Il vero volto del liberalismo
di Fabrizio Venafro
I regimi liberali, privi dell’alternativa socialista, rappresentata dall’Unione Sovietica decaduta nell’ultimo decennio del secolo scorso, possono mostrare la propria vera indole. Che non è quella di promuovere la libertà e la tutela dei diritti di derivazione illuministica: pensiero, opinione, espressione, associazione, riunione, cittadinanza, partecipazione politica, etc. A meno di non confondere il possesso di questi diritti da parte di una minoranza con quello della collettività tutta. Nella sua ostinata negazione dell’uguaglianza, se non formale e astratta, il liberalismo nega di fatto quanto va predicando. La tensione verso i diritti origina dalla lotta che contrappone la classe borghese in ascesa all’aristocrazia che è padrona delle prerogative politiche e del comando. La nobiltà era tale per diritto divino e discendenza di sangue. La borghesia fonda i presupposti per la propria supremazia sulla proprietà e la ricchezza. In astratto, chiunque può diventare borghese attraverso lo strumento principale celebrato dalla retorica borghese: l’impresa che fonda la ricchezza. Con l’etica protestante, tale retorica si ammanta anche di una giustificazione religiosa. Si torna a una sorta di diritto divino che trapassa dall’aristocratico al borghese. Diritto divino imperscrutabile perché tale è il volere della divinità. Ma che viene reso manifesto dalla prova del successo terreno attraverso la ricchezza. Quell’etica protestante, rilevata da Max Weber, ha lasciato degli strascichi nella cultura liberale. La teoria della predestinazione spaccava in due l’umanità, tra salvati e dannati.
Questi ultimi, identificati facilmente nei poveri, perché portavano sulla propria pelle non il segno della salvazione bensì della dannazione, erano facilmente etichettati come reietti. La pietas verso i poveri, propria del cristianesimo di matrice cattolica, è sconosciuta al protestantesimo.
Di questa impostazione risente la teoria liberale, i cui fondatori sono per lo più di origine nordica, anglosassone. Nella WASP statunitense, questa impostazione è tutt’ora dominante. Per questo il rapporto del liberalismo con le masse è impostato con una modalità che ricorda quello tra dannati e predestinati alla salvezza, quindi tra poveri e ricchi. Viene capovolta la massima evangelica del ricco che non ha possibilità di accedere al regno dei cieli. Al contrario, è il povero che mostra lo stigma della dannazione per volontà divina. Finalmente, il ricco ha una sua legittimazione etica avallata dalla religione. Conseguentemente, fin dalle origini, premura dei teorici liberali è stata quella di escludere le masse dalla gestione del potere. Perché ritenute incapaci di comprendere gli arcana imperii. Perché considerate alla stregua di un infante che deve essere condotto per mano, non essendo in grado di decidere autonomamente la via da percorrere. Le libertà celebrate dai teorici liberali erano pensate per l’élite borghese che si contrapponeva all’assolutismo del sovrano. Quando le masse cominciano a pretendere un ruolo da coprotagonista nella storia, occorre spiegare loro che non hanno gli strumenti per recitare quella parte. I movimenti rivoluzionari che si oppongono all’assolutismo devono farsi forza dell’apporto delle masse popolari. A cominciare dalla lotta dei principi tedeschi contro l’impero nel XVI secolo, per passare alla rivoluzione inglese del secolo dopo e a quella francese nel XVIII, le lotte contro l’assolutismo lasciano intravvedere il tentativo delle masse di porre al centro della protesta la questione dell’uguaglianza. I contadini nelle lotte di religione in Germania, i livellatori nella rivoluzione inglese, i giacobini e i sanculotti in quella francese. Tutti tentativi duramente repressi nel sangue dalla borghesia (eccezion fatta per i contadini tedeschi sterminati dai nobili protestanti con la benedizione di Martin Lutero). Il tentativo giacobino viene reiterato nel 1848 e nella Comune di Parigi del 1871, ma il risultato è lo stesso.
Tutta la struttura teorica liberale, con la teoria dello stato caratterizzato dalla divisione dei poteri, è pensata per l’élite borghese. Le elezioni sono a suffragio ristretto nella gran parte dei paesi fino alla fine della Seconda guerra mondiale. Il Primo conflitto mondiale viene vissuto come la grande guerra tra le potenze liberali e quelle autoritarie. Ma a guardare la composizione dei parlamenti, la presenza importante del movimento dei lavoratori nel parlamento tedesco sarebbe stata impensabile nella liberale Gran Bretagna a suffragio ristretto. Persino i pieni poteri ai militari in tempo di guerra furono applicati maggiormente dai regimi liberali rispetto a quelli cosiddetti autoritari.
Con la fine del Secondo conflitto mondiale, l’Unione Sovietica si confermava come grande potenza mondiale al pari degli Stati Uniti. Se Berlino ovest era la vetrina capitalista che metteva in mostra le gioie del consumismo, l’Occidente liberal-capitalista non poteva ignorare il messaggio che arrivava da oltrecortina, ossia che un altro mondo non capitalista e più equo era possibile. L’esempio sovietico fu uno dei fattori che favorì l’instaurazione del welfare state in Occidente, e di quelli che sono passati alla storia come i Trenta Gloriosi, il trentennio in cui si affermava il compromesso tra capitale e lavoro, in cui la ricchezza di pochi era limitata in funzione del benessere collettivo. Non stupisce che quella fase, già messa in discussione negli anni Ottanta del secolo scorso, in cui cominciava la rivalsa neoliberale, abbia potuto essere archiviata definitivamente con l’implosione del sistema sovietico. I Trenta gloriosi non sono stati solo la fase in cui si è ristretta la forbice tra ricchezza e povertà nell’Occidente ricco, ma hanno rappresentato il punto più alto della partecipazione popolare alla gestione del potere. Ciò non è avvenuto solo attraverso elezioni partecipate, ma soprattutto tramite forme di azione politica consentite dall’alto tasso di politicizzazione e consapevolezza degli individui. E, in modo considerevole, dalla presenza di grandi partiti di massa che si facevano carico dell’interpretazione della complessità della politica. Era, del resto, il ruolo svolto dalle ideologie, che permettevano agli individui di capire da quale parte stare senza dover ogni volta reinterpretare la realtà.
Finito quel mondo, le conseguenze sono state allo stesso tempo economiche e politiche. Economiche, perché le élites sono tornate ad arricchirsi senza incontrare alcun limite. La forbice si è allargata a dismisura permettendo una concentrazione della ricchezza mai vista prima o che ci riporta all’epoca della Belle Époque, come ha rilevato Thomas Piketty. E politiche, perché il ruolo delle masse ha perso incisività nella gestione del potere. Da una parte la fine delle organizzazioni di massa come strumenti di mediazione tra potere e individuo, dall’altra quella delle ideologie a favore di un pensiero unico, quello neoliberale, che nega l’esistenza stessa della società se non come pura somma degli individui. È il trionfo della logica della disintermediazione. Con il risultato che all’individuo è richiesto lo sforzo di orientarsi da solo nella complessità di una politica che si avvale sempre più di nozioni tecniche che assurgono a vera cartina di tornasole per l’adozione di provvedimenti. La tecnicizzazione della politica è stata la gallina dalle uova d’oro del neoliberalismo. Se ogni decisione è presa in base a ragionamenti non di opportunità e quindi di valutazione tra interessi contrapposti, ma di efficienza presunta, allora le scelte sono ineluttabili, non ammettono alternative. Si è parlato in merito di tecnocrazia, per indicare una traslazione del potere dall’ambito della politica e dei parlamenti, a quello dell’economia, con le sue istanze non elettive che si pongono artatamente in una posizione super partes. Il risultato è stata una disaffezione dalla politica, la cui più evidente manifestazione è il crescente astensionismo dalle tornate elettorali.
Oggi la torsione autoritaria dei regimi liberali i accentua sempre più. Si assiste, infatti, all’adozione di provvedimenti che limitano il diritto di espressione. Si era iniziato negli Stati Uniti con il movimento Occupy Wall Street, per contrastare il quale venivano varati divieti ad hoc per impedire manifestazioni di dissenso nei confronti della politica nazionale. Si è poi proseguito con la criminalizzazione degli attivisti climatici, soprattutto in Gran Bretagna e Italia, al fine di impedire loro di portare al centro dell’attenzione pubblica la crisi ecologica che stiamo vivendo. Con lo scoppio della guerra russo-ucraina chiunque mostrasse una posizione più complessa della narrazione manichea voluta dal potere, veniva tacciato di filo-putinismo e di autoritarismo. Infine, con il genocidio dei palestinesi in corso a Gaza, per reprimere chi solidarizza con le vittime del sionismo, si è abbracciata l’arma dell’accusa di antisemitismo, già brandita dal governo israeliano, per giustificare qualsiasi azione di prevaricazione nei confronti degli arabi. In Germania e Gran Bretagna, le accuse di antisemitismo, confuse con manifestazioni solidali con il popolo palestinese, vengono represse con l’arresto.
C’è un fil rouge comune alle varie forme di protesta che consiste nella critica al modello dominante: il liberalismo fondato su un’idea totalitaria e aggressiva di capitalismo. Dal movimento di Occupay Wall Street a quello per una Palestina libera, passando per la questione ambientale, sotto accusa è un modello che non può fare a meno di produrre sfruttamento della grande maggioranza degli individui da parte di una ristretta élite, di riprodursi attraverso la distruzione dell’ambiente e di occupare le terre del Sud del mondo.
Potrebbe, allora, sembrare evidente che oggi non stiamo vivendo affatto un’anomalia dei regimi liberali, ma alla loro libera espressione in assenza di vincoli esterni. La bestia non è più tenuta a freno. I principi liberali, che sono strutturati attorno alla tutela fondamentale della proprietà e della ricchezza, non valgono per tutti e possono essere anche sospesi in quei casi in cui il regime traballi e dia luogo a forme autoritarie di gestione del potere. Avendo negato l’altra grande tradizione che nasce e si sviluppa nel vecchio continente, quella socialista, le masse sono facile preda di forze populiste (in senso regressivo) che comprendono come la riproposizione dei principi liberali che celebrano libertà astratte ha scarsa capacità di attrazione. Ma, in fondo, poiché la destra populista, come quella fascista della prima metà del Novecento, non mette in discussione l’istanza capitalista, anche un regime liberticida può essere funzionale alla sopravvivenza del modello. Un concetto che il liberalismo cosiddetto di sinistra fatica a comprendere. Del resto, le libertà, parafrasando una pubblicità, sono per molti, ma non per tutti.
Comments
Naturalmente l'autore non viene sfiorato dal dubbio che lo smantellamento della libertà di opinione sia iniziato colla criminalizzazione del pensiero fascista, razzista ed antiolocaustico.
Per ogni primate il manitù proprio è un'idea, quello avverso una bestialità e un'infamia da ridurre al silenzio.
Ogni volta che un regime introduce crimini d'opinione, se questi bersagliano il proprio bunga-bunga (pardon la propria ideologia), si tratta d'una vergognosa persecuzione del libero pensiero. Ma quando è l'ideologema avversario ad essere bersagliato, con uno spettacolare rivolgimento concettuale, non è più il regime ad essere repressivo, bensì... è l'ideale perseguitato a non essere un'idea bensì un crimine!!!
L'intera storia del pensiero politico è una storia di scioglilingua sufficientemente insulsi da risultare introiettabili nella complessione gregaria delle scimmie glabre.