualsiasi arte nasce sempre grazie a un’esigenza spirituale e gioca un ruolo speciale nell’impostazione dei profondi problemi che le sorgono dinanzi nella propria epoca” (A. Tarkovskij, Scolpire il tempo. Riflessioni sul cinema, Istituto Internazionale Andrej Tarkovskij, Firenze, 2015, p. 79) ribadendo che “il cinematografo si è presentato come lo strumento del nostro secolo tecnologico necessario all’umanità per un’ulteriore conoscenza della realtà” (ibid.). Ma l’atteggiamento prevalente alla Mostra del cinema sembra quello di nascondere la testa sotto la sabbia dinanzi ai “profondi problemi” della nostra epoca, se si può chiamare “problema” il genocidio di un popolo. E quale “realtà” mai ambiranno a conoscere, questi cinematografari, oltre a quella delle patinate manifestazioni ufficiali?
Poi ci sono i giornalisti accreditati, rigorosamente distinti in caste dai pass che danno diritto a questa o quella proiezione e l’accesso a questo o quel rinfreschino, costretti a guardarsi qualche film tra un evento mondano e l’altro. Se persino i loro colleghi che si occupano del mondo fuori dallo schermo riescono a ridurre i meeting internazionali inerenti le carneficine belliche in corso a disquisizioni sul dress code e sulle posture in favore di telecamera dei protagonisti, ci sta che quella che si fregia di essere la Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica venga trattata come il festival sanremese, dunque che si guardi più all’eleganza della mise delle attrici che alla “mise en scène” delle opere proiettate. E per buttar giù due righe sui film bastano e avanzano i patinati pressbook in cui i nostri accreditati trovano anche le rispostine preconfezionate alle domandine di circostanza che farebbero a registi e attori.
È questa l’intellighenzia cinematografica italiana? Una torre d’avorio che pensa solo a realizzare i suoi filmetti, al successo, al red carpet? E alcuni di questi registi avrebbero la pretesa di farsi chiamare intellettuali? Intellettuali dell’indifferenza e del “che ce frega”. Viene da domandarsi cosa differenzi la spocchia e l’ignavia di questi signori dalla meschinità di chi ha definito “gondolieri di Hamas” quanti hanno manifestato a Venezia contro un genocidio in corso.
Da queste vergognose, più ancora che imbarazzanti, dichiarazioni emerge un fatto: l’indifferenza propugnata dall’alto, da una fascistizzazione generalizzata della cultura che sta avvenendo in questo Paese che si estende ben oltre il governo di destra e che si palesa anche nel mondo del cinema. Nessuno aveva chiesto film sul genocidio palestinese, nessuno pretendeva chissà quale presa di posizione militante. Non ci si attendeva quello che nei fatti la Mostra veneziana non poteva essere, non ci si aspettava di certo il Sessantotto in Laguna, ma un minimo di dignità sì.
Il mondo del cinema veneziano avrebbe potuto sfruttare i riflettori per lanciare qualche messaggio significativo per “smuovere le coscienze”, sarebbe potuto uscire dalla sempre più patetica torre d’avorio delle sale festivaliere e manifestare lo sdegno per ciò che sta accadendo in Palestina. E invece si è assistito a un grottesco gioco ai distinguo, al “non è questa la sede”, alla pretesa autonomia dell’arte cinematografica dalla rude realtà. Un universo che si fregia di “fare arte e cultura” che si mostra del tutto simile al mondo dello sport, altrettanto silente, altrettanto ipocrita.
L’asfalto del disimpegno degli anni Ottanta e Novanta ha colpito duro. Se questi sono i registi e gli attori che ci ritroviamo, cosa possiamo attenderci dal loro cinema, dai loro film che magari pretendendo pure di irridere il vuoto patinato dei nostri tempi, salvo poi crogiolarsi in un vuoto estetismo, o che magari, intendendo denunciare le miserie di una sinistra che si è persa per strada, non si accorgono nemmeno che stanno in realtà parlando di sé stessi. Meglio allora sfruttare i personaggi che si sono costruiti per realizzare spot televisivi o trascinarsi nella finta autoironia di qualche serie autoreferenziale sulle piattaforme sul piccolo schermo.
Di certo spendere qualche parola di denuncia a proposito del genocidio mediorientale sotto i riflettori della Mostra non avrebbe redento il mondo del cinema italiano dalla pochezza culturale che lo contraddistingue, ma almeno avrebbe permesso a qualche suo protagonista di mostrarsi meno indifferente di quel che è. Magari, un giorno, folgorati sulla via di Damasco, alcuni di loro si chiederanno se di fronte a un genocidio avrebbero potuto almeno dire qualcosa sfruttando la loro notorietà e si vergogneranno per non averlo fatto. Vorrà dire che faranno i conti con la loro coscienza, ma sappiano sin da ora che nessun ravvedimento cancellerà la codardia di cui hanno dato prova.
Nel frattempo continuino pure con i loro film furbini, scadenti, inutili e ipocriti. A noi viene alla mente un efficace titolo di un film di alcuni anni fa diretto e interpretato da Pif: E noi come stronzi rimanemmo a guardare. Già, i protagonisti del cinema italiano – con qualche lodevole eccezione di cui non ci dimenticheremo –, di fronte a un genocidio, come stronzi sono restati a guardare. Anche di questo ci ricorderemo.