AI. OpenAI, giù la maschera
di Carola Frediani
Martedì scorso OpenAI ha annunciato la sua trasformazione in una società for profit, completando quel percorso che, dalla nascita come no profit nel 2015, aveva poi deviato verso la commercializzazione dei prodotti, la corsa all’AI, e la fisionomia di una startup che punta a un’offerta pubblica iniziale e una quotazione in borsa col botto. La ristrutturazione trasforma infatti l’ex “laboratorio” dietro a ChatGPT in una società di pubblica utilità (public benefit corporation, PBC, ovvero una società a scopo di lucro legalmente tenuta a bilanciare i rendimenti degli azionisti con un dichiarato beneficio pubblico). Significa che la nuova OpenAI (ufficialmente OpenAI Group PBC) potrà emettere azioni ai dipendenti (stock option), raccogliere capitali attraverso tradizionali round di finanziamento azionario, quotarsi in borsa. Ma dichiarando di farlo a beneficio dell’umanità. Ok, esiste anche una fondazione senza scopo di lucro, a cui ha assegnato una ricca quota del 26 per cento, valutata 130 miliardi di dollari.
Ma Microsoft, che dal 2019 ha investito oltre 13 miliardi di dollari in OpenAI, ha una quota del 27% valutata 135 miliardi di dollari, mentre le quote restanti sono detenute da altri investitori e dipendenti.
La Fondazione OpenAI controlla l’attività a scopo di lucro, scrive OpenAI nel suo comunicato. Ricordiamo che il board della no profit (ora board della fondazione) è lo stesso uscito modificato e pro-Altman dallo scontro tra lo stesso Altman e il precedente board, che si era opposto alla disinvoltura con cui la società stava cavalcando la commercializzazione dell’AI (di cui avevo scritto in newsletter).
Oltre a questo, commenta Quartz, la fondazione sarebbe comunque “una facciata che nasconde un’impresa fondamentalmente commerciale. Il consiglio di amministrazione senza scopo di lucro può tecnicamente mantenere il controllo, ma quando la sopravvivenza dipende dalla soddisfazione degli investitori, dalla raccolta di centinaia di miliardi di capitale e dalla capacità di attrarre talenti con pacchetti azionari competitivi, tale controllo diventa in gran parte puramente formale”.
Inoltre, “la tempistica non è casuale. SoftBank aveva minacciato di ridurre il proprio investimento da 30 a 20 miliardi di dollari se OpenAI non avesse ristrutturato entro la fine dell’anno. Microsoft aveva bisogno di rinegoziare il proprio accesso esclusivo alla tecnologia di OpenAI. I migliori ricercatori stavano passando alla concorrenza, che poteva offrire loro reali vantaggi in termini di capitale. Lo status di organizzazione senza scopo di lucro impediva loro di raccogliere fondi, di cui l’azienda ha bisogno in quantità quasi illimitata per sopravvivere”.
Secondo fonti di Reuters, OpenAI starebbe lavorando a un’offerta pubblica iniziale che potrebbe valutare l’azienda fino a 1.000 miliardi di dollari, in quella che potrebbe essere una delle più grandi IPO di tutti i tempi. E la domanda alle autorità di regolamentazione potrebbe arrivare già nella seconda metà del 2026. Che un’IPO sia probabile è stato anche detto dallo stesso Altman in una riunione coi dipendenti, riferisce The Information. Che aggiunge: “Un’IPO diluirebbe ulteriormente gli azionisti, ma potrebbe essere fondamentale per l’azienda, che ha previsto di bruciare 115 miliardi di dollari fino al 2029, aumentando la spesa per i server per promuovere la ricerca sull’intelligenza artificiale e potenziare ChatGPT e altri prodotti”.
The Information sottolinea anche che “c’è un grande divario tra le entrate di OpenAI, che secondo le previsioni raggiungeranno i 13 miliardi di dollari quest’anno, e la spesa prevista per i server necessari a sviluppare la sua tecnologia e rimanere davanti a rivali come Google e xAI”.
Già a inizio ottobre il Financial Times rilevava come OpenAI avesse firmato contratti per circa 1.000 miliardi di dollari per l’acquisto di potenza di calcolo, “impegni che superano di gran lunga le sue entrate e sollevano interrogativi su come potrà finanziarli”, sottolineando anche la circolarità dei suoi accordi con Nvidia, Amd, Oracle.
A questo proposito, sul sito Guerredirete.it abbiamo pubblicato un articolo sul rischio bolla, a firma di Andrea Signorelli.
Sorveglianza e repressione
Gli agenti dell’immigrazione americani usano il riconoscimento facciale per strada
Secondo 404 Media, che ha esaminato una serie di video, ICE e il Customs and Border Protection (CBP) - ovvero le due agenzie che in vario modo controllano le frontiere e l’immigrazione e che sono in prima linea nelle politiche repressive di Trump verso i migranti - stanno utilizzando la tecnologia di riconoscimento facciale degli smartphone sul campo, “anche in casi di fermi che sembrano avere poca giustificazione al di là del colore della pelle di una persona, per poi cercare ulteriori informazioni su quella persona, compresa la sua identità e potenzialmente il suo status di immigrazione”.
Non è chiaro quale app stiano utilizzando gli agenti nei video, anche se la stessa 404 Media aveva precedentemente rivelato che proprio ICE disporrebbe di una app, Mobile Fortify, che scansiona il volto di una persona e lo cerca su un database di 200 milioni di immagini per restituire il nome del soggetto, la data di nascita, e se è stato emesso un ordine di espulsione.
ICE acquista da anni anche la tecnologia dell’azienda di riconoscimento facciale Clearview AI. Il database di Clearview, che contiene miliardi di immagini, proviene in gran parte da foto postate sul web, che l’azienda ha raccolto in massa. A settembre, la stessa 404 Media aveva riferito che ICE avrebbe speso milioni di dollari per la tecnologia Clearview al fine di individuare persone che riteneva avessero “aggredito” degli agenti. Sempre ICE avrebbe acquistato una tecnologia di scansione dell’iride da usare per strada per il suo reparto preposto alle espulsioni. In origine, tale tecnologia era progettata per identificare detenuti.
I social media sono la nuova frontiera della sorveglianza
Proprio alcuni giorni fa un’altra testata, The Lever, era uscita con una notizia riguardante ancora l’ampliamento delle capacità tech di ICE. Secondo i dati degli appalti federali esaminati dai suoi giornalisti, infatti, ICE avrebbe siglato un nuovo contratto da 5,7 milioni di dollari per un software di sorveglianza dei social media basato sull’intelligenza artificiale. Il contratto quinquennale fornirebbe le licenze per un prodotto chiamato Zignal Labs, una piattaforma di monitoraggio dei social media utilizzata dall’esercito israeliano e dal Pentagono.
Scrive The Lever: “Un opuscolo informativo contrassegnato come riservato ma disponibile online pubblicizza che Zignal Labs “sfrutta l’intelligenza artificiale e l’apprendimento automatico” per analizzare oltre 8 miliardi di post sui social media al giorno, fornendo “feed di rilevamento curati” ai propri clienti. Secondo l’azienda, queste informazioni consentono alle forze dell’ordine di “rilevare e rispondere alle minacce con maggiore chiarezza e rapidità””.
Dai lontani campi di guerra alla strada sotto casa
Tutto ciò mi ha ricordato un articolo recente uscito sul sito di sicurezza nazionale americano War on the Rocks, scritto da ex militari per militari o ambienti affini. In sostanza, si domanda l’articolo, i metodi e le tecnologie applicate in guerra si espanderanno anche nelle società cosiddette liberal-democratiche?
Quoto: “La recente campagna militare di Israele a Gaza segna una svolta nella guerra moderna: la fusione tra controinsurrezione e intelligenza artificiale”. Gli Stati occidentali, si domanda, saranno dunque influenzati dal modello algoritmico di Israele?
“La posta in gioco è alta. Se l’approccio di Israele, caratterizzato da automazione, scala e logoramento (attrition, nel suo significato militare, ndr), diventasse un modello per le democrazie liberali, potrebbe normalizzare una forma di guerra che privilegia l’efficienza computazionale rispetto al giudizio umano”.







































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