Dall’Alaska a piccoli passi
di Redazione Contropiano
Difficile dare un quadro realistico del vertice in Alaska quando i protagonisti restano blindati sul merito della discussione e chi dovrebbe resocontare – i media occidentali in genere, quelli europei in particolare – è impegnato in modo visibilissimo nell’avvolgere “l’evento” in impasto di allusioni, pettegolezzi, mistificazioni.
Se dovessimo stare alle cronache in stile “pensiero unico” – non ci sono differenze tra tv e media di estrema destra e tutti quelli che si dicono liberal o “democratici” – dovremmo parlare di un fallimento o quasi. Ma questa prognosi ha senso solo se si accettava, prima dell’incontro, uno schema bipolare secondo cui o si arrivava a un accordo completo e dettagliato subito, oppure se ne usciva con una corsa alla guerra più generale.
La linea guerrafondaia seguita dall’”Europa unita” ha conquistato facilmente le menti servili degli operatori della disinformazione mainstream, al punto da non lasciare più alcuno spazio neanche all’esperienza storica più disincantata.
E la storia dovrebbe insegnare che ogni decisione di pace – o di guerra – è arrivata al termine di un percorso né breve né semplice, in cui si cerca di stabilire un nuovo equilibrio accettabile insistendo su molti dettagli ma a partire da un quadro condiviso. Ci si possono mettere anni, se va bene diversi mesi, ma mai giorni o addirittura poche ore.
Come dovrebbe essere noto, se non altro perché i vertici russi lo ripetono da anni senza cambiare una virgola, “il quadro” per una pace duratura con l’area euro-atlantica deve fondarsi sulla cessazione dell’espansione a est della Nato (l’unica espansione reale che c’è stata negli ultimi 35 anni), sulla smilitarizzazione e “denazificazione” dell’Ucraina, la riscrittura di una serie di trattati che sono scaduti, stanno per scadere o sono stati disdettati dagli Stati Uniti.
Parliamo per esempio del trattato sui missili a testata nucleare di portata intercontinentale (che scade tra alcuni mesi), di quello sui missili a medio raggio (da cui gli Usa sono usciti sei anni fa e che anche Mosca ha denunciato solo nei mesi scorsi), e tutta una lunga serie di altri nodi critici tra le due superpotenze nucleari. Non una “nuova Yalta”, ma qualcosa di altrettanto serio e cogente per tutti.
Su questa scala di problemi è evidente che l’Ucraina – e qualsiasi possibile soluzione diplomatica alla guerra in corso – è solo uno dei nodi da sciogliere, anche se chiaramente il più evidente e “caldo”.
Rispetto a questa dimensione strategica è quasi puerile l’insistenza europea su slogan da liceali sul “diritto di Kiev a non cedere territori” (mentre, contemporaneamente, lo si nega ai palestinesi sottoposti a genocidio e pulizia etnica, sia a Gaza che in Cisgiordania). Non perché sbagliati in linea di principio – il diritto all’autodeterminazione è alla base di ogni regolazione internazionale seria – ma per l’evidente “doppio standard” che informa l’azione e la propaganda euro-atlantica. I diritti esistono “per i nostri” (alleati o vassalli), ma non per gli altri…
Anche la ridicola polemica contro il “ritorno alla logica delle sfere di influenza” – il principio di “real politik” per cui una superpotenza non può piazzare i propri armamenti strategici ai confini dell’altra, utilizzando paesi “amici” o succubi – è tessuta con la stessa ipocrisia. Se Cuba o il Messico dovessero prepararsi a ospitare missili russi o cinesi nessun “pensatore euro-atlantico” troverebbe sbagliata una durissima risposta statunitense. Come nel 1962, del resto…
Messe momentaneamente da parte le sciocchezze dei guerrafondai di secondo piano, bisogna rendersi conto che l’incontro da Trump e Putin era stato preparato dagli sherpa abbastanza bene, tanto da far concludere la discussione dopo appena due ore e mezza invece delle annunciate sei o sette.
Da entrambe le parti, in sede di conferenza stampa finale o dichiarazioni successive, si è stati ben attenti a non lasciar trapelare nulla sul merito ma a spargere ottimismo sugli sviluppi. Tanto da far prevedere una seconda tappa a Mosca tra pochi mesi, se non settimane.
Trump ha dichiarato di aver tenuto un costruttivo vertice con Putin, ma che “non siamo arrivati” a un cessate il fuoco o a un accordo di pace per l’Ucraina. La sintonia è stata registrata sulla maggior parte delle questioni rilevanti, ma non hanno raggiunto un’intesa su “quella più importante“. E come consiglia il realismo, “Non c’è alcun accordo finché non c’è un accordo.”
Chiarificatrici anche le poche frasi pronunciate da un Putin decisamente a suo agio: una base per un accordo globale è stata disegnata, invitando perciò “Kiev e le capitali europee” a “percepirlo in modo costruttivo” e a non “affossare i progressi appena iniziati“.
Il riferimento esplicito è alle manovre dei “volenterosi” che insistono nel volere un cessate il fuoco immediato dichiarando pure, da veri idioti, di volerlo sfruttare per inviare armi e truppe europee in Ucraina. Praticamente per preparare un’escalation che porterebbe al confronto diretto tra Nato e Russia, con tutte le conseguenza – nucleari – del caso…
Sembra evidente che però sia Kiev che la UE hanno poche carte da giocare. Possono certamente buttare un po’ di ostacoli sul percorso appena abbozzato, ma sul piano strategico non hanno un obiettivo praticabile. La loro idea di fondo – spesso confessata apertamente dai più cretini – è quella di “costringere” gli Stati Uniti a intervenire militarmente nel conflitto, provocando Mosca con attacchi diretti o manovre azzardate (nel mar Baltico, soprattutto).
Una “strategia” per cui è difficile trovare aggettivi appropriati…
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