Contro la hybris
di Patrick Lawrence – ScheerPost
Negli ultimi giorni ho letto molto su come gli israeliani hanno trattato le persone che hanno arrestato quando hanno abbordato illegalmente le navi che componevano la ormai famosa flottiglia umanitaria che non è mai arrivata alle coste di Gaza. Gli irlandesi – naturalmente, data la loro amara familiarità con le aggressioni imperiali – hanno fornito resoconti dettagliati della brutale violenza gratuita che hanno subito mentre erano detenuti nella prigione di Ktziot. Barry Heneghan, membro del Dáil, la camera bassa del parlamento irlandese, ha riferito in seguito di essere stato “trattato come un animale”. Liam Cunningham e Tadhg Hickey, attori e attivisti, hanno descritto come sono stati presi a calci, sputati, schiaffeggiati, legati con fascette di plastica e lasciati sotto il sole cocente del deserto del Negev.
Nulla è paragonabile al racconto della sua detenzione che Greta Thunberg ha fatto il 15 ottobre a Lisa Röstlund, giornalista dell’Aftonbladet, un quotidiano di Stoccolma. Questo mi è stato riferito da Caitlin Johnstone, quella forza della natura australiana, che ha pubblicato nella sua newsletter estratti tradotti automaticamente lo stesso giorno in cui è uscita l’intervista di Röstlund alla coraggiosa attivista svedese. Avevo già letto della disidratazione, del cibo appositamente cattivo della prigione, delle cimici dei letti, del rifiuto delle cure mediche. Ora Thunberg fornisce al mondo una lunga lista di “abusi mostruosi” – frase riassuntiva di Johnstone – che vanno oltre ogni limite.
Trascinata per i capelli, picchiata e presa a calci senza sosta, spogliata nuda, avvolta in una bandiera israeliana, umiliata sessualmente nella sua stessa lingua (lilla hora, “piccola puttana”; hora Greta, “Greta puttana”), minacciata di essere uccisa con il gas (dettaglio rivelatore, questo), mentre le guardie in uniforme scattavano “selfie” in piedi accanto a lei ridendo e schernendola: Che senso ha tutto questo, qual è lo scopo?
“Sono come bambini di cinque anni!”, ha esclamato Thunberg a Röstlund mentre raccontava tutto questo. No, non è così, Greta. Sono come i sionisti.
Mentre leggevo il racconto della Thunberg sul suo maltrattamento, sicuramente criminale, la mia mente è andata a ciò che potrebbe sembrare il posto più improbabile. Ho pensato alla violenta rivolta razzista che gli spettatori sionisti hanno scatenato quando, un anno fa, si trovavano ad Amsterdam per tifare il Maccabi Tel Aviv, una squadra di calcio israeliana, che affrontava l’Ajax (la famosa squadra olandese aveva battuto il Maccabi per 5-0). E poi ho pensato a Bibi Netanyahu, che ha l’abitudine di vantarsi di poter controllare gli Stati Uniti e, più specificamente, Donald Trump. Al Jazeera ne ha parlato 15 anni fa. Max Blumenthal ha recentemente pubblicato varie analisi in tal senso su The Grayzone. E poi ho pensato a tutto il terrore che i soldati e i piloti israeliani hanno inflitto sotto gli occhi di tutti ai palestinesi di Gaza.
Ho descritto il trattamento riservato a Greta Thunberg e agli altri marinai della flottiglia umanitaria detenuti a Ktzi’ot come “brutalità gratuita”. Ritiro ciò che ho detto. Non c’era nulla di gratuito nel comportamento delle guardie carcerarie israeliane in quel caso. Né c’era nulla di gratuito nella frenetica rivolta degli spettatori israeliani ad Amsterdam l’8 novembre dell’anno scorso e nei giorni successivi. Né nelle vanterie più o meno pubbliche del primo ministro israeliano sul potere che esercita sulla Casa Bianca. Né, del resto, nello spettacolo rivoltante dei soldati israeliani che si divertono a commettere crimini contro i gazani.
No, tutti questi casi di eccessi e barbarie hanno una dimensione di esposizione pubblica. Il comportamento dei sionisti è pensato per essere visto: più è inaccettabile per la sensibilità civile, più sembra esserlo. Coloro che hanno tormentato Greta Thunberg e i suoi colleghi sapevano che il mondo stava guardando e volevano che il mondo guardasse. Quando gli spettatori del Maccabi hanno invaso le strade di Amsterdam gridando “Uccidete gli arabi”, “Fanculo, Palestina”, “Non ci sono scuole a Gaza perché non ci sono più bambini”, “Lasciate che l’IDF fotta gli arabi” e altre gentilezze del genere, volevano che il mondo li sentisse.
Per quanto ne so, questi sono esempi – casi estremi, certamente, ma comunque casi – di ciò che nell’antico ebraico era conosciuto come khátaf, poi diventato khutspe in yiddish e infine entrato nella lingua inglese (apparentemente alla fine del XIX secolo, proprio quando il movimento sionista stava prendendo slancio) come chutzpah. Questo termine descrive un certo tipo di comportamento verso gli altri e ha molte definizioni diverse. Coloro che possiedono chutzpah sono variamente sfacciati, sfrontati, audaci, offensivi o, come si suol dire, hanno la faccia come il deretano. L’arroganza e la presunzione di superiorità sono implicite nel termine (per questo motivo ho deciso di tradurlo con hybris, piuttosto che con il più datato “tracotanza” che uso di seguito, N.d.T.) (*).
Aggiungerò un altro significato per rafforzare la mia tesi, anche se penso che valga ben oltre il mio ragionamento. Mostrare la propria tracotanza, la propria arroganza, significa mostrare la propria impunità. Con questo intendo dire che una persona tracotante è indifferente alle norme. E, proprio come non ha senso essere tracotanti se nessuno può vederlo – a che servirebbe? – l’implicazione qui è che la propria impunità deve essere perfettamente evidente a tutti gli altri e la persona tracotante deve essere indifferente a ciò che tutti gli altri possono pensare.
Nella storia, la sfrontatezza è stata variamente interpretata come un tratto ammirevole nel senso di “devo essere me stesso” e, in alternativa, come un odioso disprezzo per gli altri. Ho sempre sostenuto la seconda opinione. Trovo ripugnante la tracotanza, l’arroganza, in qualsiasi sua manifestazione, che si tratti di buone maniere a tavola, di comportamento nel discorso pubblico o di qualsiasi altra piccola cosa. Una cosa è liberarsi da ortodossie opprimenti. Un’altra è completamente diversa è ritenersi, in modo appariscente e offensivo, al di sopra degli altri.
Ci sono molti modi di pensare a ciò che il regime sionista ha fatto negli ultimi due anni, o a ciò che le guardie carcerarie hanno fatto a Greta Thunberg, o a come si sono comportati i tifosi di calcio israeliani ad Amsterdam o a come Bibi ostenta il suo potere sugli Stati Uniti. C’è la storia, c’è la politica, c’è la geopolitica, c’è l’insicurezza intrinseca di una piccola nazione in una regione ostile fin dalla violenza associata alla sua fondazione. Non si può ignorare nulla di tutto questo.
Ma negli ultimi due anni mi sono convinto che sia in gioco qualcosa di più grande. Israele si propone di vivere e agire nella comunità delle nazioni, intendo dire, non secondo la legge o secondo ciò che conosciamo come moralità o forme comuni di decenza, ma secondo quello che equivale a un progetto biblico autorizzato di sottomissione e dominio in nome di una presunzione di superiorità. E con i fanatici nazionalisti sionisti che ora controllano la direzione del Paese, Israele ha scelto questo momento per insistere affinché il mondo al di fuori dei suoi confini accetti questo progetto come legittimo nel XXI secolo.
Questa è la massima espressione di chutzpah/hybris, secondo la mia interpretazione, e come questione psicologica e caratteriale dovremmo comprenderla come tale. Questo fenomeno non può essere compreso separatamente dall’idea che Israele ha di sé stesso come eccezionale e come espressione terrena di un popolo eletto. Quello che conosciamo come chutzpah riflette entrambi.
A questo proposito, gli eventi di Amsterdam di un anno fa hanno confermato quello che fino ad allora era stato un giudizio incompleto. Come ho scritto all’epoca (nell’articolo al link sopra) sugli hooligan israeliani e sulle vigorose manifestazioni locali contro di loro:
Si è trattato in effetti di un tentativo di trasportare l’ideologia pre-moderna, persino primitiva, portata all’estremo da Israele in un contesto moderno e di dire al mondo che deve accettarla.
Questo è ciò che rende significativo il caos di Amsterdam. Ed è per questo che è importante che si sia rivelato, in effetti, come un caos.
Per aggiornare il pensiero, considero di pari importanza tutte le massicce proteste contro il comportamento barbaro di Israele, soprattutto ma non solo in Europa. [Mi auguro] che ce ne siano molte altre. Lo stesso vale per la recente decisione di Prabowo Subianto, presidente dell’Indonesia, di rifiutare il visto ai ginnasti israeliani che avevano in programma di partecipare a un campionato a Giacarta dal 19 al 25 ottobre. Lo stesso vale per l’annuncio di giovedì che gli spettatori israeliani non potranno assistere alla partita del 6 novembre tra il Maccabi Tel Aviv e l’Aston Villa, un’altra squadra di calcio inglese.
Si tratta di atti di rifiuto, atti di rigetto in risposta al genocidio perpetrato da Israele, sì. Sono anche una risposta alla totale indifferenza di Israele nei confronti della legge e delle norme dell’umanità in nome di antiche barbarie, alla tracotanza su scala nazionale, il massimo dell’arroganza.








































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