Alcune riflessioni sulle grandi mobilitazioni per la Palestina
di Fabrizio Marchi
Le grandi, talvolta oceaniche e molto spesso spontanee manifestazioni che si sono svolte in tutta Italia in queste settimane in solidarietà con il popolo palestinese sono ovviamente da salutare molto positivamente. Il fatto che centinaia di migliaia, milioni di persone si riversino sulle piazze per testimoniare il loro sostegno a un popolo martirizzato da un regime razzista e genocida ci dice che c’è tanta gente ancora “viva”, che esiste ancora una potenzialità e una capacità di lotta non sopita. Soprattutto perché si tratta di un tema considerato tabù fino a pochi giorni fa. Criticare infatti le “politiche” criminali dello stato sionista significava e significa in larga parte tuttora essere tacciati di antisemitismo e questo impediva e impedisce a molte persone di pronunciarsi per paura di essere scomunicate, ostracizzate, bollate, appunto, come antisemite. Le mobilitazioni di questi giorni hanno quindi segnato un passaggio importante. Oggi in tanti definiscono apertamente Israele come uno stato terrorista, lo gridano nelle piazze e, addirittura, in televisione alcuni intellettuali ed esponenti del mondo della “sinistra” si sono espressi in modo esplicito in tal senso; fino a poco tempo fa non era possibile. Ma lo hanno potuto fare proprio perché consapevoli che dietro c’è un popolo (e non solo quello di sinistra) che la pensa in quel modo. Da sottolineare anche la grandissima partecipazione alle manifestazioni e ai cortei di giovani e giovanissimi che nonostante il rincoglionimento a cui sono sottoposti da un contesto mediatico e ideologico altamente pervasivo e astuto, confermano di avere ancora una sensibilità e una coscienza critica.
Fatta questa premessa, da modesti analisti politici quali proviamo a essere, ci toccano necessariamente alcune considerazioni. Vado in ordine sparso.
Sarà possibile tradurre questa enorme mobilitazione per la Palestina anche in un movimento di massa contro le politiche antipopolari, neoliberiste e filo atlantiste dell’attuale governo Meloni (e dei governi precedenti…), vero e proprio fantoccio degli Stati Uniti, della NATO e di Israele (in modo ancora più sfacciato dei governi precedenti)? Perché si scende in piazza per la Palestina – cosa sacrosanta – ma non per le grandi questioni sociali e del lavoro? La mia risposta a questa domanda è che negli ultimi quarant’anni la dimensione collettiva è stata scientemente devastata, l’individuale ha prevalso sul collettivo, la coscienza di classe, cioè la consapevolezza di appartenere a una classe sociale e/o a una comunità di persone unite da una medesima condizione sociale e in fondo anche esistenziale, è stata sostituita con il concetto di individuo, cioè la percezione di sé come un io separato dagli altri che dipende solo e unicamente da se stesso, nel bene e nel male, e la dimensione sociale nella quale si trova comunque a vivere è soltanto uno spazio dove affermarsi, vincere o perdere. In entrambi i casi, tutto dipende da se stessi. La vittoria, cioè l’affermazione del sé (in ultima analisi l’arricchimento, la crematistica e oggi anche la visibilità pubblica), ma anche e soprattutto la sconfitta diventano e vengono vissute come un successo o un fallimento personale. La società, di fatto, non esiste. Questo è il lascito dell’ideologia neoliberale e neoliberista che ha scavato in profondità nella psiche delle persone. Questa è la ragione principale per la quale, a mio parere, la sensibilità mostrata per le sorti del popolo palestinese, non si traduce in una presa di coscienza politica più ampia e anche la mobilitazione per la Palestina resta in larga parte come una questione più umanitaria che politica.
Lo dimostra il fatto, e qui arrivo a un altro punto fondamentale, che la sensibilità dimostrata nei confronti della questione palestinese non si manifesta nei confronti di altre, penso all’attacco israeliano-americano all’Iran o al Libano e, naturalmente, all’espansionismo della NATO a est, alla guerra contro la Russia e ai pruriti guerrafondai delle classi dirigenti europee. In parole più povere, la pur lodevole sensibilità nei confronti della condizione del popolo palestinese, non si traduce in una coscienza politica realmente antimperialista. La questione palestinese viene vista come a se stante, come quella di un popolo vessato, certamente, da uno stato terrorista e genocida, ma non come un pezzo di un mosaico molto più grande. Non solo. Nei confronti della Russia e dell’Iran (e della Cina) – e questo vale purtroppo anche per la grandissima parte del popolo che è sceso in piazza per Gaza – si nutre un sentimento di ostilità perché si è intrisi dell’ideologia liberal occidentalista per la quale tutto ciò che esiste fuori dal “giardino” dell’Occidente è fondamentalmente oscurantista, totalitario, patriarcale e in ultima analisi barbarico. E a costruire questo immaginario in tutti questi anni è stata la “sinistra” forse ancor prima della destra. L’ideologia cosiddetta “politicamente corretta”, fatta propria sotto questo profilo anche dalla destra (che del politicamente corretto rigetta soltanto le sue propaggini più estremiste, il woke, la cancel culture e la teoria gender), ha visto accomunate destra e “sinistra” nella criminalizzazione dei movimenti arabi e islamici, dell’Iran, della Russia e della Cina.
E, anche in questo caso, la grandissima parte del “popolo di sinistra”, anche quello più genuino, che è sceso in piazza per la Palestina, è imbevuto di tale ideologia, in tutte le sue articolazioni. E questo è un problema molto grave perché è evidente che non si può combattere un sistema se al contempo se ne sposa la sua ideologia. Si tratta di una contraddizione in termini che purtroppo riguarda anche i settori relativamente più avanzati di quel sindacalismo di base che è stato promotore e protagonista della mobilitazione di questi giorni.
Non è un caso, ovviamente, che il PD e la “sinistra” liberal (in questa includo anche AVS) abbiano di fatto, per lo meno mediaticamente, messo il cappello su questa straordinaria mobilitazione pro Palestina, sia pur essendo costretti a rincorrerla. Silenti sulla mattanza in corso a Gaza finché alla Casa Bianca c’era ancora Biden, hanno cominciato a farsi sentire nel momento in cui Trump ha vinto le elezioni. A quel punto è scattato l’ordine di scuderia e il mondo dem e liberal, soprattutto in Europa, ha cominciato a mobilitarsi per la Palestina, chiedendo la testa di Netanyahu (in quanto amico e alleato di Trump). Ed è la stessa “sinistra” – è bene ricordarlo – che (come la destra) ha sostenuto e sostiene la guerra contro la Federazione Russa e, andando indietro con il tempo, le guerre imperialiste della NATO contro la Serbia, contro la Libia e contro la Siria (per mano dell’ISIS), camuffandole come guerre “umanitarie” per portare diritti e democrazia, e oggi scende ipocritamente in campo per la Palestina, facendo leva sul legittimo orrore che suscita anche nel “suo” popolo il genocidio in corso in quella terra. E’ ovvio, dunque, che siamo di fronte a un’altra grande contraddizione. Esiste infatti la possibilità molto concreta che questa “sinistra” possa capitalizzare il patrimonio umano e di lotta sceso in campo in queste settimane per ricondurlo all’interno del solito schema “sinistra buona” (o comunque meno peggio) vs “destra cattiva”. Una polarizzazione che si sta facendo sempre più netta soprattutto da quando Trump è al potere negli USA e, in casa nostra, la pessima Giorgia Meloni è al governo.
Ma è’ proprio nella rottura di questa polarizzazione – falsa, perché entrambi gli schieramenti, sulle questioni strutturali, sono organici al “sistema” – che si gioca la possibilità di costruire una nuova soggettività sociale e politica, popolare e di classe, realmente alternativa all’ordine sociale e politico vigente. Un’impresa di una difficoltà improba, ma non ci sono scorciatoie.
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