Vale la pena morire per Kiev?
di Gerardo Lisco
Il quesito che attraversa oggi il dibattito europeo richiama alla memoria un precedente storico ben noto. Nel 1939, alla vigilia della Seconda guerra mondiale, l’opinione pubblica si domandava se valesse la pena “morire per Danzica”, ossia affrontare un conflitto mondiale per difendere l’indipendenza della Polonia. Oggi, a oltre tre anni dall’invasione russa, la stessa domanda si ripropone con un nuovo volto: vale la pena morire per Kiev?
Il disimpegno americano e la responsabilità europea
Le recenti dichiarazioni di Donald Trump, riportate dalla stampa come un sostegno incondizionato a Zelensky, vanno lette in modo diverso. Al di là della retorica, gli Stati Uniti hanno ridotto le forniture militari, segnalando un progressivo disimpegno. Il messaggio implicito è chiaro: l’Ucraina non è più una priorità strategica per Washington, bensì un problema che l’Europa deve gestire in prima persona. In parallelo, i media occidentali hanno intensificato la narrazione di un conflitto imminente. Si moltiplicano notizie su incursioni russe nei cieli della NATO, sull’abbattimento di droni e missili in Polonia, sui timori dei Paesi baltici. Persino ex generali arrivano a indicare date precise per lo scoppio della Terza guerra mondiale. Questo crescendo mediatico sembra rispondere più all’esigenza di preparare l’opinione pubblica a un’escalation che a un’analisi realistica della situazione.
Il confronto con il 1939
Il paragone con il 1939, tuttavia, mostra profonde differenze. Allora le opinioni pubbliche europee, pur segnate dalla Grande Guerra, erano ancora disposte a combattere per ideali forti: la nazione, l’onore, il sacrificio. Le masse rispondevano con entusiasmo ai richiami patriottici, come dimostrano i cinegiornali dell’epoca e i discorsi infuocati di leader come Winston Churchill. Oggi, al contrario, le società europee hanno interiorizzato l’idea di un’Unione nata per garantire la pace e per prevenire nuovi conflitti. Lo stesso processo di integrazione, avviato con la CECA e proseguito con il mercato unico e l’euro, si fondava sulla logica di mettere in comune risorse economiche per disinnescare rivalità storiche, in primo luogo quella tra Francia e Germania. L’Europa unita non era concepita come una potenza militare, ma come un progetto di pace.
Opinione pubblica e legittimità politica
Ecco perché la domanda rimane centrale: i governi europei hanno davvero valutato se i propri cittadini, e in particolare i giovani, sarebbero disposti a combattere e morire per Kiev? Macron, Meloni, Merz e gli altri leader sembrano eludere il problema, o forse confidano che un’opinione pubblica disorientata possa essere gradualmente convinta della necessità della guerra. Ma senza consenso popolare nessun conflitto può essere legittimato. Le società occidentali, soprattutto quelle degli Stati fondatori dell’UE, sono cresciute in un contesto pacifico, in cui concetti come Stato, Patria e Onore hanno perso centralità politica e culturale. Dopo decenni di pace e di benessere, appare difficile immaginare che le nuove generazioni siano disposte a sacrificarsi in nome di un progetto che percepiscono come lontano e guidato da élite tecnocratiche.
L’Unione Europea tra funzionalismo ed emergenza bellica
L’Unione Europea non è uno Stato, perché non dispone né di un popolo, né di un territorio, né di una sovranità paragonabile a quella nazionale. È piuttosto un’associazione di Stati legata da trattati internazionali, validi solo se ratificati dai Parlamenti. La sua costruzione è stata di natura funzionalista: prima la CECA, poi il mercato unico e la moneta comune. Una logica economica, che ha dato priorità alla crescita e alla stabilità dei mercati, non alla costruzione di una comunità politica. Oggi quella stessa logica viene trasferita sul piano della difesa. Bruxelles propone un piano di riarmo da circa 800 miliardi di euro, finanziato in deficit e con strumenti fuori dal Patto di stabilità. Ma mentre la Germania ha margini per spendere, molti altri Paesi saranno costretti a tagliare la spesa sociale. Così, prima ancora di chiedere ai giovani di andare al fronte, l’Unione ipoteca il loro futuro, riducendo welfare e prospettive economiche.
Conclusione: una domanda inevasa
Dopo tre quarti di secolo in cui si è lavorato a smantellare i vecchi valori di sacrificio e appartenenza nazionale, è arduo pensare che milioni di giovani europei possano immolarsi per Kiev. La tecnocrazia e le oligarchie europee possono mobilitare risorse economiche, ma difficilmente potranno suscitare il consenso necessario a una guerra. La domanda che resta aperta è semplice ma decisiva: vale davvero la pena morire per Kiev? Senza una risposta condivisa dall’opinione pubblica, ogni progetto di escalation rischia di restare non solo politicamente fragile, ma anche storicamente insostenibile.