Guerra e controrivoluzione: i conti con Lenin
di Mimmo Porcaro
1. Dalla pace alla guerra
Viviamo in tempi tumultuosi, tempi di guerra. Qui non servono più le idee maturate durante la lunga, ipocrita e sanguinosa “pace occidentale”, l’epoca del presunto unipolarismo Usa, della vantata globalizzazione. Oggi, quando gli stati capitalistici di cui si era profetizzata l’irrilevanza si militarizzano verso l’esterno e verso l’interno, chi intende superare l’attuale organizzazione sociale non può cavarsela con una politica fatta solo dell’affermare la propria identità via social media, senza preoccuparsi di convincere chi la pensa diversamente; o fatta solo del convivere pur conflittualmente con gli attuali apparati di stato, senza mai preoccuparsi di accumulare le forze per modificarli da cima a fondo.
In tempo di guerra non si può agire e pensare come in tempo di pace. E bisogna riprendere il confronto con chi nella guerra ha agito e pensato: in particolare con Lenin, che ha colto proprio il nesso tra guerra e trasformazione sociale, tra guerra e rivoluzione. Certo, non siamo più nel 1917, e “l’epoca dell’imperialismo e della rivoluzione proletaria” si è trasformata (per tentare una definizione provvisoria), in epoca dell’imperialismo triadico[1] e della rivoluzione antiliberista. Una rivoluzione che ha per oggetto il controllo politico (fino alla pubblicizzazione) dei grandi gruppi capitalistici e della stessa circolazione mondiale dei capitali, e che può avere forme diversissime, tra cui quella socialista e lato sensu proletaria. Ma in ogni caso, sempre di imperialismo e rivoluzione si tratta: è utile quindi rileggere Lenin ben oltre la santificazione o la dannazione, superando la rimozione del suo pensiero operata per decenni sia da coloro che lo hanno ripetuto astrattamente, e quindi sterilizzato, sia da coloro che lo hanno messo da parte perché era un ingombro per chi voleva eludere la questione del potere politico per meglio negoziare con esso[2].
Non si può dunque che accogliere con favore articoli come quello che Emiliano Brancaccio ha pubblicato qualche tempo fa, col titolo “Momento Lenin: tra debito, dazi e guerra”[3], nel quale si sostiene che il tempo presente mostra la validità della tesi dell’inevitabile esito bellico delle contraddizioni intercapitalistiche, tesi centrale del famoso (e inutilmente esorcizzato) saggio leniniano sull’imperialismo[4].
Secondo Brancaccio viviamo quindi in un “momento Lenin”: però, precisa l’autore, “il riferimento non è al rivoluzionario bolscevico ma all’infaticabile studioso”, giacché l’attuale rassegnazione della classe sfruttata fa sì che alla guerra non si risponda con ipotesi rivoluzionarie. “Con la rivoluzione liquefatta, alle masse sfugge persino la consolazione della scienza rivelatrice. Momento Lenin, memento Lenin”.
Brancaccio ha ovviamente ragione nel non vedere all’orizzonte una rivoluzione: l’equazione tra crisi acuta del capitale e prospettiva rivoluzionaria si è rivelata erronea (e pericolosa) anche quando esisteva un movimento di classe del tutto incomparabile a quello attuale, figuriamoci oggi. Ma l’assenza di una situazione rivoluzionaria non implica che ci si debba riferire solo al Lenin studioso, giacché il nostro ha molto da dirci non solo in merito alla fase pienamente rivoluzionaria, ma anche in merito a tutto lo spazio politico che si apre (o si chiude) nel corso di una guerra: come emerge dalla lettura di alcuni suoi testi del periodo 1914-1917, coevi del più noto L’imperialismo. Testi che ci aiutano, assieme ad altri lavori, a ragionare sulle condizioni che potrebbero consentire, all’interno della transizione egemonica mondiale, un processo di transizione sociale, ossia relativa al modo di produzione.
Tra le molte suggestioni che da quelle pagine emergono, estrarremo ed esporremo assai sinteticamente soltanto quelle che riguardano l’importanza dell’analisi concreta e del metodo dialettico, la nozione di epoca, quella di pace imperialista e quella di situazione rivoluzionaria; senza negarci una postilla sulla questione nazionale.
2. Analisi concreta. La “duplice fedeltà” di Lenin
Se è vero che “schivare il concreto è uno dei fenomeni più inquietanti della storia dello spirito umano”[5] è altrettanto vero che Lenin non contribuisce per nulla a questa pericolosa elusione. Infatti l’attenzione alla specificità di ogni particolare formazione economico-sociale e l’assunzione dell’analisi concreta della situazione concreta come premessa irrinunciabile dell’azione lo accompagnano fin dagli esordi, unendosi all’esortazione a fare “agitazione” di massa parlando di verità concrete, ossia direttamente esperibili da chiunque [6]. Questo imperativo teorico e pratico sorge certamente dal confronto con una realtà – quella russa – assai divergente da un modello lineare di sviluppo capitalistico. Ma deriva anche dalla serietà, dalla severità, a cui Lenin si trovava costretto dal confronto inevitabile con la memoria del fratello maggiore Aleksandr, giustiziato dal regime zarista per aver organizzato un attentato contro il sovrano[7]. Una morte che costituiva sia una pesantissima eredità etica, sia una costante esortazione – visto il fallimento del terrorismo – a coniugare impulso morale e disincantata valutazione dei fatti. Cosicché il pensiero e l’azione di Vladimir Il’ič sono sempre il risultato di una tensione irrisolta fra comprensione delle leggi generali del capitalismo e della lotta di classe e attenzione alle loro concrete e ogni volta originali forme di realizzazione; fra obiettivo storico della rivoluzione proletaria e valutazione della differenza di ogni particolare fase politica, e della conseguente esigenza di mutare tattica e parole d’ordine a ogni svolta significativa.
Questa “duplice fedeltà” di Lenin, fedeltà ai principi valoriali e analitici e contemporaneamente alla situazione data, viene particolarmente alla luce all’inizio della prima guerra mondiale, quando la feroce realtà del conflitto europeo e la contemporanea débacle della II Internazionale, impongono una riflessione radicale. E non a caso è proprio in quel momento che Lenin, mentre raccoglie materiali per lo studio dell’imperialismo, decide di confrontarsi con la Scienza della logica di Hegel (a Berna, in un isolamento imposto dalla forzata lontananza dalla Russia, ma coerente anche con la solitudine teorica che accompagna ogni momento cruciale[8]), per tornare alle radici di quel metodo dialettico che è per lui l’unica forma di pensiero capace di porsi all’altezza dei due grandi scontri di quel tempo: la guerra tra nazioni capitalistiche e la scissione del movimento operaio internazionale. Il filologo dirà quanto questa lettura di Hegel, rimasta allo stato di sintetiche riflessioni e note a margine, poi raccolte nei Quaderni filosofici [9], costituisca o meno una rottura con alcune delle impostazioni precedenti – in particolare con Materialismo ed empiriocriticismo[10]. Qui ci limitiamo a notare che la necessità della connessione tra analisi delle leggi generali e studio delle forme particolari del capitalismo non solo viene nei Quaderni costantemente ribadita, ma viene anche arricchita presentandola come legame tra l’ automovimento della realtà – ossia il suo sviluppo logico interno – e il carattere discontinuo che questa dinamica assume, il suo procedere per salti qualitativi e attraverso il costante mutamento di segno dei fenomeni, tale che ciascuno di essi può avere significati del tutto opposti e trasformarsi dialetticamente nel proprio contrario[11]. La variazione insita in questo sviluppo è quindi coessenziale al capitalismo, è frutto proprio della persistenza di una legge generale che però si esprime in maniera dialettica.
Tutto ciò contribuirà ad affermare sia la necessità dell’imperialismo, frutto non già di una scelta politica ma della logica interna del capitalismo, sia la necessità della trasformazione della tattica in relazione alle diverse fasi e forme dell’imperialismo stesso. Trasformazione che, si può dire, costituisce l’oggetto specifico della politica proletaria, perché coglie il momento in cui alla pace imperialista succede la guerra imperialista, in cui una lotta nazionale reazionaria diviene lotta progressiva e, soprattutto, il momento in cui la guerra imperialista si trasforma in rivoluzione proletaria. E proprio la già ricordata trasformazione della guerra in rivoluzione è il principio guida del Lenin degli anni dal 1914 al 1917, è la parola d’ordine di un’epoca intera ed è anzi la connotazione stessa dell’epoca dell’imperialismo e (quindi) della rivoluzione proletaria. Ma tutto ciò, ben noto sia ai leninisti che ai loro detrattori, non è pienamente comprensibile se non si riflette sulla particolare interpretazione leniniana della stessa nozione di epoca.
3. Che cos’è un’ “epoca”?
La nozione di epoca, in Lenin, funziona come ulteriore prescrizione di concretezza. Per lui, infatti, un’epoca non è mai l’affermazione lineare di un unico principio, di un’unica realtà. Essa vede certamente un “protagonista” fondamentale, nel nostro caso l’imperialismo, ma questo protagonista non si presenta mai sulla scena da solo e, soprattutto, la contraddizione fondamentale di cui esso è espressione non si presenta sempre e dovunque con lo stesso grado di chiarezza e necessità.
“Un’epoca è tale appunto perché abbraccia un complesso di guerre e fenomeni molto eterogenei, tipici e non tipici, piccoli e grandi, relativi a paesi progrediti e arretrati. Non tener conto di tali condizioni concrete mediante frasi generiche sull’ ”epoca” significa abusare del concetto di epoca”[12]. Così Lenin. Che altrove precisa“ [I]n ogni epoca ci sono e ci saranno movimenti parziali, singoli, ora in avanti, ora indietro; vi sono e vi saranno diverse deviazioni dal tipo medio e dal ritmo medio del movimento. Non possiamo prevedere con quale rapidità, né con quale successo, si svilupperanno singoli movimenti storici di una determinata epoca. Ma possiamo sapere e sappiamo quale classe sta al centro di questa o quell’epoca e ne determina il contenuto fondamentale, la direzione principale del suo sviluppo, le particolarità essenziali della situazione storica, ecc.. Solo su questa base, cioè tenendo conto in primo luogo dei principali caratteri peculiari delle varie <<epoche>> (e non dei singoli episodi della storia di singoli paesi), possiamo costruire giustamente la nostra tattica; e solo la conoscenza dei lineamenti principali di una data epoca può essere la base che permette di tener conto delle caratteristiche più particolari di questo o quel paese ”[13].
L’epoca è dunque una realtà intrinsecamente disomogenea, discontinua e asincrona. Una volta individuata, attraverso l’analisi oggettiva dei fatti principali, la classe sociale – qui il capitalismo monopolistico-finanziario – protagonista di un’epoca, bisogna analizzare i fenomeni eterogenei che nell’epoca si producono, e connetterli alla dinamica fondamentale per ben valutarne il significato politico, inevitabilmente differenziato nel tempo e nello spazio.
Quanto detto finora vale, è vero, per ogni epoca storica. Ma il capitalismo aggiunge alle differenze che inevitabilmente la storia (proprio in quanto storia) reca con sé, la sua innata tendenza allo sviluppo diseguale e gerarchizzato, che fa di tali differenze e degli squilibri che ne derivano la condizione per il proprio funzionamento. Anche quando fasi particolari, come la cosiddetta globalizzazione, sembrano illusoriamente preludere a un mondo piatto e omogeneo.
4. La “pace imperialista”
L’appena ribadita illusorietà di una lettura irenica della globalizzazione è resa ancor più facilmente comprensibile da un’altra nozione leniniana: quella di pace imperialista, a cui abbiamo accennato poco sopra, che conferma la ricca diversità dei fenomeni che connotano l’epoca dell’imperialismo. Ragionando su Clausewitz, Lenin nota che se la guerra è continuazione della politica con altri mezzi, per capire una guerra, e dunque per capire la sua natura di classe, bisogna capire la politica che l’ha preceduta. Ma lo stesso vale per la pace. Alla guerra imperialista, a meno di una rivoluzione socialista, fa necessariamente seguito una pace imperialista, ossia la continuazione della politica imperialista in altre forme.
“La guerra è la continuazione, con mezzi violenti, della politica che le classi dominanti delle potenze belligeranti applicavano già molto prima dell’inizio delle ostilità. La pace è la continuazione della medesima politica, tenuto conto dei cambiamenti avvenuti, in seguito alle operazioni militari, dei rapporti delle forze avverse”[14]. “[L]a guerra imperialistica non potrà concludersi in altro modo che con una pace imperialistica, a meno che la guerra in corso non si trasformi nella guerra civile del proletariato contro la borghesia”[15].
E appunto imperialista è stata la falsa pace degli anni della globalizzazione, giacché quest’ultima non sarebbe stata possibile senza la precedente subordinazione militare dell’Europa intera e del Giappone, senza la sconfitta pur indirettamente militare dell’Unione sovietica, senza la presenza militare statunitense nei punti strategici del globo e senza le vere e proprie guerre combattute dall’Occidente in Iraq e altrove. E imperialista, e quindi premessa di guerre ulteriori, sarebbe una pace “trumpiana”: una pausa limitata nel tempo e nello spazio, effetto della momentanea contrazione resa necessaria dai gravi squilibri generati (nell’Occidente e nel mondo intero) dall’eccessiva espansione globalista. Come la globalizzazione, anche Trump rappresenta così un momento distinto e ulteriore dell’imperialismo: è il passaggio dalla finzione dell’ordine internazionale alla logica brutale dei puri rapporti di forza; dall’illusione del dominio unipolare all’accettazione realistica ma momentanea di un multipolarismo inteso non come sistema d’equilibrio, ma come teatro di uno scontro continuo per il dominio.
E’ il caso di aggiungere, concludendo su questo punto, che l’esistenza di una pace imperialista gravida delle guerre future dovrebbe indurre il pacifismo a non invocare semplicemente la pace stessa, e a guardare all’origine capitalistica sia della guerra che della sua temporanea e illusoria sospensione.
5. Epoca rivoluzionaria = situazione rivoluzionaria?
Come l’imperialismo, anche la rivoluzione è un epoca[16] e quindi “non deve esser considerata come un atto singolo, bensì come un periodo di tempestose scosse economiche e politiche, di lotta di classe molto acuta, di guerra civile, di rivoluzioni e controrivoluzioni[17]”. E come le contraddizioni dell’imperialismo non si presentano in maniera omogenea e lineare, così la rivoluzione non è sempre all’ordine del giorno.
Perché vi sia una situazione rivoluzionaria è necessario: 1) che le classi dominanti non possano conservare il proprio dominio se non modificandone la forma, e quindi che vi sia una lotta acuta al loro interno; 2) che vi sia un aggravamento delle condizioni di vita delle classi subalterne; 3) che in forza di quanto sopra si registri un rilevante aumento dell’attività delle masse, spinte dalla crisi e dagli stessi strati superiori (mobilitazione bellica, ecc.) “a un’azione storica indipendente[18]”. Ma nemmeno questo è sufficiente “[p]erché la rivoluzione non nasce da tutte le situazioni rivoluzionarie, ma solo da quelle situazioni nelle quali alle trasformazioni obiettive sopra indicate si aggiunge la trasformazione soggettiva, cioè la capacità della classe rivoluzionaria di compiere azioni rivoluzionarie di massa sufficientemente forti per poter spezzare (o almeno incrinare) il vecchio governo, il quale, in un periodo di crisi, non <<cadrà>> mai se non lo <<si farà cadere>>[19]”.
La situazione rivoluzionaria (e ancor più la rivoluzione) è dunque un evento singolare e raro. Tesi rafforzata dal fatto che Lenin, sia nell’accettazione (esplicitata nei Quaderni filosofici) della critica hegeliana della causalità lineare[20], sia – e ancor di più – nella descrizione delle numerose concause dell’Ottobre fatta nelle successive Lettere da lontano (un piccolo, grande capolavoro di teoria politica)[21], individua ulteriori, numerosi ed eterogenei fattori “occasionali” come condizione necessaria perché la contraddizione strutturale e permanente fra le classi possa esprimersi in tutta la sua radicalità.
Insomma: Lenin distingue tra epoca rivoluzionaria, situazione rivoluzionaria e rivoluzione vera e propria. E proprio in queste distinzioni sta, oggi, uno dei punti più fecondi del confronto col suo pensiero. Infatti è proprio nella tensione, nello scarto fra epoca rivoluzionaria e situazione non rivoluzionaria che si situano per noi, in Europa e in Italia, i più importanti e del tutto irrisolti problemi politici.
Indubbiamente viviamo un’epoca rivoluzionaria, in cui la lunga crisi del modo di produzione capitalistico si intreccia con quella degli equilibri internazionali che lo hanno finora supportato, anche assicurandogli la disciplina sociale interna attraverso dumping salariali, delocalizzazioni, vincoli esterni o “difesa dei sacri confini”. E tutto ciò impone e rende possibili decise trasformazioni sociali. Altrettanto indubbiamente però, non viviamo, qui da noi, una situazione rivoluzionaria: lo scontro fra i dominanti non ha raggiunto il punto critico, e così il malessere dei subalterni; l’identificazione politica di classe e la speranza nel socialismo (e forse ogni altro tipo di speranza) sono ancora offuscate dagli esiti dell’89 e dalla frammentazione individualista; infine – e soprattutto – anche se pagheremo salato il conto della militarizzazione, non siamo per ora direttamente coinvolti in una guerra aperta e comunque non esiste (ancora?) un esercito di massa chiamato alla battaglia e tentato di volgere i fucili contro i propri nemici interni. Dobbiamo prepararci a un grande salto di paradigma sociale e geopolitico e nello stesso tempo non siamo ancora direttamente costretti a farlo. E senza costrizione non c’è rivoluzione.
Confondere l’epoca rivoluzionaria con una situazione rivoluzionaria sarebbe quindi un errore, ma altrettanto lo sarebbe confondere l’assenza d’una tale situazione con la scomparsa o l’attenuazione delle contraddizioni che lacerano quest’epoca. Insomma: bisogna prendere atto simultaneamente della radicalità della situazione e del modo per ora graduale in cui essa si manifesta da noi, ed essere pronti all’alternarsi di subitanee accelerazioni e periodi di apparente stasi.
Tutto ciò impone uno stile politico molto difficile, fatto di nettezza di enunciazioni e “moderazione”, o comunque realismo, delle proposte tattiche. Fatto della capacità di aderire alla situazione concreta (ossia alla forma effettiva, e quindi leggibile da tutti, assunta dalle contraddizioni fondamentali) e allo stesso tempo di guardare oltre, verso i possibili sviluppi radicali: la capacità, insomma, di porsi dentro la situazione ma anche fuori da essa, sapendo che ogni politica pur massimamente realista deve infine essere un passo avanti nell’accumulazione delle forze necessarie ad affrontare una trasformazione appunto epocale, altrimenti deve scontare un’accentuazione delle propensioni reazionarie.
Senza la costruzione di questo stile politico e dei soggetti collettivi che possano interpretarlo è infatti inevitabile che, in assenza di rivoluzione, l’epoca rivoluzionaria si accompagni, come già sta facendo, a una vera e propria “situazione reazionaria”, fatta del tentativo di liquidare definitivamente i residui di democrazia e di stato sociale. Ed è forse anche per questo che Lenin riteneva particolarmente importante l’azione nelle fasi non rivoluzionarie: “Non è difficile essere un rivoluzionario quando la rivoluzione è già scoppiata e divampa […]. E’ cosa molto più difficile – e molto più preziosa – saper essere rivoluzionari quando non esistono ancora le condizioni per una lotta diretta, aperta, effettivamente di massa, effettivamente rivoluzionaria […]”[22].
6. La potenza che non c’è ancora
L’adozione di un atteggiamento simultaneamente interno ed esterno rispetto alla situazione data (espressione della “duplice fedeltà” di cui si è detto sopra) connotò l’attività di Lenin, soprattutto dopo il 1914 e si tradusse nell’analisi lucidissima del conflitto fra potenze e, al tempo stesso, nell’attenzione preveggente alla potenza che non c’era ancora (e che anzi si era persa proprio nell’agosto del 1914), ossia il movimento rivoluzionario di classe.
A questo proposito conviene notare che, anche se gli elementi costitutivi di un soggetto rivoluzionario di massa erano certamente presenti, all’epoca di Lenin, in maniera incomparabile con l’oggi, giacché esisteva un esercito proletario metaforico (il vasto, anche se confuso movimento socialista) e reale (le truppe imperialiste, potenzialmente insubordinate), è altrettanto vero che per Lenin il soggetto politico in ogni caso non nasce linearmente da una situazione di fatto, ossia non preesiste a una politica di classe, ma ne è in qualche modo il risultato: il risultato di una tattica che consenta a un’avanguardia di mettersi in sintonia coi sentimenti delle masse e di accompagnare passo dopo passo l’esperienza diretta delle masse stesse (condizione assoluta della “presa di coscienza”), abituandosi ai rallentamenti e alle improvvise accelerazioni che tutto ciò comporta[23]. Certo, i “sentimenti delle masse” di cui parlava Lenin erano già effetto della guerra, erano “sentimenti nuovi, impetuosi”, erano “lo spavento e la disperazione, l’odio contro il nemico (utile solo alla borghesia), l’odio contro il proprio governo e la propria borghesia[24]”: qualcosa di molto diverso da quel misto di apatia e sordo rancore che serpeggia per le nostre strade. Ma dal punto di vista concettuale la questione non cambia: si tratti di mugugni, di proteste, di veri e propri movimenti o di rivolte, sempre deve esserci qualcuno (sia esso un soggetto unico o un’alleanza di soggetti eterogenei) capace di indicare una direzione che vada un passo più in là sulla base di una chiarezza strategica. Piaccia o meno, ed anche se è attualmente improponibile qualunque riedizione integrale delle vecchie (assai criticabili ma assai rimpiante) esperienze organizzative del movimento operaio, si torna comunque già da ora, ossia già durante una situazione palesemente non rivoluzionaria, alla questione del partito. Ma su questo si dovrà ragionare a parte[25].
7. A mo’ di riassunto
In sintesi, le idee che Lenin (almeno il Lenin delle pagine qui esaminate) può offrire alla riflessione di chi vuole agire da socialista nella rivoluzione antiliberista, sono le seguenti.
Non limitarsi a sbandierare i propri ideali, ma lavorare per accumulare forze, anche eterogenee, e concentrarle contro il potere politico attuale. Capire la forma concreta in cui si presentano le contraddizioni fondamentali e così propagandare verità concrete comprensibili da tutti. Capire che in ogni diversa formazione sociale le questioni nodali possono presentarsi in maniere molto diverse e mutare da un giorno all’altro, imponendo modifiche nella tattica e nelle parole d’ordine. Lavorare tenendo sempre presente la necessità di una rottura socialista, anche quando ci si concentra su obiettivi apparentemente “moderati” o “arretrati”.
In tre parole: concretezza, agilità, ubiquità. Concretezza come adesione non a un socialismo generico, ma a quello che potrebbe/dovrebbe scaturire dalla specifica realtà in cui si opera. Agilità come capacità a cambiare costantemente metodo di lotta e parole d’ordine. Ubiquità come disposizione a essere ovunque, ossia in tutti i luoghi sociali e in tutte le dimensioni temporali: nel presente dell’azione immediata, nel futuro della prospettiva ulteriore. Ma concretezza è, con tutta evidenza, la parola chiave: è essa a imporre agilità e ubiquità, perché è la realtà della crisi a imporre duttilità e sguardo orientato al presente e al futuro. Ed è essa, infine, a vincolarci a un’azione effettiva all’interno della specifica realtà e della specifica congiuntura in cui viviamo: quella italiana.
Non ci basta, infatti, parteggiare per il nuovo mondo che sta nascendo fuori e contro l’egemonia occidentale. Questo nuovo mondo è la precondizione della nostra liberazione, che però – anche per dare un’efficace contributo al multipolarismo – dovrà essere appunto opera nostra, svolta senz’altro con grandissima attenzione alla dimensione geopolitica, ma con altrettanta attenzione ai tempi e ai modi specifici della nostra evoluzione (o involuzione).
Ai comunisti di sinistra tedeschi che rifiutavano il parlamentarismo perché “storicamente superato”, Lenin rispondeva così: “Il parlamentarismo è <<storicamente superato>> nel senso della storia mondiale, cioè è finita l’epoca del parlamentarismo borghese, ed è cominciata l’epoca della dittatura del proletariato. Questo è incontestabile. Ma su scala storica mondiale l’unità di misura sono i decenni. Dieci o vent’anni prima, dieci o vent’anni dopo, su scala storica mondiale non conta; è un’inezia di cui non si può tener conto nemmeno in modo approssimativo. Ma appunto perciò è un gravissimo errore valersi della scala storica mondiale nei problemi della politica pratica”[26].. Il fatto che l’egemonia “su scala storica mondiale” slitti progressivamente a est, non significa che sincronicamente si rafforzi da noi una prospettiva socialista. Dipende. E in questo “dipende” sta tutto l’approccio leninista, ovvero materialista.
Tutto quanto detto sopra, ripetiamolo, ha valore per chi riconosce la necessità di una rottura socialista e quindi di una radicale trasformazione del potere di stato. Certamente si dovrà discutere molto sulle forme attuali di tale rottura e di tale trasformazione. Nella fase che si apre riforme e rivoluzione non si escludono necessariamente, ma si alimentano reciprocamente, e certamente l’unica “violenza rivoluzionaria” accettabile ed efficace è quella che risponde, sulla base di un consenso di massa, alla violazione altrui delle regole costituzionali. Inoltre, quanto allo stato, sappiamo che la sua trasformazione non equivale a quella dei rapporti sociali, date le radici non meramente politiche del capitalismo; come sappiamo che nessun potere statuale può gestire le società odierne dall’alto, senza il rapporto con autonome organizzazioni sociali. Infine, sappiamo che, oggi più di ieri, il potere non si “prende” ma, soprattutto se è un potere delle classi subalterne, si costruisce sulle macerie delle privatizzazioni neoliberiste, ridefinendo le strutture interne e i rapporti internazionali che consentono politiche socialiste o comunque popolari. Sappiamo tutto ciò. Ma saperlo non può equivalere a rimuovere nuovamente, e proprio adesso, la questione del potere di stato e delle rotture necessarie a trasformarlo, questione che va posta fin da oggi. Lenin non ci dice come farlo, ma ci dice che lo dobbiamo fare: i conti con Lenin sono i conti con la realtà.
8. Postilla sulla questione nazionale
E’ importante notare che negli anni 1914-1917 l’imperativo dell’analisi concreta conduce Lenin a sostenere la legittimità, anzi l’utilità, delle lotte democratico-nazionali e della rivendicazione dell’autodecisione delle nazioni, non soltanto nelle colonie, ma anche in quei paesi europei che, a causa dell’eredità storica e dello sviluppo ineguale del capitalismo, si trovassero in una situazione di sudditanza rispetto alle nazioni capitalistiche “centrali”, e quindi in un rapporto oppresso/oppressore. Si può anzi dire che il principio stesso dell’analisi concreta (con tutto ciò che vi è connesso), venga, se non fondato, certo articolato e affinato proprio nella valutazione della questione nazionale.
In linea generale, secondo Lenin, avvenuta la rivoluzione democratica e costituitosi lo stato nazionale capitalistico, una guerra nazionale è da considerarsi imperialista e la “difesa della patria” diviene una parola d’ordine reazionaria. Questo assunto è però subito corretto dal richiamo all’analisi specifica.
Infatti:“[i]l marxismo deduce il riconoscimento della difesa della patria nelle guerre come, ad esempio, quelle della grande rivoluzione francese e di Garibaldi in Europa, e la negazione della difesa della patria nella guerra imperialista del 1914-1916 dall’analisi dei particolari storici concreti di ogni singola guerra e in nessun modo da un qualunque <<principio generale>> né da un qualunque singolo punto del programma[27]”. E dall’analisi consegue che: “[n]ei paesi progrediti (Inghilterra, Francia, Germania, ecc.) la questione nazionale è ormai risolta da un pezzo e l’unità nazionale ha ormai fatto il suo tempo; oggettivamente i compiti nazionali non esistono più. E quindi solo in questi paesi è possibile fin da oggi spezzare le comunità nazionali e instaurare la comunità di classe. Diversamente si pone il problema nei paesi non progrediti […] e cioè in tutto l’Oriente europeo e in tutte le colonie e semicolonie[28]”. Per questo motivo è vitale, per la socialdemocrazia “[…] mettere in evidenza la differenziazione delle nazioni in nazioni dominanti e nazioni oppresse, differenziazione fondamentale, essenzialissima e inevitabile nell’epoca imperialista[29]”.
Su queste basi Lenin svolge una durissima polemica contro le stesse correnti della sinistra socialdemocratica a lui più affini, spesso contrarie all’autodecisione delle nazioni. E la durezza di tale polemica non si deve soltanto alla necessità di riconoscere l’importanza delle lotte democratiche per l’autoeducazione del proletariato, e comunque l’importanza di tutti i conflitti che potessero alimentare un’ondata rivoluzionaria. La questione dell’autodecisione, per Lenin, è assai rilevante anche perché riguardava in grandissima parte proprio la Russia, o meglio le nazionalità oppresse dall’impero, che si sarebbero rivoltate contro il proletariato se questo avesse proposto una riedizione del centralismo zarista. In questo quadro il diritto all’autodecisione è visto come la premessa di una nuova unificazione su base volontaria: cosa che, pur tra mille contraddizioni, avvenne[30]. Gioverebbe ricordare a questo proposito a Vladimir Putin, che non perde occasione per additare il suo omonimo come remoto responsabile dell’indipendentismo ucraino, che l’Unione sovietica, e quel che ne resta nella Russia attuale, sarebbe stata assai meno potente e forse non sarebbe nemmeno esistita senza la scelta dell’autodecisione[31].
Bene. Ma in che modo queste osservazioni possono essere utili a noi, che viviamo da più di un secolo proprio nel centro del capitalismo europeo?
A mio parere queste tesi di Lenin ci aiutano quanto meno a comprendere il riemergere di questioni nazionali anche nell’Europa ipercapitalistica e imperialista di oggi, e a porre il problema del nesso attuale fra tali questioni e quelle di classe. Certo, la situazione è assai diversa da quella in cui Lenin scriveva: ma lo è proprio perché il principio dello sviluppo ineguale ha lavorato più che egregiamente, conducendo a un grande squilibrio di potere tra Stati Uniti ed Europa e all’interno dell’Europa stessa, ponendo così in forme inedite il problema del rapporto tra lotta di classe e recupero della sovranità nazionale anche negli attuali paesi capitalistici. Può uno scontro tra nazioni europee, e/o tra parte di queste e gli Sati Uniti, riaccendere la lotta di classe? Oppure: può una ripresa della lotta di classe dar vita a una vera, autonoma ed efficace politica senza porre una nuova questione nazionale, ossia senza porre la questione della riconquista democratica della sovranità nazionale come premessa per la costruzione di rapporti internazionali cooperativi, condicio sine qua non di una trasformazione dei rapporti sociali interni?
Orbene, Lenin ha in qualche modo previsto una situazione paragonabile a quella che stiamo vivendo. Discutendo con Rosa Luxemburg, dopo aver tra l’altro ripetuto che una guerra nazionale può trasformarsi in una guerra imperialista e viceversa, così continua:
“E’ sommamente improbabile che la guerra imperialista degli anni 1914-1916 si trasformi in guerra nazionale, perché la classe che rappresenta uno sviluppo progressivo è il proletariato, il quale tende obiettivamente a trasformare questa guerra in guerra civile contro la borghesia; e anche perché le forze delle due coalizioni non sono molto diverse e il capitale finanziario internazionale ha creato dappertutto una borghesia reazionaria. Ma non possiamo affermare che una tale trasformazione sia impossibile: se il proletariato europeo dovesse dimostrarsi impotente ancora per venti anni, se l’attuale guerra dovesse finire con vittorie di tipo napoleonico e con la soggezione di tutta una serie di Stati nazionali capaci di vita autonoma, se anche l’imperialismo extraeuropeo (americano e giapponese principalmente) durasse per venti anni senza che si arrivasse al socialismo, per esempio a causa di una guerra nippo-americana, allora sarebbe possibile in Europa una grande guerra nazionale. Ciò implicherebbe per l’Europa una involuzione di parecchi decenni. Ciò è improbabile. Ma non è impossibile, giacché sarebbe antidialettico, antiscientifico e teoricamente sbagliato rappresentarsi la storia del mondo come una continua e regolare marcia in avanti, senza qualche gigantesco salto indietro[32]”.
Mancata trasformazione (da noi) della guerra imperialista 1914-1945 in rivoluzione socialista, vittoria “napoleonica” degli Stati Uniti su tutta l’Europa, vittoria – pur non totale – della Germania nella riorganizzazione diseguale del capitalismo europeo. Insomma: un forte squilibrio di poteri con la conseguente distinzione, se non tra oppressi e oppressori, tra vincenti e perdenti, all’interno della stessa compagine capitalistica più sviluppata; squilibrio che è anche meccanismo fondamentale di riproduzione dei rapporti sociali attraverso i “vincoli esterni” atlantisti ed europeisti. Pur se tutto ciò è reso estremamente complicato dall’interpenetrazione dei capitali nel Vecchio continente e in tutto l’Occidente, è chiaro che la riscoperta anche da parte nostra della dimensione nazionale in Europa (sia essa o meno un passo indietro rispetto a una qualche presunta linearità storica), se non può – e non deve – essere dedotta dalle parole di Lenin o di chicchessia, è quanto meno non incompatibile con l’orientamento teorico generale di quel grande rivoluzionario, e come tale “infaticabile studioso”.
Note
[1] L’imperialismo “triadico”, nell’accezione di Samir Amin, è quello formato dall’equilibrio (oggi assai instabile) tra la superpotenza Usa e i comprimari europei e giapponesi, ai danni del resto del mondo: si veda Samir Amin, Per un mondo multipolare, Punto Rosso, Milano, 2006.
[2] Per una dettagliata critica di queste posizioni, che hanno purtroppo egemonizzato il movimento altermondialista con conseguenze che paghiamo ancora oggi, rimando al mio “Occupy Lenin”, in Leo Panitch, Greg Albo, Vivek Chibber, The Question of Strategy. The Socialist Register 2013, Merlin Press, Wellingborough, 2012, pp. 84-97 (se ne trova una traduzione qui: https://www.controappuntoblog.org/2012/08/07/occupy-lenin-lultimo-saggio-di-mimmo-porcaro/). Sul tema si veda anche, Stefano Calzolari, Mimmo Porcaro, L’invenzione della politica. Movimenti e potere, Punto Rosso, Milano, 2005.
[3] Emiliano Brancaccio, “Momento Lenin: tra debito, dazi e guerra”, https://www.econopoly.ilsole24ore.com/2025/03/10/momento-lenin-trump-cina-europa-riarmo/?refresh_ce=1
[4] Lenin, L’imperialismo, fase suprema del capitalismo, Editori Riuniti, Roma, 1970.
[5] Elias Canetti, Potere e sopravvivenza, Adelphi, Milano, 1974, p. 13.
[6] Un solo esempio (trai mille possibili) tratto dai testi a cui ci stiamo particolarmente riferendo: “Il metodo di Marx consiste prima di tutto nel considerare il contenuto oggettivo del processo storico in un determinato momento concreto, in una data situazione, nel comprendere prima di tutto quale movimento e di quale classe è la molla fondamentale del progresso possibile in una situazione concreta”[6]. Lenin, Sotto la bandiera altrui, in Opere complete, Editori Riuniti, Roma, 1965-67 (d’ora in poi OC), vol. 21, p. 127, corsivi nostri. Quanto alla “verità concreta” si vedano le pagine, tuttora attualissime, del terzo capitolo del Che fare? Problemi scottanti del nostro movimento, a cura di Vittorio Strada, Einaudi, Torino, 1971.
[7] Louis Fischer, Vita di Lenin, Il Saggiatore, Milano, 1967, vol. 1, cap. 1.
[8] Stathis Kouvélakis, Lenin lettore di Hegel, https://sinistrainrete.info/marxismo/8398-stathis-kouvelakis-lenin-lettore-di-hegel.html.
[9] Lenin, Quaderni Filosofici, con una introduzione su “Il marxismo e Hegel” di Lucio Colletti, Feltrinelli, Milano, 1970; si veda anche la più recente edizione PiGreco, Milano, 2021, con introduzione di Roberto Fineschi.
[10] Id., Materialismo ed empiriocriticismo, Editori Riuniti, Roma, 1973.
[11] Ibidem, pp. 85-90, 112-113, 130-133 e passim.
[12] Id., Intorno a una caricatura del marxismo e all’ ”economismo imperialistico”, OC, vol. 23, p. 34.
[13] Id., Sotto la bandiera altrui, OC, vol. 21, p. 129.
[14] Id., A proposito del <<Programma di pace>>, OC, vol. 22, pp.167-8.
[15] Id., Sulla pace separata, OC, vol. 23, p. 129.
[16] “La rivoluzione socialista non è un atto isolato, una battaglia isolata su un solo fronte, ma tutta un’epoca di acuti conflitti di classe, una lunga serie di battaglie su tutti i fronti, cioè su tutte le questioni dell’economia e della politica, battaglie che possono terminare soltanto con l’espropriazione della borghesia.”, Id., La rivoluzione socialista e l’autodecisione, OC, vol. 22, p. 148.
[17] Id., Sulla parola d’ordine degli Stati uniti d’Europa, OC, vol.21, pp. 311-12.
[18] Id., Il fallimento della II Internazionale, OC, vol.21, p.191.
[19] Ibidem, p.192. Una definizione analoga, e più nota, si trova in un importante scritto postrivoluzionario, L’estremismo, malattia infantile del comunismo, Editori Riuniti, Roma, 1970, p. 137, ed è ulteriormente precisata a p. 152.
[20] Id, Quaderni filosofici, cit., pp. 149-155, 169, 173.
[21] Id., Lettere da lontano, OC, vol. 23, pp. 299-331, in particolare p. 304. Questo testo è tra le fonti di un saggio a suo tempo famoso (e meritevole di una riconsiderazione) in cui Althusser poneva teoricamente il problema, risolto “praticamente” da Lenin, del rapporto tra la contraddizione fondamentale e le sue concrete condizioni di efficacia: Louis Althusser, Contraddizione e surdeterminazione, in Per Marx, Editori Riuniti, Roma, 1974, pp. 69-107.
[22] Id., L’estremismo, cit., p. 155.
[23] “Bisogna comprendere […] che non si può vincere senza aver appreso la scienza dell’offensiva e la scienza della ritirata”, Ibidem, p. 18.
[24] Id., La sconfitta del proprio governo nella guerra imperialistica, OC, vol. 21, p. 253.
[25] Un contributo, pur se datato, a questa discussione può essere il mio Machiavelli 2017. Tra partito connettivo e partito strategico, https://contropiano.org/documenti/2017/04/07/machiavelli-2017-partito-connettivo-partito-strategico-090665.
[26] Lenin, L’estremismo, cit. pp. 81-82, l’ultimo corsivo è nostro.
[27] Id., La rivoluzione socialista e l’autodecisione, OC, vol.22, p. 152 , corsivi nostri.
[28] Id. Intorno a una caricatura del marxismo, cit., p. 57, corsivi nostri.
[29] Id., La rivoluzione socialista e l’autodecisione , cit., pp. 151-3, corsivi nostri.
[30] Edward H. Carr, La rivoluzione bolscevica, 1917-1923, Einaudi, Torino, 1964, capp. XI e XII.
[31] Ibidem, pp. 364-367.
[32] Lenin, A proposito dell’opuscolo di Junius, OC, 22, 309-9.