La danza immobile delle manifestazioni in Israele
di Sergio Cararo
Le manifestazioni di protesta che proseguono in Israele hanno una natura multiforme e contraddittoria.
Si dichiarano contro un governo non gradito da anni a quasi metà del paese, un dato già palesatosi dall’insediamento di Netanyahu. Criticano apertamente la gestione della liberazione degli ostaggi ancora prigionieri a Gaza che rischiano di lasciarci la pelle a causa delle azioni dell’esercito israeliano. In alcuni casi protestano contro la crescente egemonia del fondamentalismo ebraico nella società israeliana. Solo una esigua minoranza protesta anche contro la guerra e l’accanimento contro i palestinesi, l’auspicio è che questa cresca e aumenti la propria influenza ma è, appunto, un auspicio ma non la realtà.
Come nelle manifestazioni di tre anni fa contro il governo Netanyahu, nelle proteste di questi mesi non c’è nessun riferimento alla brutalizzazione delle condizioni di vita e di esistenza dei palestinesi né all’annessione di fatto di Cisgiordania e Gaza da parte di Israele e all’espulsione dei palestinesi. Su questo, come noto, tutti i sondaggi indicano che tra il 70 e l’80% degli israeliani in qualche modo condividono questa prospettiva. In Israele è ampiamente maggioritaria l’idea che la “seccatura palestinese” vada liquidata definitivamente affinché tutte le problematiche, incluse quelle più conflittuali, possano e debbano essere affrontate e risolte all’interno di uno stato esclusivamente ebraico così come definito dalla decisione della Knesset del 2018.
Nella politica e nei mass media italiani e occidentali, fino a ieri supinamente filo-israeliani e ossessionati dalla tesi che in fondo Israele è una democrazia, ci si appiglia a queste manifestazioni come indicatori della stessa, alimentando l’idea che per tale ragione non si può isolare né sanzionare Israele come è stato fatto per altri paesi accusati di genocidio, crimini di guerra, brutalità contro le popolazioni civili. Chi parla delle manifestazioni come espressione di un presunto “sionismo buono” non va molto lontano dalla realtà. Ma per i palestinesi questo fattore è diventato del tutto irrilevante.
Nel dibattito pubblico si continua a ritenere e a diffondere la tesi secondo cui il problema è solo Netanyahu e il suo governo e una volta rimossi o ridimensionati questi, il problema sarebbe risolto e la democrazia ristabilita pienamente. Contestualmente gli stessi commentatori continuano a ripetere che la liquidazione di Hamas dal campo politico palestinese sarebbe la soluzione ideale. In entrambi i casi sono una semplificazione e uno schematismo indecenti e sballati.
Ma se dal supposto scontro in una “democrazia” è assente la questione oggi principale – l’esistenza, la vita e l’autodeterminazione dei palestinesi – o non ne rappresenta neanche uno dei temi del conflitto, è evidente come anche la dialettica democratica ne risulti monca o fallata.
C’è forse un altro aspetto delle manifestazioni in Israele che non viene però opportunamente segnalato, ossia che di fronte all’oltranzismo genocida e colonialista del governo Netanyahu e all’inerzia fattiva della cosiddetta comunità internazionale, forse solo una forte crisi sul fronte interno, anche per motivi esclusivamente legati alle relazioni tra le varie componenti del sionismo politico al governo o all’opposizione in Israele, potrebbe agire come leva di un cambiamento di condizione sul campo che oggi appare invisibile.
Si tratterebbe di uno scontro e una crisi interna a Israele non dovuto ad una rivolta morale contro il genocidio del popolo palestinese ma solo a problemi interni alla società e alla politica israeliana, ma una crisi – se reale – è sempre una opportunità che prima non c’era e che può aprire nuove contraddizioni dove prima non si manifestavano come tali.
I palestinesi hanno amaramente verificato che nella loro lotta non hanno veri alleati – tranne rarissime eccezioni in questo mondo – né le armi e la forza sufficiente per procedere fattivamente sulla strada della loro autodeterminazione.
Certo in questi anni, e soprattutto nei mesi più recenti, nel mondo e nelle società, l’empatia e la solidarietà con la causa palestinese è cresciuta moltissimo, aprendo brecce in muri di ostilità fino a ieri solidissimi e raggiungendo ambiti prima silenti, distratti o vittime della propria autocensura.
Questa empatia verso i palestinesi è oggi inversamente proporzionale alle azioni concrete dei governi occidentali che, nella migliore delle ipotesi, galleggiano sulle dichiarazioni formali ma latitano sulle azioni concrete come le sanzioni a Israele.
L’alternativa è accettare di convivere con l’orrore di un genocidio sotto i nostri occhi, un costo che la maggioranza della società israeliana e della diaspora ebraica, così come le classi dominanti in occidente, appaiono ancora disponibili ad accettare in nome della sopravvivenza di Israele, sia come “democrazia” sia come baluardo del “lavoro sporco” per conto degli interessi occidentali in Medio Oriente.
Per le nostre generazioni tutto ciò appare un abominio, ma per la generazione precedente che ha vissuto gli anni Trenta e la Seconda Guerra Mondiale è stata la normalità. In fondo è stato proprio questo il timore e la denuncia di Primo Levi.