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Il cane del deserto

di Enrico Tomaselli

Donald Trump è uno abituato a vendere la pelle dell’orso prima di averlo catturato. Lo ha fatto – giustappunto… – con l’orso russo, e adesso ci rifà con l’ingarbugliata matassa mediorientale. Sta dando per prossimo alla soluzione il conflitto di Gaza, in virtù dell’ennesimo piano predisposto dalla sua amministrazione, che però non tiene conto della volontà delle parti in causa – la Resistenza palestinese e Israele – che per ragioni diverse e opposte semplicemente non accetteranno mai il suo piano.

Che, nella sua ultima versione, anche a prescindere dalla oscena ipotesi di affidare a Tony Blair la guida di questo organismo internazionale che dovrebbe governare i territori palestinesi, quasi una riedizione del mandato britannico sulla Palestina, contiene degli elementi assolutamente inaccettabili sia per Netanyahu che per Hamas.

Ci sono delle previsioni di tempistica dell’attuazione che sarebbero, già di per sé, degli enormi ostacoli: la Resistenza dovrebbe liberare tutti i prigionieri israeliani subito, l’IDF dovrebbe ritirarsi gradualmente da Gaza – due condizioni sfavorevoli ai palestinesi. E altre di poco chiara definizione: la composizione della forza internazionale che dovrebbe garantire la sicurezza durante il periodo transitorio (cinque anni), non si sa se composta da forze ONU o da contractors appositamente arruolati.

Ma soprattutto, il disegno di un’unica entità politica territoriale, che unisca la Cisgiordania e la Striscia di Gaza, sia pure sotto la forma di questo nuovo mandato paracoloniale, ma con la prospettiva di un successivo passaggio dell’autorità all’ANP – sia pure profondamente riformata come richiesto dai mandatari – è decisamente una soluzione totalmente inaccettabile per Israele. Dopo aver ripetuto sino allo strenuo, in casa e in ogni contesto internazionale, che non consentirebbe mai la nascita di uno stato palestinese, seppure in forma embrionale come questa, un ribaltamento di posizione a 180° è assolutamente impensabile. Oltretutto, provocherebbe quasi sicuramente una crisi di governo, e potenzialmente una secessione del cosiddetto regno di Giudea e Samaria. Per non parlare del fatto che, ovviamente, lascerebbe comunque irrisolti una serie di nodi non di poco conto, come la questione dei territori illegalmente occupati in Cisgiordania, quella delle migliaia di palestinesi in detenzione amministrativa, e quella del diritto al ritorno.

Sull’altro versante, si chiede alla Resistenza semplicemente di arrendersi. Ai combattenti che consegnano le armi si proporrebbe una amnistia, mentre ai leader politici e militari probabilmente si prospetterebbe l’esilio. In buona sostanza, la Resistenza, che sia pure a prezzo di enormi sacrifici ha saputo non solo resistere, ma mettere così in difficoltà l’occupante israeliano da rendere necessario immaginare questa via d’uscita, dovrebbe buttare nella spazzatura decenni di lotta di liberazione, per consegnare la propria terra a un governo di collaborazionisti del nemico, per di più ulteriormente emendati da qualsivoglia parvenza di sostanziale indipendenza. E tutto ciò, appunto, nel momento in cui l’occupante sta per raggiungere il suo punto di rottura.

Una tale proposta di resa incondizionata è palesemente inaccettabile per la Resistenza, anzi direi persino provocatoria. Al di là dell’ottimismo trumpiano – che spero sia solo di facciata, altrimenti c’è da pensare che siamo davvero in presenza di un livello clinico di stupidità – risulta difficile credere che nell’amministrazione USA ci sia qualcuno che crede davvero a questa favoletta. Non solo i combattenti palestinesi non si arrenderanno mai, ma se anche venissero uccisi tutti il seme della Resistenza continuerebbe a dare i suoi frutti.

Ovviamente, domani o nei giorni successivi vedremo quale sarà la reazione israeliana a questa proposta. Netanyahu vola a Washington per incontrare Trump, e tanto per chiarire i termini della questione si porta dietro i membri del consiglio dei coloni della Cisgiordania…

Seppure la proposta contiene qualche aspetto appetibile per Tel Aviv – soprattutto l’immediata liberazione dei prigionieri – l’intero pacchetto è indigeribile. Ed è difficile credere che, all’improvviso, Trump sia in condizione di imporne l’accettazione al governo israeliano. Tra l’altro, se guardiamo a quanto sta accadendo negli Stati Uniti in queste settimane, è abbastanza evidente che – al contrario – le lobbies sioniste stanno rafforzando il proprio controllo negli states, in perfetto accordo con l’amministrazione USA. Anzi, direi che si sta saldando un all’alleanza ancora più forte, e che riguarderà non soltanto la politica estera statunitense, ma anche quella interna, in una sorta di reciprocamente proficuo do ut des.

Qualsiasi ottimismo, pertanto, appare fuori luogo. Questo piano è pura aria fritta. E del resto, essendo stato partorito nello studio ovale, non poteva essere altrimenti. Non è irrilevante ricordare, ancora una volta, che ottant’anni di occupazione illegale, così come il genocidio di Gaza e la distruzione sistematica della sua intera superficie, non sarebbero mai stati possibili senza l’appoggio e le armi costantemente fornite dagli Stati Uniti. Ciò che è stato fatto in questi due anni è come se fosse stato fatto dall’US Army (e del resto almeno 20.000 statunitensi hanno prestato servizio nell’IDF, durante questa guerra). Parafrasando Tacito, si potrebbe dire che sono stati proprio gli Stati Uniti a fare un deserto, e ora vorrebbero chiamarlo pace.

Quindi, è pressoché impossibile che possa venire da Washington la soluzione.

E se adesso, dopo aver sciolto il cane, si accorgono che non solo non è stato capace di uccidere la preda, ma ha fatto talmente tanti danni che il mondo comincia a schifare bestia e padrone, ci vuole ben altro che questo risibile piano, per uscirne fuori.

Sarà anche difficile, ma quando un cane ha la rabbia, si abbatte.

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