Tendenze della guerra globale: la depurazione dei fronti interni negli Stati Uniti e in Palestina
di Antiper
Esiste oggi un riconoscimento quasi unanime sul fatto che il dominio strategico – economico, finanziario, militare, culturale – del Nord Globale [1] stia per finire e che stia nascendo una nuova configurazione multipolare del sistema-mondo. Si tratta di uno scenario da incubo per l’imperialismo che su quel dominio aveva fondato la propria capacità di contrastare la tendenza storica al declino del saggio di profitto nei settori produttivi.
In una prima fase la cosiddetta “globalizzazione” aveva permesso al Nord Globale di conservare alti livelli di rendita finanziaria e di consumo di massa, nonché di contrastare la sovrapproduzione di merci e capitali che si era manifestata tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70 e che aveva concorso a spingere Nixon verso il famoso “shock” del 1971.
Ma alcune aree del Sud Globale sono riuscite a sfruttare le opportunità derivanti dalle delocalizzazioni occidentali per far crescere le proprie economie e la propria indipendenza (politica, tecnologica…). L’esempio della Cina è eclatante.
Con il Nord Globale che declina e il Sud Globale che emerge la crisi dell’imperialismo accelera e con essa accelera la tendenza a ricorrere alla guerra come estrema ratio per conservare il proprio dominio. Quando infatti non si riesce più a dominare con le buone diventa inevitabile tentare di dominare con le cattive. L’avanzata della NATO verso la Russia si spiega come mossa preventiva in un’ottica di guerra per la distruzione di una potenza che dopo la fase servile degli anni ’90 aveva deciso di ricostruire la propria potenza politica.
In realtà, la guerra per la ristrutturazione del dominio globale dopo la caduta dell’URSS è in corso dai primi anni ’90 (si pensi alla prima guerra in Iraq o alla guerra civile in Jugoslavia), ma fino a poco tempo fa essa non si era ancora presentata sotto forma di scontro diretto tra grandi potenze; questo è accaduto a partire dal 2022 con la guerra in Ucraina dove a fronteggiarsi direttamente o quasi sono la Russia da un lato e il blocco NATO dall’altro.
I focolai di crisi forieri di guerra sono molti e gli Stati Uniti ne aggiungono di nuovi ogni giorno. In palio c’è il dominio del mondo per i prossimi decenni e, nel caso degli USA, la sopravvivenza stessa di un sistema che sulla predazione sistematica attraverso il controllo del sistema finanziario e monetario ha costruito la sua forza recente.
Il declino spinge l’imperialismo alla guerra globale e la guerra ha bisogno di retrovie sicure. Anche in questo senso possono essere lette le pulizie etniche in corso in Palestina e, in senso lato, negli USA (con le deportazioni di immigrati effettuate dall’agenzia governativa ICE) ovvero come neutralizzazione preventiva di potenziali “quinte colonne”. Entrambe le manovre, pur avendo ulteriori obiettivi immediati (come l’espansione territoriale israeliana o la riduzione delle migrazioni dall’America Latina in vista di un pur improbabile reshoring delle attività produttive negli USA), servono a “depurare” i rispettivi paesi da componenti etniche che sono, o potrebbero facilmente diventare, pericolosi fronti interni in caso di conflitto aperto.
Per fare un esempio, in queste settimane l’amministrazione Trump ha attaccato in modo particolarmente diretto il Venezuela accusandolo di proteggere il narco-traffico e minacciandolo apertamente di intervento militare per rovesciare il Presidente Nicolas Maduro; ha dispiegato piccoli contingenti navali nelle acque antistanti al paese caraibico e ha condotto attacchi pirotecnici verso imbarcazioni di presunti narcos.
Non c’è bisogno di dire che l’obbiettivo dell’attacco a Maduro non ha nulla a che fare con il commercio di droga (usato sistematicamente dalla CIA come fonte di finanziamento per le sue cover actions), ma piuttosto con l’intenzione di riappropriarsi, attraverso qualche “quisling” a la Guaidò, delle straordinarie riserve di petrolio del paese e di abbattere un sistema politico che da due decenni tiene testa all’imperialismo. Ebbene, è stato osservato che negli USA ci sono centinaia di migliaia di venezuelani i quali, in caso di guerra aperta al loro paese, potrebbero diventare un problema interno per gli USA, un problema che sarebbe molto complicato gestire come fu fatto durante la seconda guerra mondiale quando migliaia di cittadini americani di origine giapponese vennero internati nei campi di concentramento.
L’operazione ICE si configura come deportazione di massa di immigrati di origine latinoamericana (soprattutto messicani) e, stando alle dichiarazioni del Governo, avrebbe prodotto l’abbandono “volontario” o l’espulsione di decine di migliaia di persone. A marzo, del resto, c’era già stata un’ondata di revoche dei permessi di soggiorno di immigrati – guarda caso – venezuelani, cubani, haitiani e nicaraguensi [2].
La questione del fronte interno è ancora più evidente se si guarda al Medio Oriente perché i palestinesi non hanno mai accettato la propria normalizzazione-sottomissione allo stato fascista israeliano. Se Israele vuole/deve diventare una gigantesca fortezza che opera come avamposto strategico in Medio Oriente per conto del Nord Globale allora deve annientare quello che è stato definito “asse della Resistenza”: Palestina (fronte interno), Libano, Siria, Iran, Iraq, Yemen (fronte esterno). Se qualcuno pensa che la guerra permanente israeliana sia solo il frutto della cattiveria sionista si sbaglia di grosso. Israele è innegabilmente un paese terrorista e genocida, ma è anche il proxy del Nord Globale nel contesto del Medio Oriente; è questo, e non certo le chiacchiere sulla subalternità statunitense ed europea agli ebrei, che spiega la difesa incondizionata che riceve il regime sionista.
Proprio in quanto entità impiantata artificialmente, Israele non potrà mai normalizzare le sue relazioni con i popoli dell’area (aldilà di qualche accordo di facciata stipulato con le petro-monarchie arabe vendute all’Occidente) e dovrà rimanere sempre in stato di guerra imminente o dispiegata. Netanyahu ha voluto esprimere la consapevolezza di questo fatto affermando che Israele deve diventare come Sparta, ma la filosofa ebrea Hannah Arendt aveva fatto lo stesso paragone dandogli un significato ben diverso [3].
È importante e doloroso constatare il fatto che in Israele i cittadini ebrei sono quasi unanimemente favorevoli alla persecuzione e alla deportazione del popolo palestinese. Similmente, negli Stati Uniti, una grossa fascia di elettorato – che possiamo identificare grossolanamente come appartenente alla piccola e media borghesia WASP impoverita – guarda con favore alla persecuzione e alla cacciata degli immigrati. Lo stesso avviene in quasi tutti i paesi europei, Italia compresa.
La crociata contro gli immigrati (e in Israele contro il popolo palestinese che immigrato non è, ma viene comunque percepito come “impurità etnica” da eliminare) non nutre solo gli obiettivi più ovvi, ma si inserisce in una logica di preparazione alla guerra e di eliminazione preventiva di ogni potenziale resistenza interna alle operazioni dell’impero in crisi.
Da questo punto di vista, le deportazioni in Israele e negli USA sono veri e propri atti di guerra rivolti non solo contro i deportati, ma anche contro tutto il resto del mondo.
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