Approdo per noi naufraghi
di Elena Basile
Il titolo del libro di politica internazionale, pubblicato da Paperfirst il 4 novembre u.s., “Approdo per noi naufraghi”, richiama l’aspirazione principale del saggio. Chi sono i naufraghi e dove è l’approdo? I naufraghi sono innanzitutto i componenti del variegato mondo del dissenso, sono la generazione Z, ancora priva di soggettività politica ma unita per la pace e la condanna del genocidio di Gaza. Sono anche i cittadini che non votano più perché sfiduciati verso le istituzioni e la politica. I naufraghi sono inoltre coloro che votano malvolentieri, non convinti, che si arrendono perché “non c’è alternativa”.
In Italia, come in Europa, è essenziale creare un’istanza politica (a partire dai partiti dell’arco costituzionale in grado di prendere decisioni storiche di condanna del genocidio e del riarmo) che possa rappresentare le esigenze esistenti di contrasto alle politiche neoliberiste e belliciste dell’imperialismo finanziario USA, di cui l’UE è ormai l’appendice poco dignitosa.
Mi è apparso importante aprire il confronto su alcuni temi di fondo che potrebbero indicare una direzione di marcia unitaria, un denominatore comune a prescindere dalle diverse sensibilità e identità dei partiti e dei movimenti accomunati dal contrasto alle guerre in Ucraina e in Medio Oriente.
Il libro esamina i fattori geopolitici, economici, sociologici e culturali che hanno permesso la trasformazione antropologica di un elettorato incline a premiare la maggioranza Ursula, malgrado il tradimento degli interessi dei popoli europei, il rischio sempre più presente di un conflitto nucleare e la nostra evidente complicità con il genocidio del popolo palestinese.
I cambiamenti dello spazio mediatico e culturale accompagnano la fine della dialettica capitale/lavoro, la nascita della trappola del debito, la sostituzione del multilateralismo con la mitizzazione della forza e dell’unipolarismo, la scomparsa della soggettività operaia e dei corpi intermedi. Il materialismo edonistico trionfa nella società liquida, nella quale vagano individui senza radici e identità, ormai privi di aggregati sociali.
L’Unione Europea segue questa tendenza generalizzata. Grazie all’approccio Monnet, celebra la cooperazione settoriale e spazza via le basi di una costruzione politica e federale, creando una moneta unica in una regione economicamente disomogenea e risolvendo l’antitesi creditori-debitori a favore dei primi. I falsi europeisti sostengono una maggiore integrazione che, in un quadro economico privo di un interesse comune e con una governance istituzionale mancante di legittimità democratica, finisce per accentrare il potere in una burocrazia asservita ai potentati economici. Cinghia di trasmissione tra lobby e Stati nazionali, l’UE impone decisioni cruciali di politica economica e di politica estera, superando i meccanismi democratici insiti negli Stati nazionali.
La resa delle classi dirigenti europee alla militarizzazione del dollaro viene indagata nelle sue molteplici cause profonde e nei meccanismi contingenti, sintetizzabili nel finanziamento dello spazio mediatico, nel racket degli istituti di ricerca, nell’hackeraggio dei leader politici, nella sorveglianza dei flussi di denaro destinati ai paradisi fiscali.
Le prime tre parti del saggio ritraggono la situazione di fatto con una documentata analisi dei molteplici fattori in grado di porre fine al liberalismo, al multilateralismo, alle costituzioni democratiche nate nel secondo dopoguerra, all’Europa sognata da tanti umanisti. Ne emerge un ritratto impietoso dell’Occidente, artefice di barbarie e attore dalla parte sbagliata della storia, proprio nel momento in cui ricorre a ideologie che risuscitano antichi miti del passato coloniale: il suprematismo bianco, pronto a riemergere in modo ricorrente nella nostra storia.
Il saggio, tuttavia, nella sua quarta parte, si dedica a definire un possibile approdo. La domanda, ispirata a Spengler e al suo capolavoro “Il tramonto dell’Occidente”, a cui dobbiamo rispondere per ritrovare il cammino smarrito, è: cosa possiamo salvare della nostra storia, modulata sulla dialettica costante tra civiltà e barbarie?
I capitoli finali affrontano passaggi cruciali relativi alla mediazione con il Sud globale, al rapporto tra Europa e BRICS, alla possibilità di sfuggire al tragico destino delle potenze, esemplificato nella trappola di Tucidide. Al fine di evitare il conflitto nucleare, occorre un cambio di paradigma. La ragione tecnica, separata dalla vita e incline a creare sviluppo dominando la natura, deve essere abbandonata per ritornare ad Adorno, alla ragione legata al vissuto, al sentimento e all’immaginazione.
Di fronte alla minaccia nucleare, climatica, robotica, bisogna chiedersi se la guerra non sia la sovrastruttura ideologica teorizzata da Hobbes e sortita dalla pace di Westfalia, legata al nostro particolare percorso storico, e non un destino imprescindibile del genere umano. Le concezioni del politologo tedesco Carl Schmitt e del barone Carl von Clausewitz hanno dato alla politica la funzione essenziale di creare il nemico interno o esterno e di perseguirne il dominio col conflitto. Di fronte al rischio dell’estinzione del genere umano sul pianeta, è lecito domandarsi se la pace non debba invece essere assunta come la condizione essenziale della politica, radicata nel DNA dell’umanità, allo stesso modo in cui l’abolizione della schiavitù è entrata nel codice morale statunitense.
Ho cercato, in conclusione, di stimolare una riflessione sulle opzioni che restano in campo, riferendomi al dibattito esistente nella sinistra tedesca tra Habermas e Streeck. L’Europa federale e politica, che nulla ha a che vedere con l’odierna Unione modellata dai trattati di Maastricht e di Lisbona, potrebbe risolvere il dilemma berlingueriano dell’uscita dalla NATO? Potrebbe perseguire una politica estera di dialogo con i BRICS, ritornando agli ideali di giustizia sociale e libertà, ai beni comuni, agli obiettivi di pace e prosperità, agli interessi delle classi lavoratrici europee? Oppure è possibile sperare in un ritorno allo Stato nazionale?
Questa la sfida politica e culturale affrontata dal testo, e che richiederebbe un dibattito senza paraocchi. L’approdo, col contributo comune, potrebbe man mano profilarsi all’orizzonte.







































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