Gaza, la commedia della “pace”
di Mario Lombardo
Dopo la sbornia mediatica della giornata di lunedì, seguita al grottesco intervento di Trump al parlamento israeliano e alla firma a Sharm El-Sheikh del “piano di pace” per mettere fine al genocidio palestinese, la tenuta della fragile tregua in atto a Gaza resta minacciata da una lunga serie di incognite, quasi nessuna delle quali affrontata dal documento partorito dal presidente americano e dal primo ministro/criminale di guerra Netanyahu. Quello che è andato in scena in Egitto, alla presenza anche di svariati leader europei, è un tentativo di cancellare del tutto la realtà del genocidio e le responsabilità israeliane, occidentali e dei regimi arabi sunniti, proponendo un’immagine semplicemente assurda della “comunità internazionale” come forza di pace. Il tutto mentre si sta al contrario cercando di implementare l’ennesimo progetto neo-coloniale che calpesta i diritti della popolazione palestinese e cerca di rafforzare il controllo sull’intera regione degli Stati Uniti e dello stato ebraico.
Dal genocidio alla redenzione
Il processo che ha portato agli eventi dell’ultima settimana e allo stop dell’aggressione sionista nella striscia è stato studiato meticolosamente per allentare le pressioni dell’opinione pubblica di tutto il mondo sui governi complici dello sterminio palestinese.
Il primo beneficiario è il governo americano che, nonostante l’ondata di apprezzamenti piovuta da virtualmente tutti i governi del pianeta, sarebbe stato in grado di fermare il genocidio in qualsiasi momento se realmente avesse voluto farlo. Trump è passato così da un giorno all’altro da primo responsabile del genocidio – assieme a Netanyahu e all’ex presidente Biden – a candidato al premio Nobel, con buona pace della sterile, se non controproducente o “anti-semita”, mobilitazione prolungata delle forze della società civile a sostegno della causa palestinese.
La messa in scena di Sharm El-Sheikh dovrebbe servire in definitiva a ripulire l’immagine di Israele, così da fare dimenticare due anni di tentativo di cancellazione di un intero popolo e impedire che i suoi leader politici e militari affrontino un giorno la giustizia. In questa prospettiva si inseriscono le precoci dichiarazioni, più o meno esplicite, di molti negli ambienti governativi israeliani per sollecitare l’Europa a liquidare le modestissime “sanzioni” adottate nei mesi scorsi. Questa campagna punta quindi a fare in modo che l’opinione pubblica internazionale e i media tornino a trattare Israele come uno stato normale e legittimo, non un’aberrazione che opera quotidianamente al di fuori di ogni legge morale e del diritto internazionale.
Uno sforzo che, in termini concreti, è finalizzato a permettere al regime sionista di continuare ad agire con le stesse identiche modalità. Infatti, le condizioni scritte nel “piano di pace” di Trump danno carta bianca a Tel Aviv per riprendere l’aggressione e il genocidio palestinese non appena Netanyahu trovi la giustificazione per attribuire a Hamas la responsabilità del mancato rispetto del cessate il fuoco. La logica insita nel progetto trumpiano è in sostanza di premiare il carnefice e punire la vittima.
Il ribaltamento di ogni principio etico e della stessa realtà oggettiva dei fatti di questi ultimi due anni si è osservato nella sua espressione più raccapricciante nel discorso di lunedì di Trump alla Knesset. Il presidente americano ha di fatto celebrato i crimini di guerra commessi dal regime sionista, ammettendo esplicitamente la piena sintonia tra Washington e Tel Aviv. Per facilitare la “pace”, ha spiegato tra l’altro Trump, sono state decisive le armi americane. “Ti abbiamo consegnato tutte le armi”, ha affermato rivolgendosi direttamente al premier israeliano, “e ne hai fatto buon uso”.
Tregua di breve durata?
Da giorni, Trump sostiene davanti alle telecamere che la guerra a Gaza è definitivamente terminata e che la tregua da lui promossa terrà a lungo. L’inquilino della Casa Bianca ha investito molto della sua immagine nel “piano di pace”, così da rendere problematica una ripresa in temi brevi dell’aggressione israeliana. Le parole e le promesse nel caso degli Stati Uniti, e ancora peggio di Israele, valgono tuttavia meno di zero e Netanyahu, come accennato in precedenza, potrà liberamente citare un qualche esempio di violazione degli accordi da parte di Hamas o di altri gruppi della resistenza palestinese per rilanciare le operazioni militari ora che gli “ostaggi” ancora in vita sono stati liberati.
Le rassicurazioni di Trump si sono d’altra parte subito scontrate con le dichiarazioni tutt’altro che reticenti di personalità importanti del regime di Netanyahu. La più inquietante è stata forse quella del ministro della Difesa, Israel Katz, il quale in un post su X ha promesso la distruzione di tutti i “tunnel del terrore” di Hamas a Gaza dopo la liberazione dei prigionieri ancora nelle mani del movimento di liberazione palestinese. Per il criminale di guerra Katz questa sarebbe una condizione prevista dall’accordo in relazione alla “smilitarizzazione” della striscia e alla “neutralizzazione delle armi di Hamas”.
Queste due clausole non sono state però sottoscritte da Hamas, che ha legittimamente sostenuto che il disarmo dovrà essere discusso nel quadro di un progetto di emancipazione statale palestinese. Finché ciò non avverrà, la consegna delle armi è esclusa, anche perché costituirebbe un suicidio per l’organizzazione e la perdita di uno strumento determinante per la lotta palestinese contro l’occupazione. Anche Netanyahu ha parlato in termini simili a quelli di Katz sulla “smilitarizzazione” della striscia. Se le intenzioni del regime sionista fossero confermate, l’obiettivo potrebbe essere evidentemente raggiunto solo con la forza.
Già lunedì sono circolati avvertimenti da parte dello stato ebraico sulla mancata consegna di tutti i cadaveri degli “ostaggi” morti durante i due anni di guerra, spesso proprio a causa delle bombe israeliane. Netanyahu sa benissimo che risulta complicato individuare i corpi sotto le macerie in un territorio che il suo stesso regime ha distrutto quasi completamente. Ciononostante è stato emesso una sorta di ultimatum per la consegna dei corpi. Questo pretesto resta quindi ad oggi il più probabile per una immediata ripresa del genocidio. Intanto, martedì Israele ha fatto sapere che non riaprirà il valico di Rafah agli aiuti umanitari proprio per via della mancata consegna di tutti i 28 restanti cadaveri degli “ostaggi” israeliani.
Quale futuro per Gaza?
Simili contraddizioni e punti oscuri riguardano anche le questioni cruciali del “piano di pace” da discutere nella seconda fase, dalla forma dell’organo di governo teoricamente provvisorio alla durata della fase di evacuazione delle forze di occupazione dalla striscia, dalla teorica creazione di uno stato palestinese fino al ruolo di Hamas. Sulla soluzione a due stati, ovvero la nascita dello stato di Palestina, si sta ripetendo la farsa degli ultimi decenni con cui l’Occidente e i regimi arabi sunniti hanno manifestato appoggio nominale per questa ipotesi garantendo nel concreto la copertura pressoché totale a Israele per procedere con l’ampliamento degli insediamenti e tutti gli altri crimini commessi contro la popolazione palestinese.
I leader arrivati lunedì a Sharm El-Sheikh, in particolare i regimi arabi sunniti, hanno probabilmente ottenuto la promessa americana per il lancio di un processo in teoria destinato a creare uno stato palestinese. Questo impegno è considerato cruciale per contenere le pressioni domestiche nei paesi arabi, dove le rispettive popolazioni sono schierate praticamente all’unanimità per la causa palestinese, così da continuare a coltivare relazioni amichevoli con Israele sotto l’ombrello della “sicurezza” americana. Il problema è che Netanyahu e il suo gabinetto di fanatici di ultra-destra insistono anche pubblicamente nell’escludere la possibilità di consentire uno stato palestinese, sia pure guidato dalla ultra-corrotta e ultra-screditata Autorità Palestinese.
In ogni caso, il progetto che l’Occidente ha in serbo per i palestinesi è tutt’al più quello di un’entità svuotata di significato, totalmente smilitarizzata e sottoposta perennemente al protettorato americano, oltre che alla totale discrezionalità israeliana di condurre operazioni militari e decidere della vita (e della morte) dei suoi abitanti. In questi giorni, così come nelle scorse settimane durante l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite quando erano arrivati numerosi riconoscimenti ufficiali dell’inesistente stato palestinese, si tace completamente anche sulla questione degli insediamenti illegali in Cisgiordania nei territori che dovrebbero essere inclusi nel futuro stato. È semplicemente ridicolo immaginare una soluzione relativamente rapida e non violenta a questa realtà imposta in violazione del diritto internazionale da Israele in questi decenni davanti alla colpevole impotenza, per non dire complicità, dell’Occidente.
La questione dell’orwelliano “Board of Peace” incaricato di governare transitoriamente Gaza è un altro punto infuocato, non da ultimo perché dovrebbe includere il criminale di guerra a piede libero ed ex premier britannico Tony Blair, oltre che presieduto dallo stesso Trump. L’architetto, assieme a Bush jr., dell’invasione e distruzione dell’Iraq nel 2003 suscita giustamente il più viscerale disgusto tra i palestinesi e i popoli arabi in generale e potrebbe essere alla fine escluso dall’organo di governo previsto dal piano Trump. Ciò non cambia una realtà che vedrebbe implementato un meccanismo di controllo sulla striscia a beneficio delle potenze occidentali e di Israele, senza che i palestinesi abbiano voce in capitolo o reali diritti.
Stesso discorso vale più o meno per la forza di interposizione internazionale che dovrebbe garantire l’applicazione della tregua e sostituire le forze di occupazione se e quando lasceranno Gaza. Non sono chiari i contorni, le regole d’ingaggio e la composizione del contingente immaginato dalla Casa Bianca, il quale dovrebbe teoricamente contribuire al processo di disarmo di Hamas, che però non ha acconsentito a procedere in questo senso. Anche in questo caso, sempre che si arrivi al dispiegamento effettivo di questa forza, sarà comunque e sempre Israele a detenere il controllo su quanto accade nella striscia.
Più che un “piano di pace”, quello di Trump è un progetto regionale che punta a raggiungere obiettivi strategici diventati impossibili da conseguire con le armi, sia per la resistenza palestinese e dei suoi alleati sia per il dilagare in tutto il mondo dell’opposizione alla brutalità sionista. Obiettivi che riflettono le mire di dominio di Stati Uniti e Israele sul Medio Oriente e le sue risorse, tramite anche l’integrazione nei loro piani dei regimi sunniti, disposti senza nessuno scrupolo a liquidare la causa palestinese dietro lo slogan del “piano di pace”.
Un disegno egemonico che porta direttamente allo scontro con l’Iran e le forze affiliate a questo paese per distruggere qualsiasi forma di opposizione. A ostacolare questo progetto resterà soltanto la resistenza, sopravvissuta a due anni di genocidio e violenze indicibili e con ogni probabilità in grado di sopravvivere anche alle fantasie neo-coloniali dell’occupante della Casa Bianca e dei macellai alla testa dell’entità sionista.
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