
Preparazione alla guerra, formazione alla pace
di Fernanda Mazzoli
Un recente intervento del MIM (Ministero dell’Istruzione e del Merito) ha avuto il doppio merito di chiarire la funzione dei corsi di formazione a scuola e di togliere ogni residuo dubbio sul clima di mobilitazione bellicista cui dovremmo tutti adeguarci in un futuro così prossimo da essere già il nostro presente.
Il Ministero ha soppresso un corso di formazione, cui avevano aderito più di un migliaio di docenti, organizzato per il 4 novembre dal Cestes (Centro Studi Trasformazioni Economico- Sociali), annullando l’accreditamento sulla piattaforma Sofia con la motivazione che l’iniziativa ” non appare coerente con le finalità di formazione professionale del personale docente presentando contenuti e finalità estranei agli ambiti formativi riconducibili alle competenze professionali dei docenti, così come definite nel CCNL scuola e nell’Allegato 1 della Direttiva 170/2016. “1
Il ricorso al “pedagoghese”, gergo già di per sé vuoto, conferisce alla motivazione un carattere vagamente surreale e sconcerta prima ancora di indignare: non si comprende, infatti, come una iniziativa volta a sottolineare, presumibilmente rifacendosi all’articolo 11 della Costituzione, il valore della pace in un contesto internazionale contrassegnato da un crescente ricorso alle armi per risolvere situazioni conflittuali possa configurarsi come estraneo all’ambito formativo proprio della funzione docente.
La data scelta è stata vista, e probabilmente non a torto, come risposta alla Giornata dell’Unità Nazionale e delle Forze Armate, risposta del tutto legittima se libertà d’insegnamento e libertà di espressione non sono solo vuote formule. D’altronde, in sede storiografica, il dibattito sulla Grande Guerra è ancora aperto, così come non si può ignorare – e cancellare con una censura dall’alto- la storia della stessa giornata del 4 novembre, ufficialmente esaltata come giornata della vittoria italiana, ma soggetta nel corso di più di un secolo ad accese contestazioni da parte, già nel 1919, dei socialisti e poi, soprattutto negli anni ‘60 e ‘70 del Novecento, dei movimenti pacifisti. E pure questa è storia e storia nazionale, né si vede, pertanto, come un approccio anche polemico al 4 novembre possa essere letto come incongruo rispetto sia agli ambiti formativi, sia alle competenze professionali dei docenti, a meno di dare come postulato che questi esulino da una conoscenza critica della storia del nostro Paese e si identifichino invece con le indicazioni, più o meno celebrative, del Ministero.
E qui dobbiamo dargli atto di avere confermato sospetti che da tempo alimentavano una certa ostilità di chi scrive nei confronti delle miriadi di corsi di formazione che la scuola propone con cadenza giornaliera agli insegnanti. Per i non addetti ai lavori, è bene chiarire subito che, nella stragrande maggioranza dei casi, tali corsi non hanno nulla a che vedere con l’approfondimento disciplinare, visto ormai come dettaglio poco significativo, quando non fastidioso, del profilo docente, ma possono, in sintesi, essere ricondotti a due grandi filoni: da un lato l’introduzione a metodologie (svincolate- si badi- dai contenuti, ma vademecum spendibile in ogni contesto, indipendentemente dalla materia insegnata) dai nomi più disparati e quasi sempre d’impronta anglosassone e quasi sempre dai conclamati esiti fallimentari nei Paesi d’origine, di cui la digitalizzazione dell’insegnamento/ apprendimento costituisce l’inevitabile fondale, dall’altro la glorificazione delle soft skills, ovvero delle cosiddette competenze trasversali: sociali, personali, relazionali, vera fucina per plasmare personalità obbedienti.
Tali corsi, non casualmente spesso voluti e finanziati dal PNRR, e che altrettanto non casualmente i Dirigenti scolastici si ingegnano sovente a rendere obbligatori, piuttosto che rispondere a una richiesta di formazione che dovrebbe nascere innanzitutto da esigenze di tipo culturale e didattico dell’insegnante sono uno dei dispositivi strategici per acclimatare in ambito scolastico la transizione digitale decisa in ben altre sedi e per favorire la sedicente didattica delle competenze che nel suo nichilistico pragmatismo liquidatorio di tutto un patrimonio culturale sta svuotando i discenti e di conoscenze e di competenze.
La formazione, obbligo contrattuale del docente, avvertita dalla maggior parte di essi come un noioso e inutile adempimento burocratico, in realtà tanto inutile non è, perché già attraverso la selezione dei corsi accreditati sul portale Sofia e la presenza massiccia di alcune tematiche esprime un preciso orientamento pedagogico, una certa visione della scuola e dei suoi compiti, un profilo educativo d’insieme al quale si auspica conformare gli insegnanti che poi “dissemineranno “ (giuro che questo verbo risuona seriamente nei Collegi docenti in occasione della presentazione delle diverse attività) quanto hanno appreso nelle giovani menti affidate alle loro cure e chiamate a fare la loro parte nella riproduzione sociale complessiva.
Insomma, la formazione come equivalente in campo scolastico del semprevivo TINA (There Is NoAlternative) di thatcheriana memoria: il docente deve imparare che l’analisi di una poesia, l’illustrazione di un teorema, l’elaborazione di una problematica storica o filosofica attraverso una razionale argomentazione sono attività residuali, tollerate a condizione di riconoscere il loro carattere di sopravvivenze folkloriche: le coordinate della nuova scuola si inscrivono sul terreno dell’intelligenza artificiale, della cittadinanza digitale e degli obiettivi dell’agenda 2030. Coordinate che, a furia di essere proposte come ineludibili, sbocciate dall’ordine stesso delle cose e universalmente condivise finiscono per imporre una pesantissima ipoteca sullo stesso orizzonte mentale dell’insegnante cui si ricorda volontieri la propria inadeguatezza rispetto alle sfide imposte da una realtà esterna presentata, sempre, come esito non di processi storici e/o dell’intreccio perverso tra poteri economici e politici, ma come naturale filiazione del dio dell’innovazione tecnologica, rispetto al quale ateismo o agnosticismo non sono ammessi, pena l’emarginazione. Così, la formazione diventa poco a poco riconoscimento del carattere subalterno dei saperi disciplinari e stampo per la produzione in serie di docenti ammaestrati e ammaestratori.
L’iniziativa controcorrente del Cestes ha allarmato il Ministero che, non senza ragione, ha avvertito una qualche incoerenza con il quadro standardizzato dei corsi normalmente proposti. Sottoporre a critica argomentata la retorica militarista ritornata a celebrare i propri fasti, le politiche di riarmo e il massacro in Palestina implica una precisa presa di posizione, ideale e politica, che contrasta a fondo con il nuovo clima culturale che si vuole imporre in un’ Italia e in un’ Europa che l’U. E. cerca di trascinare in un conflitto suicida. Da un lato, preparazione psicologica alla guerra, dall’altro concreti interventi, sia attraverso aiuti militari all’Ucraina, sia attraverso le politiche di riarmo, nella prospettiva di un fantomatico attacco russo dal quale dovremmo difenderci.
La scuola non si arruola: recita il titolo dell’intervento censurato, ovvero la scuola rivendica la propria indisponibilità a farsi complice di questo nuovo corso e, con ciò stesso, afferma il proprio essere spazio di libertà, di parola dialogante, di discorso razionale. Un auspicio e un appello totalmente condivisibili, ma – temo, sperando di sbagliarmi – un poco utopistico.
In effetti, è da anni che la scuola, salvo minoranze etichettate come oppositive, obsolete, passatiste, importune, guastafeste e via ingiuriando, si è arruolata: nell’aziendalizzazione generale del sistema, nell’elelfantiasi burocratica, nell’alternanza scuola- lavoro ( ora si chiama Formazione Scuola Lavoro e prevede anche l’inserimento in caserme o in settori della Difesa…), nello svilimento del profilo culturale della professione docente, nell’approvazione indiscriminata di progetti proposti da decine e decine di enti e di esperti, in dosi massicce di digitale, nella retorica dell’emergenza nel periodo del Covid con la sospensione delle lezioni in presenza per mesi e mesi e, poi, con la sospensione degli insegnanti non vaccinati e la discriminazione degli studenti che avevano fatto la stessa scelta. Il segno tangibile dell’ avvenuto arruolamento è dato dalla selva di mani alzate- per stanchezza, per quieto vivere, per innato conformismo, perché tanto opporsi non serve a niente, per opportunismo, ma anche per introiezione di un modello di insegnante disponibile, responsabile, aperto e inclusivo- per approvare nei Collegi docenti ogni iniziativa promossa dai Dirigenti.
Certo, le mobilitazioni di inizio anno a favore della Palestina rappresentano un’incrinatura rispetto a un panorama desolante per piattezza e rassegnazione, ma sembrano, a mio giudizio, più legate a un fattore emotivo genericamente umanitario che a un’autentica consapevolezza del baratro verso cui vogliono trascinarci, qui e ora. Preoccupa, infatti, che all’ondata di sacrosanta indignazione per il genocidio palestinese non corrisponda un’ adeguata protesta contro la corsa al riarmo europeo, preparata dalla creazione del nemico russo pronto a divorarci e dalla propaganda guerrafondaia che tenta di ricostruire una situazione di emergenza nel quale farci ingoiare di tutto, sempre per la nostra salvezza, proprio come negli anni del Covid.
Questi limiti, a maggior ragione, impongono di continuare nella direzione dell’iniziativa del Cestes, optando, visto che il MIM difficilmente tornerà sui propri passi e che l’esito del ricorso intentato dal Centro studi è incerto, per attività di autoformazione; pazienza se non verranno considerate ore spendibili nel piano annuale di formazione: la posta in gioco è troppo alta per restare nel perimetro degli adempimenti burocratici e contrattuali.






































Add comment