Cina e dialettica marxista
di Salvatore A. Bravo
La Cina è sicuramento “il baluardo” che limita l’imperialismo a stelle e strisce. Guardare in direzione della Cina con le leggi della dialettica è necessario, poiché la dialettica marxista insegna che gli orientamenti della storia devono essere compresi e decodificati per orientare la rivoluzione e i mutamenti radicali in modo proficuo, e la Cina, a prescindere dalle opinioni personali, è la civiltà (socialista) con cui dovremo confrontarci. Non è solo una nazione immensa, quasi un continente nel continente asiatico, ma una civiltà-nazione con una identità e storia millenaria sopravvissuta al colonialismo cannibalico occidentale. Essa oggi è la civiltà che apre nuovi scenari politici, mentre l’occidente cerca di perpetuare il suo impossibile dominio:
“Il materialismo dialettico concepisce l’universo come “un movimento della materia, retto da leggi”, che si riflette nella nostra conoscenza, “prodotto superiore della natura” . Il pensiero è riflesso di questa realtà, ed è perciò anch’esso in un processo di continuo movimento e trasformazione. Al modificarsi della realtà materiale non può che corrispondere una trasformazione del pensiero. Essendo il nostro pensiero il riflesso della realtà materiale, noi possiamo arrivare alla comprensione oggettiva di questa. Il pensiero umano è espresso però da singoli individui, che non possono che avere una conoscenza relativa, limitata dal tempo e dallo spazio, oltre che dallo stato di sviluppo della società e delle sue forze produttive e scientifiche[1]”.
La dialettica ci insegna che le fasi di rottura causate dalle contraddizioni conducono a salti qualitativi, poiché nella contraddizione si afferma un innalzamento qualitativo generale della coscienza dei dominati. Tale coscienza non è assimilabile all’opinione personale, ma alla constatazione dell’inevitabilità dei processi storici in corso. Questi ultimi non sono mai “semplici segmenti” separati dalla totalità della storia, ma trovano la loro oggettiva ragion d’essere nell’immanenza olistica e trasformatrice della storia:
“Il materialismo dialettico ci insegna che le trasformazioni avvengono attraverso accumuli quantitativi e salti qualitativi. Ci insegna anche che nessun processo è “puro”, che ogni salto qualitativo non significa fare tabula rasa, e che è sulla base dell’esistente per come è, non per come si vorrebbe fosse, che viene costruito il futuro. Ciò riflette la reale evoluzione storica, che testimonia come in una data società non vi sia mai un unico modo di produzione, ma diversi, tra cui uno dominante[2]”.
Nessuna rivoluzione è possibile senza l’agire politico della coscienza umana, e la Cina dimostra che le leggi della storia devono essere pensate e riorientate da una classe di uomini che le contestualizzano all’interno della progettualità socio-politica. Senza preparazione politica e la coscienza di classe le potenzialità della storia restano nel caos dell’inerte.
Socialismo
Marx nel Manifesto del Partito comunista aveva delineato che il passaggio dal capitalismo al comunismo sarebbe stato preceduto da una fase intermedia socialista nella quale la proprietà privata non sarebbe stata del tutto abolita, ma sarebbe stata gestita dalla pianificazione statale a fini sociali, ovverossia sarebbe stata finalizzata al benessere generale. Lo stato proletario avrebbe gestito direttamente taluni settori primari dell’economia e avrebbe usato proprietà privata e capacità imprenditoriale borghese per migliorare le condizioni economiche generali. Non possiamo non rammentare che Marx ha scoperto la relazione tra sfruttamento e alienazione per cui il socialismo è, anche, la prima fase del superamento dei processi di sfruttamento e alienazione. La Cina è oggi un ibrido, in cui i processi di alienazione sono ignorati:
“L’abbattimento dell’egemonismo statunitense, assetto definitivo del sistema imperialista, sarebbe impossibile senza due fattori determinanti: • una “nuova globalizzazione” opposta a quella basata sul Washington Consensus; • lo straordinario sviluppo economico, scientifico e produttivo della Repubblica Popolare Cinese. Entrambi questi fattori chiamano in causa la riflessione sul rapporto tra socialismo ed economia di mercato. Nel Manifesto del Partito Comunista, Karl Marx e Friedrich Engels affermano che il proletariato, una volta conquistato il potere politico, dovrà adoperarlo per “strappare a poco a poco alla borghesia tutto il capitale, per accentrare tutti gli strumenti di produzione nelle mani dello Stato, cioè del proletariato organizzato come classe dominante, e per moltiplicare al più presto possibile la massa delle forze produttive”[3]”.
Il salto qualitativo verso il comunismo è preparato da un lungo periodo di gestazione politica anche dell’economia privata. Tale sistema ibrido lo si è riscontrato anche nell’esperienza della NEP di Lenin, per cui l’esperienza cinese, secondo non pochi, è nell’alveo della storia marxista:
“Fu la Rivoluzione d’Ottobre e la conseguente creazione di uno Stato socialista a zittire tramite la pratica le chiacchiere “massimaliste” di chi si aspettava la magica e immediata sparizione del mercato, della moneta e di ogni regime proprietario che non fosse quello collettivo. Dopo la parentesi del “comunismo di guerra”, riorientamento economico dettato dalle necessità belliche ma foriero di tensioni estreme con le campagne, Vladimir Lenin guidò l’affermazione della Nuova Politica Economica, la NEP, basata su una rinnovata libertà di commercio, sullo sfruttamento del personale tecnico e amministrativo borghese e del capitale tanto domestico quanto straniero, in poche parole di una notevole “restaurazione del capitalismo” resa necessaria dallo stato miserevole delle campagne, per colpa del quale qualsiasi politica d’espansione industriale centralizzata si trasformava in un velleitario miraggio. Una restaurazione del capitalismo, ma sotto il controllo dello Stato proletario, un capitalismo costruito attorno alla base dell’economia pubblica socialista, articolato in una molteplicità di forme proprietarie ibride, dalle concessioni alle cooperative, e sottoposto alla direzionalità politica del Partito Comunista Russo (Bolscevico)[4]”.
Il problema che dovremmo porci è se un’economia gestita da una oligarchia autoreferenziale possa essere definita socialista, giacché in una simile cornice operai, impiegati e tecnici continuano a essere oggetto delle decisioni delle oligarchie burocratiche limitrofe ai poteri economici. Il socialismo cinese nei fatti dovrebbe essere il modello che corregge l’oligopolio capitalistico che nei fatti soffoca, ed è vero, il mercato, e pertanto, anche, la capacità produttiva del modo di produzione capitalistico che resta incapsulato e assediato dal dominio di pochi attori economici. Il socialismo cinese con la sua economia ibrida consente, invece, di liberare le potenzialità produttive guidandole verso una produzione razionale perché gestita dallo stato in funzione dei bisogni del popolo e, non certo, dei gruppi economici. La Cina con i suoi strabilianti risultati dimostra col suo “socialismo” un grado di “razionalità superiore” al decadente e aggressivo capitalismo occidentale a guida NATO-USA:
“Già l’economista liberale Schumpeter rilevava, nel secondo dopoguerra, come le banche agissero come una sorta di versione privata del Gosplan, l’agenzia di pianificazione sovietica, indirizzando il credito sulla base di proprie previsioni e interessi, facendo materializzare la “mano invisibile” del mercato a seguito di ciò. Come da lui precedentemente affermato, “il capitalismo sta venendo ucciso dai suoi risultati”: le crescenti concentrazione del capitale e socializzazione del lavoro stanno rendendo progressivamente obsolete le stesse strutture “classiche” del capitalismo nella sua fase di libero mercato, già ampiamente superata da più di un secolo. All’atto pratico, la lotta per la costruzione di un sistema socialista nel mondo moderno non è tra “economia di mercato” ed “economia pianificata”, ma tra gruppi contrapposti che si contendono il controllo delle leve apicali dell’economia e la pianificazione ad esse associata. L’anarchia del mercato del capitalismo si esprime in uno uso irrazionale, mutevole e privatistico di questa pianificazione economica, che risponde unicamente all’interesse di particolari settori del capitale monopolistico, contrapposto a quello dei settori concorrenti e a quello della stragrande maggioranza dell’umanità. La distribuzione tramite il mercato delle risorse avviene unicamente “a valle” rispetto alle “alture dominanti” dell’economia mondiale, e riflette gli indirizzi pianificati dal capitale finanziario monopolistico, o, nei paesi socialisti, dai partiti comunisti. Mai come oggi appare chiara l’abolizione della proprietà privata per la stragrande maggioranza delle persone prodotta dal sistema capitalista. Il passaggio al socialismo comporta una “negazione della negazione”, con il recupero della proprietà persa nel capitalismo tramite la sua trasformazione in senso collettivo e sociale. Il mercato e i suoi attori, così come concepiti astrattamente dall’economia borghese e anche da troppi marxisti amatoriali, semplicemente appartengono già al passato. L’estrema sinistra occidentale ha ereditato ogni distorsione “massimalista” attorno alla questione del rapporto tra mercato e socialismo, confondendo quest’ultimo con miraggi basati sul mutualismo anarcoide più vicini a una comune hippie che a qualsiasi progettualità politica concreta. Non riuscendo a comprendere le reali aspirazioni delle masse per lo sviluppo economico e per condizioni di vita progressivamente migliori, l’estrema sinistra occidentale non può che ignorare gli enormi risultati ottenuti da Stati socialisti come la Cina, il Vietnam o il Laos attraverso una corretta comprensione del rapporto tra sistema socialista ed economia di mercato. La lotta alla povertà, lo sviluppo tecnico e produttivo, la creazione di una ricchezza condivisa sempre maggiore per centinaia di milioni di persone sono fatti “poco interessanti” per loro, fatti che anzi suonano come campanelli d’allarme per il preteso “tradimento” degli ideali[5]”.
I risultati notevoli sono indubitabili, ma non dobbiamo dimenticare che la Cina con la fine della fase maoista era connotata da un tessuto industriale debole e non privo di contraddizioni, pertanto la crescita formidabile è da leggere all’interno di una crescita quantitativa che è partita da livelli bassissimi e, ora, può competere con l’occidente. La NEP cinese non vorrebbe essere la restaurazione del capitalismo, ma la via cinese al socialismo, ma non vi è chiarezza sul fine ultimo di tale sviluppo, ovvero se oltre la fase socialista, vi è il comunismo:
“Attualmente la Repubblica Popolare Cinese si trova nella fase primaria del socialismo, caratterizzata da un sistema economico avente la regolazione tramite il mercato come elemento di base e la regolazione statale come elemento dominante. L’aver governato in maniera efficace questa fase di sviluppo ha permesso alla dirigenza comunista cinese di porre come obiettivo per il centenario dalla fondazione della RPC l’avvenuta costruzione di un paese socialista moderno. La “svolta” guidata da Deng Xiaoping non fu una “restaurazione del capitalismo” nel senso comunemente inteso dai critici, ma un necessario adeguamento del paese alle reali condizioni materiali, simile in ciò alla NEP di Lenin. Dalla Nuova Politica Economica si distingue però in quanto questa fu pensata come “ritirata strategica” dell’economia socialista, mentre le riforme cinesi sono guidate dall’innovazione teorica secondo cui il mercato può continuare ad esistere all’interno dello stesso sistema socialista. Solo lo sviluppo delle forze produttive permette alla progettualità socialista di avanzare[6]”.
Il Presidente XiJinping non ha mai nascosto il progetto geo-politico della Cina, la globalizzazione è la condizione affinché il modello cinese ibrido possa diventare disegno politico che unisce l’umanità nel socialismo. Il mercato, di conseguenza, da essere istituzione rapace e volta al saccheggio, in comune accordo può diventare strumento per il comune benessere dei popoli se debitamente controllato al fine di liberare le potenzialità positive che l’oligopolio USA impedisce:
“Come più volte riconosciuto dal Presidente XiJinping, la globalizzazione, intesa come progressiva integrazione economica dell’Umanità, rappresenta una tendenza oggettiva dei tempi, un processo irreversibile la cui attuale configurazione richiede non già una irrealistica messa in discussione integrale, ma un nuovo orientamento, una trasformazione radicale che ponga al centro gli interessi materiali dei diversi paesi e lo sviluppo comune dell’Umanità. Parlare in questi termini di “trasformazione” della globalizzazione non significa altro che riconoscere le conseguenze economiche della multipolarizzazione del mondo. Il mercato non può più essere visto come un feticcio da adorare in maniera fondamentalistica, ma ricondotto al suo ruolo di strumento a cui ricorrere in maniera controllata e secondo norme chiare e univoche. Allo stesso tempo non si può pensare a una futura economia mondiale come a un insieme di “isole” fondamentalmente separate le une dalle altre. La dialettica tra indipendenza e interdipendenza si manifesterà pienamente nell’economia del mondo multipolare, portando a una maggiore integrazione senza però che ciò comprometta la sovranità dei vari paesi o gruppi di paesi. Ciò è impossibile fintanto che l’imperialismo statunitense conserverà la sua posizione egemonica, ma diverrà immediatamente possibile una volta che questo sarà abbattuto, garantito dal sistema di governance globale a cui la Repubblica Popolare Cinese e le altre forze impegnate nello sviluppo della multipolarizzazione del mondo stanno lavorando, fondato tanto sulle Nazioni Unite quanto sulle nuove forme organizzative multilaterali sviluppate negli ultimi decenni[7]”.
Anche in questo caso è possibile sollevare dubbi, in quanto vi è il rischio che l’oligopolio USA sia sostituito da quello cinese. La storia ci dimostra che nessun popolo salva o libera un altro popolo in modo disinteressato. I liberatori spesso diventano nuovi dominatori, a volte mediante il controllo diretto del territorio, altre volte mediante il controllo dell’economia e per mezzo dell’egemonia culturale.
Lotta di liberazione e patrie
Il socialismo non è l’internazionalismo astratto che talune frange della sinistra ancora oggi propugnano, ma lotta comune, e dunque internazionale, dei popoli fratelli contro gli oppressori. Il comunismo sovietico guidò la lotta al colonialismo. I proletari non hanno patria, perché non sono soggetti politici in patria ma semplici strumenti dei padroni e dei dominatori. L’Italia è oggi una semicolonia, in quanto è occupata dalle basi NATO e il potere finanziario gestisce la sua economia. Non è secondaria l’egemonia culturale liberal che spira dagli Stati Uniti che ha trasformato la nazione in una terra senza identità. La Cina con la sua presenza e la sua storia dimostra che uno stato asservito può liberarsi dei dominatori e ritrovare l’identità nazionale:
“La Storia offre infiniti esempi di ciò: il capitalismo, un tempo fonte di progresso e sviluppo, si è trasformato in un ostacolo decadente e avvizzito a qualsiasi nuovo avanzamento produttivo, sociale, politico e culturale; la classe borghese, prima una classe dinamica e progressiva, si è trasformata in una classe parassitaria e reazionaria; la Cina, da paese povero e conteso tra vari gruppi imperialisti, si è trasformato grazie al Partito Comunista Cinese in un paese avanzato e moderatamente prospero, avviato alla piena realizzazione di un sistema socialista moderno; l’Unione Sovietica, a causa del nichilismo storico e dell’arretramento ideologico, è passata da essere un grande paese socialista al dissolvimento e alle devastazioni degli Anni ‘90; gli Stati Uniti si sono trasformati da una lontana colonia d’oltreoceano alla potenza imperialista egemonica, mentre ora è in corso un’inevitabile ulteriore processo che li porterà o a essere un paese “normale” tra tanti, o a scomparire per come esistono oggi; i partiti politici della grande borghesia italiana, che per diversi decenni si erano ammantati di parole d’ordine “patriottiche” e di una retorica imperialista aggressiva, si sono trasformati nei fedeli servitori di interessi stranieri, aprendo le porte al pieno controllo del nostro paese da parte degli Stati Uniti e dei vari attori minori ad essi collegati, dall’Inghilterra alla Germania, da Israele alla Francia. La trasformazione dell’Italia da paese imperialista in semi-colonia, un’evoluzione inedita, resa possibile solo dalla particolare configurazione dei rapporti di forza venutasi a creare dopo le due guerre mondiali e dalla debolezza relativa della borghesia italiana è difficilmente contestabile ed è verificabile quotidianamente nelle molteplici manifestazioni della subordinazione del nostro paese, grande borghesia inclusa, al potere egemonico di Washington[8]”.
La Cina in tale processo di liberazione è stata favorita da condizioni oggettive: una grande civiltà, demografia e risorse minerarie, non secondaria è la disciplina del popolo cinese e la sua capacità di resistenza derivata dalla cultura e dal confucianesimo. L’Italia è oggi una semi-colonia, il dato è oggettivo e indiscutibile. Gli eventi storici che dimostrano la totale sussunzione dell’Italia alle logiche dei dominatori sono evidenti e incontestabili:
“La totale subordinazione economica all’imperialismo statunitense non può che sposarsi a quella politica. E, dopo il Cermis, Ustica, Moro, l’Operazione Blue Moon, la pregiudiziale anticomunista imposta fin dal 1947, la Gladio, l’assassinio di Gheddafi, il ritiro dalla Via della Seta, le sanzioni alla Russia, l’invio di navi militari nel Mar Rosso e nel Mar Cinese Meridionale, le decine di bombe atomiche accatastate sotto i nostri piedi, le intercettazioni dell’NSA e l’aumento delle spese militari, prontamente sganciato dal calcolo del rapporto debito/PIL grazie alla “vittoria” del nuovo patto di stabilità e infiniti altri esempi, sarebbe insultante anche nei confronti del più imbecille degli italiani dover argomentare al fine di dimostrare ciò. Il pilota automatico imposto al nostro paese dal 1948 è evidente a chiunque osservi la realtà italiana per quella che è, ed è anche apertamente rivendicato persino dai media e da ex-presidenti del consiglio, come Romano Prodi, che a dicembre 2023, ridendo, spiegò a Lilli Gruber come scegliere “ministri degli esteri americani e ministri dell’economia bruxellesi” fosse un qualcosa di obbligato, facendo riferimento alla “normalizzazione” del governo Meloni[9]”.
Malgrado la congiuntura storica al momento sia sfavorevole, non bisogna cadere e crogiolarsi in un opportunistico pessimismo che favorisce l’ipostatizzazione del presente. In Italia è assente una reale e autentica opposizione, ciò malgrado il popolo ha dato segnali di vivacità e di consapevolezza in più occasioni. L’Italia potrebbe entrare a pieno titolo nel dibattito sul futuro dell’occidente e sul superamento del capitalismo:
“L’Italia non è condannata a morire con il vecchio mondo: può partecipare alla costruzione di quello nascente. Per farlo è necessaria una nuova liberazione nazionale che cacci via gli imperialisti statunitensi e le cricche di speculatori e compradores loro alleati. È necessario riconquistare la nostra indipendenza, ma per muoversi politicamente in questo senso serve prima riconoscere la natura semicoloniale dell’Italia contemporanea, abbandonando qualsiasi confusione in merito e rifondando sui fatti e sul materialismo dialettico la propria visione del mondo[10].
In Italia manca una organizzazione politica che possa supportare il malessere che serpeggia nella società civile. Il comune cittadino vive sulla sua carne dolente gli effetti delle politiche neoliberali, ma non vi sono partiti o istituzioni che diano “forma” alla contestazione. Gli oppositori al sistema capitalistico sono silenziati, nei media non appaiono e quando sono invitati nei talk show la loro parola si perde nel chiasso organizzato dal sistema. Anche i movimenti che hanno acquisito popolarità cavalcando l’onda del disagio si sono velocemente adeguati al sistema finendo col diventare strumento di addomesticamento della protesta. Il popolo italiano affronta in solitudine la tragedia del liberismo, malgrado abbia mostrato in più occasioni la sua opposizione, ma senza una reale rappresentanza politica la protesta è stata politicamente sterile:
“Le masse italiane hanno saputo anche tradurre in atti concreti l’opposizione all’agenda neolibersita, si pensi ai diversi movimenti che hanno invaso le piazze del paese dal 2011 in poi, non ultimo quello in contestazione della gestione pandemica, ma anche alla grande quantità di mobilitazioni locali, di comitati di associazioni cittadini che si sono sviluppati in ogni parte della Penisola attorno a questioni quali la privatizzazione dell’acqua, dei servizi pubblici, la chiusura di ospedali, scuole o posti di lavoro, o ancora la subordinazione delle politiche locali agli interessi di speculatori e gruppi di potere. Se queste mobilitazioni non hanno potuto, nella stragrande maggioranza dei casi, evolversi verso una più decisa politicizzazione è a causa della mancanza di un’avanguardia politica e organizzativa. Le forze dell’estrema sinistra si sono dimostrate complessivamente non all’altezza di ricoprire tale ruolo, ma hanno anzi in più occasioni dirottato i movimenti per condurli nel rassicurante alveo del settarismo identitario, utilizzandoli tipicamente per rafforzare le forze del centro-sinistra nelle competizioni elettorali locali e nazionali. Nonostante il clima di crescente sfiducia verso la politica, tanto quella parlamentare quanto quella extraparlamentare, non è venuta meno la carica mobilitativa del popolo italiano[11]”.
Con la coscienza di classe e storica bisogna far crescere organizzazioni politiche che possano trasformare la coscienza di classe in dialettica politica, è il tema del nostro presente, ciascuno può dare il proprio contribuito e deve darlo, in quanto nulla avviene senza l’agire umano. Il tema imprescindibile, sempre meno discusso, è la liberazione dalla sudditanza culturale e politica agli USA. Il multipolarismo potrebbe aprire scenari di libertà e consapevolezza, ma è anche vero che l’irrigidimento in due blocchi contrapposti potrebbe favorire il rafforzamento del controllo USA-NATO sull’Italia. L’impero in decadenza potrebbe reagire all’assedio BRICS innalzando il livello di sorveglianza sugli stati satellite. Il futuro ci pone di fronte a possibilità non profetizzabili con cui ci si deve confrontare. Il dato di fatto certo è la colonizzazione culturale. Intere generazioni sono e sono state cresciute nella rimozione della propria identità patria e storica e sono state nutrite con il globish. Il rifiuto preconcetto della tradizione filosofica e religiosa italiana e l’ostilità verso le lingue classiche e la lingua italiana sono il sintomo del dominio, a cui bisogna rispondere. Ogni contributo favorisce il processo di attraversamento della sovrastruttura egemonica caratterizzata da un nichilismo crematistico che come una rete avvolge i dominati e ne deforma le capacità divergenti e umane. La crisi demografica è il sintomo più palese dell’identità minacciata; un popolo sempre più ristretto nei numeri, le nuove generazioni sono per tradizioni i “ribelli”, ha difficoltà sempre maggiori a proporre la progettualità politica. Tutto questo è il nostro tempo dopo trent’anni di liberismo spietato. Nulla è impossibile, ma è necessario confrontarsi senza pessimismo col presente per riaprire gli scenari della storia.