Pensiero critico. Perché progressismo e sinistra perdono le elezioni?
di Álvaro García Linera*
Le sinistre e i progressismi al governo non perdono le elezioni a causa dei troll dei social network. Né perché le destre sono più violente, e tanto meno perché la gente che ha beneficiato delle politiche sociali è ingrata.
Le battaglie politiche sui social non creano dal nulla ambienti politico-culturali espansivi nelle classi popolari maggioritarie. Le radicalizzano e le conducono lungo percorsi isterici. Ma la loro influenza presuppone, in precedenza, l’esistenza sociale di un malessere generalizzato, di una disponibilità collettiva al distacco e al rifiuto delle posizioni progressiste.
Allo stesso modo, le destre estreme, autoritarie, fascistoidi e razziste sono sempre esistite. Vegetano in spazi marginali di militanza rabbiosa e chiusa in sé stessa. Ma la loro predicazione si espande a causa del deterioramento delle condizioni di vita della popolazione lavoratrice, della frustrazione collettiva lasciata da progressismi timorosi, o della perdita di status di settori medi.
E quanto a quelli che sostengono che la sconfitta sia dovuta all'”ingratitudine” di quei settori precedentemente beneficiati, dimenticano che i diritti sociali non sono mai stati un’opera di beneficenza governativa. Sono state conquiste sociali ottenute nelle strade e attraverso il voto.
Per tutto questo, senza alcuna scusa, un governo progressista o di sinistra perde le elezioni per i suoi errori politici.
E questi errori possono essere molteplici. Ma c’è un difetto che unifica tutti gli altri: l’errore nella gestione economica, nel prendere decisioni che colpiscono il portafoglio della grande maggioranza dei suoi sostenitori.
In Brasile, il colpo di stato parlamentare del 2016 contro Dilma Rousseff, guidato dalle frange più antidemocratiche dello spettro politico brasiliano, si è basato sul malessere economico che si protraeva da anni e che ha trovato nell’aggiustamento fiscale del 2015 un’ulteriore stretta alla contrazione dei redditi popolari.
In Argentina, il peronismo ha perso le elezioni del 2023 a causa dell’aumento dell’inflazione durante la gestione di Alberto Fernández. Sebbene la tendenza inflazionistica sia una costante dell’economia argentina da decenni, c’è una soglia storica che, una volta superata, porta a una liquefazione delle lealtà politiche popolari, spingendo la gente ad aggrapparsi a qualsiasi proposta, per quanto spaventosa, che prometta di risolvere questa volatilità asfissiante del denaro. L’anomalia politica di Milei è il modo distorto di incanalare la frustrazione verso l’odio e la punizione.
In Bolivia, lo strumento politico dei sindacati e delle organizzazioni contadine comunitarie (MAS) è destinato a perdere le elezioni a causa della disastrosa gestione economica di Luis Arce.
Con un’inflazione dei beni alimentari di base che sfiora il 100%, la mancanza di carburante che costringe a file di giorni per ottenerlo e un dollaro reale che ha raddoppiato il suo valore rispetto alla moneta boliviana, non è strano che il processo di trasformazione democratica più profondo del continente perda due terzi del suo sostegno popolare a favore di vecchi vendepatria che promettono di cacciare a calci gli indigeni dal potere, regalare imprese pubbliche agli stranieri e insediare, con la Bibbia in mano, le oligarchie cipaye della terra alla guida dello Stato.
Se a tutto questo si aggiunge il risentimento delle classi medie tradizionali, spodestate dai loro privilegi dall’ascesa sociale e dall’empowerment politico delle maggioranze indigene, è chiaro il tono apertamente revanscista e razzializzato che avvolge i discorsi delle destre boliviane.
In tutti i casi, ci sono anche altri fattori politici che rafforzano questi errori centrali che portano alla sconfitta. Nel caso del Brasile, le denunce di corruzione, poi manipolate politicamente. In Argentina, la stanchezza per il prolungato lockdown durante il coronavirus che ha distrutto parte del tessuto economico popolare.
In Bolivia, la guerra politica interna: da un lato, un mediocre economista che si trova per caso alla presidenza e che ha creduto di poter spodestare il leader carismatico indigeno (Evo) escludendolo elettoralmente; dall’altro, il leader che, nel suo declino, non può più vincere elezioni, ma senza il cui sostegno nessuno vince, e che si vendica contribuendo a distruggere l’economia senza capire che in questa ecatombe sta demolendo anche la sua stessa opera.
Il risultato finale di questo miserabile fratricidio è la sconfitta temporanea di un progetto storico e, come sempre, la sofferenza degli umili che non sono mai stati presi in considerazione dai due fratelli ubriachi di strategie personali.
In sintesi, le sconfitte politiche portano alle sconfitte elettorali.
Ora, la domanda che ci si pone è: come hanno potuto fallire economicamente governi progressisti e di sinistra quando, all’inizio, proprio quella era la forza legittimante che permise loro di vincere ripetutamente le elezioni? Nel caso della Bolivia, con il 55%, 64%, 61% e 47% al primo turno. Certamente, il progressismo latinoamericano del XXI secolo è emerso dal fallimento delle gestioni neoliberali dominanti dagli anni ’80.
La maggior parte ha implementato politiche redistributive della ricchezza e di ampliamento dei diritti. I risultati furono immediati: oltre 70 milioni di latinoamericani uscirono dalla povertà in un decennio, le istituzioni riservate a vecchie aristocrazie si democratizzarono e, nel caso della Bolivia, ci fu una ricomposizione delle classi sociali nello Stato, trasformando i contadini indigeni in classi con potere statale diretto.
Qui risiedeva la grande forza e legittimità storica del progressismo. Ma anche l’inizio dei suoi limiti, perché, completata quell’opera redistributiva iniziale, essa cominciò a mostrarsi insufficiente per garantire nel tempo la continuità dei diritti conquistati.
Si tratta di un limite dovuto al raggiungimento degli obiettivi, che avrebbe dovuto spingere a capire che i paesi erano cambiati proprio grazie al progressismo e che, quindi, bisognava proporre a questa nuova società riforme economiche di seconda generazione, capaci di consolidare i risultati ottenuti e di compiere nuovi passi verso l’uguaglianza.
Il progressismo e le sinistre sono condannati ad avanzare se vogliono sopravvivere. Fermarsi significa perdere.
La nuova generazione di riforme passa necessariamente attraverso la costruzione di una base produttiva espansiva, su piccola, media e grande scala, sia nell’industria che nell’agricoltura e nei servizi; del settore privato, contadino, popolare e statale; per il mercato interno e per l’esportazione, che garantisca un ampio sostegno industrioso e duraturo alla redistribuzione della ricchezza.
Ma, fino a oggi, i progressismi al governo, specialmente quelli alla seconda o terza gestione, o quelli che vogliono tornare a governare, rimangono ancorati ai successi passati, alla loro difesa malinconica e, a differenza di quando iniziarono la loro prima gestione, per ora mancano di una nuova proposta di trasformazione in grado di ridestare le speranze collettive attorno a un mondo da conquistare.
Che le destre si siano appropriate del paradigma dell’impulso al cambiamento non è un caso. È il risultato del conservatorismo dell’attuale progressismo. E anche delle sue sconfitte elettorali.
Tuttavia, lo spirito del tempo storico non si è ancora decantato. Né il continente né il mondo, che vanno a tentoni tra neoliberalismi ricaricati, protezionismi sovranisti o capitalismi di Stato produttivisti, hanno ancora definito la nuova fase lunga di accumulazione economica e legittimazione politica.
Per un po’, restiamo ancora in quella soglia liminale in cui sconfitte e vittorie sono brevi. Ma non durerà per sempre. Se il progressismo vuole continuare a essere protagonista di questa disputa sul destino, è obbligato a lanciarsi verso un futuro reinventato con audacia, con più uguaglianza e democrazia economica.
Comments
Sulla questione forse e' il caso di osservare quanto avviene in Venezuela. Gia' dall'epoca dell'inizio della rivoluzione con Chavez, erano state create le Comuni, organismi che avevano il compito di organizzarsi per gestire le riforme, la distribuzione dei viveri. Fatto sta che nella mobilitazione di questi giorni contro le minacce USA, una grande massa di milioni di venezuelani si sono mobilitati per la costituzione di milizie popolari. Non al posto dell'esercito ma compartecipando a eventuali azioni. Di fatto queste milizie popolari costituiscono una forza popolare di controllo e di stimolo anche nei confronti dello stesso esercito e dell'apparato dello stato. Si tratta ormai di una tappa importante verso la costruzione di un potere popolare socialista. E' il destino tragico dell'imperialismo: ogni qualvolta esterna minacce la reazione e' il compattamento popolare per difendere il proprio Paese.--