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Nel labirinto

di Paolo Giovannetti

Roberto Fineschi, Nel labirinto. Italo Calvino filosofo, Napoli, La scuola di Pitagora, 2025. Collana “Diotìma. Questioni di filosofia e politica”, 33.

Il titolo è, in sé, allettante. Di tante questioni calviniane si è parlato in occasione del centenario della nascita, nel 2023: ma l’aspetto in senso stretto filosofico è rimasto in ombra. Tanto più che – con ogni evidenza – nel libro non si parla di filosofia in genere, ma di rapporti con il marxismo, con la filosofia marxista. E qui, davvero, la bibliografia è sfornitissima. Anche per una ragione ulteriore: oggi si tende a guardare con sospetto il Calvino che si avventura in certe sintesi politiche, come per esempio gli era accaduto in un saggio a cui teneva molto, L’antitesi operaia, del 1964, che già ai tempi gli meritò sorrisi imbarazzati da parte di amici e – senza ironia – compagni, che non ritenevano adeguati i suoi tentativi di orientamento fra opposte tensioni ideologiche. A dirla tutta, il Calvino più esplicitamente e volontaristicamente pubblico degli anni che arrivano fino al 1963-1964 può apparire invecchiato, oggi (anche al netto di certi pezzi stalinisti scritti per “L’Unità”).

Merito di Fineschi è aver valorizzato, intanto, il Calvino del PCI, la cui cultura politica è sottoposta a un’analisi molto istruttiva anche in chiave letteraria, e italiana. In particolare, un certo storicismo “dialettico”, preoccupato di mettere a partito il succedersi temporale e ideale di tesi, antitesi e sintesi, avrebbe poco a che fare con il pensiero di Marx e Lenin, e molto invece con una certa tradizione crociana e umanistica.

A questo proposito, viene additata la figura di Felice Balbo, importante collaboratore dell’Einaudi, cattolico comunista il cui pensiero avrebbe agito su Calvino, in modo non superficiale. È una tesi che andrebbe approfondita, e comunque le prove addotte da Fineschi convincono. Forse ancor più interessante è la caratterizzazione di un Calvino innocentemente stalinista, lettore dei Principi del leninismo, firmati appunto dal Piccolo Padre – come era normale che accadesse per ogni militante. Anche perché la componente giovanilistica e attivistica, di natura non dogmatica, del marxismo calviniano si presta a una conciliazione con la componente illuministica, già chiara negli anni Cinquanta ed evidentissima nel libro pubblicato nell’anno nodale per Calvino, il 1957: Il barone rampante.

Comincia quell’anno la seconda fase, che arriva fino al 1964. Fineschi punto molto sul saggio del 1962, La sfida al labirinto. Calvino si inserisce nel dibattito estremamente intricato intorno al neocapitalismo e allo sviluppo delle scienze umane, secondo una tendenza ascritta al neopositivismo. Il suo modo di ragionare non estremizzante finisce per essere reputato “riformista” dall’amico Cesare Cases e andrà incontro a un ulteriore smacco – come abbiamo detto – con l’uscita dell’Antitesi operaia. Eppure, osserva Fineschi, nell’apparentemente umanista e persino irenico La giornata d’uno scrutatore, del 1963, Calvino cita il Marx più attuale dei Manoscritti economico-filosofici, cercando di mettere al centro della riflessione politica il problema del corpo e della natura.

Non per caso, del resto, gli interessi scientifici di Calvino hanno modo di crescere nella terza fase della sua attività, dal 1964 al 1975. Lo scrittore continua a essere – dichiara Fineschi – un intellettuale marxista, ma il suo illuminismo e materialismo lo avvicinano – oltre al pensiero di Joseph Fourier – a certi aspetti del pensiero leopardiano quali erano stati elaborato da Sebastiano Timpanaro, che si autodefiniva marxista-leopardista. Modernissima è un’affermazione di Calvino contenuta in una lettera a Timpanaro del 7 luglio 1970: «L’uomo è solo la migliore occasione a noi nota che la materia ha avuto di dare a se stessa informazioni su se stessa». Anche perché poco oltre ha modo di chiosare che nella sua ricerca (nella sua poetica?) ciò significa fare i conti con «un processo di conoscenza-autotrasformazione-memorizzazione (cioè: lavoro)». Un Calvino materialista e postumano (“anantropologico”), o comunque aperto a quelle questioni che oggi affrontiamo quando parliamo di antropocene? Certamente sì, e la dimensione cosmicomica e combinatoria della sua opera è lì a testimoniarlo

Infine, gli ultimi dieci anni, 1975-1985, sono isolati all’insegna di una forma di scetticismo e di pessimismo, in virtù del quale – dice Fineschi – Calvino giunge alla consapevolezza che uscire dal labirinto è impossibile. Anche il suo illuminismo perde colpi, sebbene lo scrittore non vi rinunci mai del tutto. Eppure, in qualche modo sconfitto, non ripiega sull’irrazionalismo e sull’individualismo, e testimonia fino alla fine la centralità della precisione, della coerenza concettuale, di una “morale rigorosa”. Perché ciò costituisce anche una questione di stile letterario, oltre che di vita e di pensiero.

Sono conclusioni molto interessanti: un “comunista senza comunismo”, disilluso ma ancora combattivo. Forse, nel discorso di Fineschi certi maestri francesi di Calvino, Blanchot e Barthes in testa, avrebbero potuto trovare uno spazio maggiore, anche in relazione al côté politico del discorso. Che nel 1984 Calvino e Luciano Berio si occupassero di Un re in ascolto riflettendo esplicitamente di potere e rivoluzione, non è cosa del tutto trascurabile, anche perché l’ascolto del re è quello su cui Barthes aveva lavorato pochi anni prima. Ma sono, a ben vedere, sottigliezze, che possono solo sfaccettare il convincente quadro interpretativo di Fineschi: il quale, calvinianamente, è sempre molto puntuale e limpido, anche quando in gioco ci sono questioni tutt’altro che semplici.

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