Fai una donazione

Questo sito è autofinanziato. L'aumento dei costi ci costringe a chiedere un piccolo aiuto ai lettori. CHI NON HA O NON VUOLE USARE UNA CARTA DI CREDITO può comunque cliccare su "donate" e nella pagina successiva è presente (in alto) l'IBAN per un bonifico diretto________________________________

Amount
Print Friendly, PDF & Email

linterferenza

Crisi del dollaro: svalutazione, debito statunitense e rischi globali

di Alessandro Volpi

Il dollaro perde oltre il 10% in sei mesi. Tra debito federale, dazi di Trump e sfiducia globale, la crisi scuote la finanza mondiale.

La crisi del dollaro è molto più profonda di quanto non emerga dalla stampa e dall’informazione italiana. Nel giro di sei mesi ha perso oltre il 10% del proprio valore nei confronti delle principali valute del Pianeta. Registrando una delle cadute più rapide e dolorose dalla fine della convertibilità aurea.

È significativo notare che si tratta di un deprezzamento che è avvenuto nei confronti di quasi tutte le principali valute mondiali. E che si è verificato – dato questo estremamente rilevante – in presenza di tassi alti di interesse da parte della Fed. A cui sono, normalmente, connessi alti valori del dollaro. La crisi del dollaro è quindi, prima di tutto, una dimostrazione della sfiducia globale. Che potrebbe essere aggravata, ulteriormente, da una riduzione dei tassi di interesse e da un’ulteriore crescita del debito federale statunitense, ormai del tutto fuori controllo. Soprattutto, in queste condizioni, la Federal Reseve non può certo immaginare, come avveniva in passato, di “creare” nuovi dollari per coprire il debito.

 

Dollaro debole e grandi fondi: rendimenti erosi e fuga di capitali

Dunque, siamo di fronte a una situazione molto critica che ha conseguenze fondamentali sul capitalismo americano ormai sempre più dipendente dalla finanza. Il dollaro debole, infatti, ha eroso i rendimenti dei titoli americani. Chi avesse investito, a gennaio, 10mila dollari in azioni quotate sullo S&P ne avrebbe oggi 9670. È chiaro che una condizione siffatta allontana il risparmio dalle Borse statunitensi. E mette in forte tensione l’azione dei grandi fondi – BlackRock e Vanguard in primis – che faticano a remunerare i propri clienti se puntano su titoli in dollari.

Così un eventuale cambio rilevante di destinazione dei flussi di risparmio mondiali rispetto alle Borse statunitensi per la debolezza del dollaro potrebbe indurre gli stessi grandi fondi a trovare alternative a quelle in dollari. E, di conseguenza, però ad abbandonare anche l’acquisto massiccio di titoli del Tesoro americano, deprezzati di nuovo dal dollaro. La crisi del dollaro può quindi portare, come sta già avvenendo, a una minore disponibilità da parte degli operatori, interni e internazionali, di destinare le proprie risorse verso tutto ciò che è denominato in dollari. Con l’effetto di rendere più probabile l’esplosione della bolla speculativa finanziaria e di rendere una parte del debito statunitense non più solvibile.

 

Dazi di Trump e svalutazione del dollaro: un equilibrio fragile

Se poi le politiche daziarie di Trump non riuscissero a compensare con le entrate fiscali degli stessi dazi il minor utilizzo di dollari per effetto di una riduzione del disavanzo commerciale statunitense, le ricadute sul dollaro sarebbero ancora più pesanti. Alla luce di ciò, peraltro, pare molto difficile immaginare che la svalutazione del dollaro possa garantire una ripresa delle esportazioni americane sufficiente a migliorare le condizioni economiche del Paese, data la ormai strutturale debolezza della capacità di produzione degli Stati Uniti. Mentre, qualora i dazi portassero inflazione, la debolezza del dollaro renderebbe ancora più complessi i consumi interni.

L’impressione chiara è che il capitalismo finanziario statunitense è stato costruito su una indiscussa centralità del dollaro che oggi non esiste più. Il presidente della Federal Reserve, Jerome Powell, in occasione del suo ultimo intervento a Jackson Hole ha dato il segnale di una possibile apertura a un ribasso dei tassi a settembre, definendo l’aumento dell’inflazione legato ai dazi come temporaneo e mostrando preoccupazione per il livello dell’occupazione americana. Si tratterebbe dunque di un’inversione di rotta rispetto alla attuale politica monetaria restrittiva che accoglierebbe le pressioni sempre più dure di Trump.

 

Federal Reserve sotto pressione: tassi, inflazione e rischio sul debito statunitense

Il presidente statunitense, nel frattempo, ha chiesto le dimissioni di Lisa Cook, la prima donna afroamericana nel board della Fed, contro cui ha lanciato accuse durissime. Se si mettono insieme questi elementi il quadro è particolarmente pericoloso. In questo momento in cui il dollaro è debolissimo e i titoli del Tesoro statunitense pagano alti rendimenti, mentre l’effetto dei dazi sull’andamento dei prezzi interni degli Stati Uniti è tutt’altro che chiaro, aprire a una riduzione dei tassi della Fed vorrebbe dire mettere il dollaro nelle condizioni di essere ancora più fragile. E terremotare ulteriormente il debito federale costretto, in maniera paradossale, a pagare interessi ancora più alti per trovare compratori alla luce dell’ulteriore indebolimento del biglietto verde.

In estrema sintesi, l’abbassamento dei tassi significa una sorta di scommessa finale per Trump. Che non si può permettere ancora i tassi alti destinati a strangolare i tanti debitori USA e a raffreddare l’indispensabile corsa dei titoli, in particolare della sterminata finanza senza liquidità. Il capitalismo americano è arrivato a una condizione in cui non può reggere senza una forte iniezione di liquidità e senza un ribasso del costo del credito. O meglio, per sopravvivere avrebbe bisogno di succhiare ancora più sangue dal resto del mondo che, a parte l’Europa, non sembra più disposto a sopportare.


Fonte articolo:https://valori.it/crisi-dollaro-debito-usa/
Pin It

Add comment

Submit