L’isolamento di Israele
di Francesco Pallante
Intervenendo alla Knesset lo scorso 13 ottobre, Donald Trump ha sostenuto che, grazie al suo piano di pace, «ora il mondo ama di nuovo Israele». Per poi aggiungere – con parole rivolte direttamente a Benjamin Netanyahu – «che se foste andati avanti con la guerra e le uccisioni non sarebbe stato lo stesso» (cioè, il mondo avrebbe continuato a odiarvi).
Naturalmente, come spesso capita, anche in questa occasione il presidente degli Stati Uniti ha sovrapposto i propri desideri alla realtà. Il mondo continua a essere sgomento al cospetto della violenza scatenata, e ostentata, da Israele contro gli inermi di Gaza (e, sempre più, anche della Cisgiordania); e nessun credibile segnale mostra mutamenti nella ripulsa con cui l’opinione pubblica mondiale continua – giustamente – a considerare Israele. È, tuttavia, significativo il fatto che Trump abbia ritenuto di dover intervenire sulla reputazione dello Stato ebraico, anche perché le sue parole non sono figlie di una considerazione estemporanea. Secondo quanto riportato dal Financial Times, già durante l’estate, il 31 luglio, il presidente statunitense aveva toccato l’argomento in una conversazione privata intrattenuta con un influente donatore della sua campagna elettorale, al quale aveva confessato: «il mio popolo sta iniziando a odiare Israele». Ciò induce due considerazioni.
La prima considerazione è che dalla guerra dell’informazione Israele è uscito sconfitto, a dispetto delle enormi risorse economiche profuse in propaganda e della pletora di media, giornalisti e influencer assoldati al suo servizio.
Due anni di violenza bellica contro i civili, spietata al punto da renderla genocidaria, hanno alienato allo Stato ebraico molte delle simpatie di cui tradizionalmente godeva, unitamente a quelle acquisite all’indomani dell’attacco terroristico del 7 ottobre 2023. Decenni d’incessante lavorio sull’inquadramento ideologico e sullo sviluppo storico del conflitto israelo-palestinese sono finiti in cenere. Feticci un tempo inscalfibili – come quelli di «unica democrazia del Medio Oriente», «minaccia esistenziale al diritto all’esistenza di Israele», «esercito più morale del mondo» – suonano oggi ridicoli; così come ridicole suonano le parole un tempo proprie del linguaggio dominante – «vittime collaterali», «territori contesi», «esodo dei palestinesi», «guerra difensiva», «civili usati come scudi umani» –, che oggi screditano chi ancora osa pronunciarle. Il vergognoso «definisci bambino» proferito durante un dibattito televisivo dal presidente dell’associazione Amici di Israele, Eyal Mizrahi, è divenuto il simbolo di una propaganda così smaccata da farsi caricaturale. E persino il solitamente compassato (nei modi) Paolo Mieli ha perso la testa quando, non avendo argomenti da spendere, si è ridotto a dileggiare pubblicamente per il suo aspetto fisico la studiosa palestinese residente in Italia Souzan Fatayer, sulla base del cortocircuito mentale per cui solo i fisicamente filiformi avrebbero facoltà di denunciare la carestia provocata da Israele a Gaza. Ciò che più impressiona è che, nel loro spregiudicato cinismo, Israele e i suoi sostenitori non hanno avuto ritegno di gettare nel discredito persino l’antisemitismo. Chiunque abbia mosso la più timida critica all’operato dello Stato ebraico o abbia osato allontanarsi dalla sua versione dei fatti o non abbia docilmente ottemperato ai suoi desiderata è divenuto, per ciò solo, «antisemita», mentre, nel frattempo, chi pronunciava tale accusa – l’accusa più infamante – non esitava ad accompagnarsi ai nostalgici del fascismo e del nazismo. È difficile immaginare per il sionismo una nemesi più radicale dell’aver reso lo Stato di Israele la più rilevante minaccia per la sicurezza degli ebrei nel mondo.
La seconda considerazione è che l’orientamento dell’opinione pubblica ha assunto una rilevanza decisiva nel determinare gli sviluppi degli eventi in Palestina. Non c’è alcun dubbio che Israele avrebbe voluto proseguire l’attacco contro Gaza, come dimostrano i ripetuti sabotaggi delle tregue e delle trattative compiuti da Netanyahu, il cui obiettivo era – ed è – l’estensione della guerra dal Mar Mediterraneo al Golfo Persico. La tregua di Sharm el-Sheikh è stata imposta a Israele dall’esterno, per via del timore suscitato nel governo statunitense dalla crescente pressione dell’opinione pubblica mondiale, la cui principale conseguenza è stata la catena di – formali, ma altamente simbolici – riconoscimenti dello Stato di Palestina, che ha indebolito la compattezza del fronte occidentale. Non è possibile sapere se la tregua terrà. Così come non è possibile comprendere quali potrebbero essere, in caso di tenuta, le evoluzioni successive. Israele mantiene il controllo di oltre la metà della striscia di Gaza e lì, a detta di James David Vance e Jared Kushner, saranno concentrati i lucrosi interventi di ricostruzione. A chi saranno destinati i nuovi insediamenti urbani? Ai palestinesi che vi risiedevano prima della devastazione bellica o a nuovi coloni israeliani? Altrettanto oscuro è quel che avverrà nella rimanente parte della striscia di Gaza. Sarà davvero schierata una forza militare internazionale di interposizione? E, se sì, composta da contingenti di quali Stati? Decisivo sarà capire se la Turchia risulterà o meno coinvolta. Come che sarà, rimane in ogni caso fermo che a determinare la tregua non è stato l’avanzamento delle trattative – le condizioni sono le medesime già discusse in passato –, ma il conto che l’opinione pubblica mondiale ha, infine, minacciato di presentare ai sostenitori di Israele nel caso in cui il genocidio e la pulizia etnica fossero proseguiti (o, almeno: fossero proseguiti con la tracotanza che li ha sinora connotati).
Ad aprirsi, ora, è la questione relativa alla punizione dei responsabili dei crimini commessi da Israele: non solo da Netanyahu, ma dal grosso della dirigenza politica e militare di Israele, oltre che dai singoli soldati sul terreno. La propaganda dello Stato ebraico già è all’opera, con l’intento di negare ogni rilevanza – storica, morale e giuridica – alle spaventose violazioni del diritto internazionale compiute. Facile prevedere il ricompattamento del fronte occidentale, non solo per via dei legami d’ideale e d’interesse con Israele, ma anche per il timore delle corresponsabilità che gravano sui tanti governanti – italiani inclusi – che i crimini israeliani hanno coperto politicamente, appoggiato militarmente e sostenuto economicamente. Accetterà l’opinione pubblica mondiale di dimenticare quanto accaduto? Di fare come se la devastazione di uno dei più antichi insediamenti umani del Mediterraneo, con le centinaia di migliaia di vittime che ha consapevolmente comportato, non fosse mai avvenuta?
Non potendo fare pieno affidamento sugli Stati, l’efficacia con cui la giustizia internazionale riuscirà a svolgere il proprio lavoro dipenderà anche – o forse: soprattutto – dall’intensità della domanda di giustizia che salirà dalle piazze che in tutto il mondo sono state dedicate a Gaza e alla Palestina.







































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