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Un capitalismo con caratteristiche cinesi

di Ernesto Screpanti

stelle3.jpgRecentemente mi è capitato di leggere e ascoltare diverse favole sulla natura sociale e politica della Cina, ad esempio che si tratta di un sistema socialista. In questo articolo vorrei tentare di smontarle. Ovviamente lo farò come si può fare in un articolo di dieci pagine. Per approfondire scientificamente lo studio del sistema cinese ci sarebbe bisogno di scrivere almeno due libri, uno sugli aspetti politici e uno sugli aspetti economici. Ma credo che le cose essenziali si possano dire anche in modo semplice e sintetico.

Visto che tratterò di capitalismo, imperialismo e socialismo, devo fare una breve premessa teorica. Il capitalismo lo definisco come un sistema economico in cui il lavoro è mobilitato con il contratto di lavoro subordinato e il controllo dei mezzi di produzione è assegnato al capitale, il quale usa il lavoro salariato per estrarre plusvalore e impiega il plusvalore per valorizzare e accumulare il capitale stesso. L’imperialismo lo definisco come un sistema di potere internazionale in cui il capitale di un paese sfrutta risorse umane e naturali di un altro paese e usa il plusvalore e la ricchezza così estratti per valorizzare e accumulare il capitale su scala mondiale.

Più difficile è definire il socialismo, se non altro per la varietà di teorie cui si può attingere. Per essere più ecumenico possibile, lo definirò facendo riferimento a due posizioni molto diverse, quasi polarmente opposte. In tal modo chiunque può scegliere quella che preferisce, tra la gamma di definizioni collocabili tra i due poli, e ognuno può valutare come vuole il grado di socialismo di un sistema reale. La prima definizione la definirò “marxista”, pur sapendo che qualche marxista non la condividerà. Secondo questo punto di vista, il socialismo è un sistema in cui il reddito è distribuito in modo da dare a ognuno secondo le sue capacità, il potere economico in modo da assegnare ai produttori il controllo della produzione e il potere politico in modo da attribuire al popolo il controllo democratico dello stato. La seconda definizione la definirò “bellamista”.

È quella proposta da Edward Bellamy in Looking Backward 2000-1887. In questo romanzo utopistico viene presentato un modello di società in cui tutta l’industria è statalizzata, la “nazione” è l’unico datore di lavoro e i lavoratori sono organizzati in una struttura gerarchica denominata “esercito industriale”. Lo Stato non è un’istituzione politica vera e propria, ma una tecno-struttura che svolge la funzione di amministrazione economica e che gestisce la produzione e le risorse in modo efficiente. Non esistono partiti perché il socialismo realizzato riscuote il consenso di tutti i cittadini. Gli amministratori sono eletti non in base a ideologie, programmi e interessi, bensì in base alle capacità tecniche e alle doti morali. C’è una completa uguaglianza distributiva: tutti i cittadini ricevono lo stesso reddito. Le differenze di gravosità dei lavori sono bilanciate da differenze dell’orario di lavoro. Questo modello è piaciuto ad alcuni marxisti, immemori del fatto che secondo Marx la prima fase del comunismo, quella che Lenin denominò “socialismo”, abolisce il lavoro salariato e avvia la realizzazione del regno della libertà, e all’oscuro del fatto che Bellamy, un colonnello dell’esercito americano, aveva preso l’organizzazione delle forze armate come modello di società perfetta.

 

 

Un socialismo con caratteristiche cinesi?

Per entrare nel vivo della materia: devo constatare che sono pochi quelli che dichiarano esplicitamente di credere che in Cina c’è il socialismo. Molti di più sono quelli che, non osando dichiararlo, lo lasciano trapelare da diverse osservazioni e valutazioni apparentemente neutrali.

Alcune valutazioni colte e raffinate partono dalla constatazione che la diversità della Cina rispetto al resto del mondo è dovuta alla sua eredità confuciana, e che questa eredità favorirebbe il socialismo. Perché? Perché il confucianesimo esalta i valori collettivi e l’armonia sociale a discapito dell’individualismo. Effettivamente il confucianesimo favoriva la virtù ren, la benevolenza verso i propri simili esercitata in conformità alla collocazione degli individui nella gerarchia politica e famigliare; gerarchia che si sviluppa entro cinque rapporti fondamentali: sovrano-suddito, padre-figlio, marito-moglie, fratello maggiore-fratello minore, amico-amico. Quanto alla struttura sociale come la concepisce il confucianesimo, è basata su una scala dei gradi di perfezione umana. Gli uomini si dividono in tre gruppi: quelli perfetti, quelli superiori e quelli comuni. Così la collettività si articola in tre strati: l’imperatore con la sua corte, i nobili e la massa popolare.

Devo aggiungere altro per far capire il motivo per cui il confucianesimo fu osteggiato e represso dopo la proclamazione della Repubblica Popolare e fortemente contestato durante la rivoluzione culturale? Per i comunisti rivoluzionari cinesi il confucianesimo era una religione di stato elitaria, autoritaria e classista. Era la base religiosa del vecchio sistema imperiale, e in quanto tale era accusato di sostenere il rigido ordinamento tradizionale e una morale centrata sull’obbedienza e la deferenza all’autorità. Era visto come uno strumento ideologico usato dalle classi dominanti per giustificare la sottomissione del popolo e perpetuare i rapporti di sfruttamento.

Dunque ci deve far riflettere il fatto che dopo la morte di Mao e le riforme di Deng Xiaoping il confucianesimo è stato progressivamente riabilitato, fino a essere oggi promosso come parte essenziale dell’identità culturale cinese. Il governo attuale lo usa proprio per sostenere i valori di disciplina e armonia sociale.

Un tipo di argomentazione a favore del carattere socialista dell’economia cinese fa leva sulla distribuzione del reddito. Molti sono convinti che in Cina ci sia qualcosa che può essere definito “eguaglianza” o “equità” o “giustizia”, o almeno che di queste caratteristiche ce ne sia una dose maggiore che nei paesi capitalistici occidentali. Se come teoria della giustizia adottiamo il modello bellamista, l’equità distributiva si ottiene quando tutti i cittadini ricevono lo stesso reddito. È un caso limite che potremmo usare quale metro di misurazione, così da poter dire che la distribuzione del reddito di un paese è tanto più “socialista” quanto più si avvicina a quella del modello bellamista, quindi quanto meno disuguaglianza c’è nella distribuzione del reddito.

Nella ricerca scientifica, quando si vuole valutare il grado di equità distributiva di un paese, si fa riferimento a varie misure:

  1. la percentuale di cittadini che vivono in condizioni di povertà assoluta,
  2. la percentuale di cittadini che vivono in condizioni di povertà relativa,
  3. la disuguaglianza nella distribuzione dei redditi personali,
  4. la percentuale di reddito guadagnato dal top 10% della popolazione,
  5. la quota salari sul prodotto interno lordo.

Quanto alla povertà, è ormai diventato un luogo comune sostenere che la Cina l’ha debellata al proprio interno e che ha dato il maggior contributo alla riduzione della povertà nel mondo negli ultimi 40 anni. In effetti se guardiamo alla percentuale di poveri assoluti, secondo una certa misura di povertà usata in passato dalla Banca Mondiale (è povera una persona che vive con un reddito giornaliero non superiore a $1,90, in Parità di Potere d’Acquisto PPA 2011), la percentuale di poveri in Cina è scesa dal 66,2% del 1990 allo 0,1% del 2019, un risultato strabiliante. Senonché la soglia di povertà di $1,90 poteva andar bene nel 1990, non negli anni più recenti. Ebbene il governo cinese ha rifatto i calcoli applicando una linea di povertà di $2,30, e sulla base di questa nel marzo 2021 Xi Jinping ha potuto vantare una “vittoria totale” sulla povertà.

La Banca Mondiale ha definito differenti linee di povertà per differenti gruppi di paesi classificati secondo il livello del PIL pro-capite. E ciò ha senso. Se applicassimo una linea di $2,30 all’Italia, risulterebbe che nel nostro paese non ci sono poveri. Invece l’Istat ci dice che nel 2023 il 9,7% della popolazione (5,7 milioni di individui) viveva in condizioni di povertà assoluta. Recentemente la Cina è stata classificata nel gruppo delle economie a reddito medio-alto, gruppo al quale si applica una linea di povertà di $5,50. In base a tale soglia, nel 2021 il 17% della popolazione cinese viveva in condizioni di povertà assoluta (The Global Economy, 2021). Nel 2025 o nel peggiore dei casi nel 2026 la Cina verrà classificata tra i paesi ad alto reddito, ai quali si applica una linea di povertà di $6,85 (PPA 2017). Con questa soglia è stato stimato ancora un 17% di popolazione povera nel 2023 (World Bank, 2023). Per fare un confronto: negli USA il numero dei poveri assoluti (secondo lo US Census Bureau, che usa una linea di povertà di $35) era pari al 13,1% della popolazione nel 2018.

In un’economia capitalistica la lotta alla povertà è come un lavoro di Sisifo: si vince per mezzo dello sviluppo economico e delle politiche sociali. Senonché lo sviluppo stesso obbliga ad alzare le linee di povertà, e i poveri riemergono ogni volta.

Più valido del concetto di “povertà assoluta” è quello di “povertà relativa”, definita da una soglia di reddito pari al 50% (o 60%) del reddito mediano. In tal caso la linea di povertà si innalza automaticamente al crescere del reddito. Purtroppo non esistono accurate statistiche ufficiali per la Cina su questo parametro. Comunque uno studio scientifico serio (Zou, Cheng, Fan e Lin, 2023) ha rilevato che nel 2015 la percentuale di cittadini cinesi in condizioni di povertà relativa era pari a 32,11%. Anche qui si può fare qualche confronto. Nello stesso anno negli Stati Uniti la percentuale di poveri relativi era pari al 16,8%, in Italia al 14,4%, in Germania al 10,1% (OECD 2015).

Nel 2018 la Banca Mondiale ha elaborato una misura della Societal Poverty Line (SPL), definita così: SPL = max ($2,15, $1,15 + 0,5 × mediana nazionale dei consumi o del reddito) (in PPA 2017). Questa linea di povertà combina i concetti di povertà assoluta e relativa. Viene applicata ai paesi con reddito medio-alto e alto. Risulta che nel 2021 la percentuale di poveri era pari a: 19,1% in Cina, 19,7% in USA, 16,6% in Italia, 13,2% in Francia, 12,0% in Germania (2020) (World Bank, 2025).

Un altro concetto di equità distributiva è quello che definisce la disuguaglianza nella distribuzione statistica dei redditi personali. La misura più diffusa è l’indice Gini. È un numero che va da 0 a 1. Quando c’è perfetta eguaglianza (come sarebbe nel modello bellamista) l’indice assume un valore nullo. Quando c’è perfetta disuguaglianza (un cittadino riceve tutto il reddito, gli altri cittadini non ricevono nulla) l’indice assume valore 1.

Premettendo che questo indice è stato stimato da varie fonti con risultati un po’ dissimili, si può rilevare che:

  • L’indice Gini della Cina era piuttosto basso (0,30) nel 1980; poi ha cominciato a salire rapidamente raggiungendo un picco di 0,55 nel periodo 2002-4; successivamente si è ridotto gradualmente fino a raggiungere il valore di 0,46 negli anni 2019-20 (Xie e Zhou, 2014; Wikipedia, 2023).
  • Sulla base di dati del National Bureau of Statistics of China l’indice Gini era stato stimato a 0,49 nel 2008 (Chen, 2013; Zhao, 2013) e 0,47 nel 2019 (Lin e Brueckner, 2023).
  • Secondo altre stime, l’indice ha toccato un massino di 0,44 nel 2010, per poi scendere gradualmente fino allo 0,36 nel 2021 (Countryeconomy, 2025; World Bank, 2024).

Per fare un confronto: USA 0,48 (2021), Italia 0,32 (2021), Germania 0,32 (2022), Francia 0,29 (2021) (USCB, 2022; ISTAT, 2023; Destatis, 2023; INSEE, 2023). Può consolare il fatto che alcune misurazioni degli indici cinesi, a differenza di quelle degli altri paesi, sono effettuate su redditi prima di tasse e trasferimenti (che tuttavia in Cina incidono poco).

Per restare in tema di evoluzione della disuguaglianza distributiva, la quota del PIL cinese guadagnata dal 50% più povero della popolazione è passata dal 27% del 1978 al 15% del 2015 (a questa data il 50% più povero della popolazione percepiva il 12% del PIL negli USA e il 22% in Francia). Invece la quota di PIL guadagnata dal 10% più ricco della popolazione è passata dal 27% del 1978 al 41% del 2015 (a questa data negli USA era del 45%, in Francia del 32%). Infine la quota di ricchezza cinese appartenente al top 10% della popolazione ha raggiunto il 67% nel 2015 (negli USA era del 72% in Francia del 50%) (Piketty, Yang e Zucman, 2019).

Se usassimo come target di riferimento il modello di uguaglianza bellamista, dovremmo rilevare che oggi la Cina sarebbe ben lontana dal “socialismo”. Certo, si può dire che quello bellamista è un modello fasullo, almeno in base alla concezione di Marx, secondo cui nella prima fase del comunismo varrebbe il principio distributivo “a ciascuno secondo le sue capacità”. Questo principio implica la sopravvivenza di una certa disuguaglianza economica, ma non alta quanto in un regime capitalista. Infatti il controllo della produzione da parte dei produttori e il controllo dello stato da parte del popolo dovrebbero portare all’eliminazione di tutte le posizioni di rendita, di tutti i guadagni speculativi e di tutti i profitti capitalistici. Esiste un indicatore approssimativo di questa realtà? Certo che esiste: è la percentuale della quota salari sul reddito nazionale. La differenza di questo numero rispetto a 100 misura la quota di tutti gli altri redditi. Considerando che buona parte di questi “altri redditi” sono plusvalore, cioè profitti, interessi, rendite e guadagni di capitale, si potrebbe considerare la quota salari come una misura, se non del grado di socialismo distributivo, sicuramente del grado di sfruttamento capitalistico. Infatti la quota salari è una trasformazione lineare di quello che Marx chiamava “saggio di plusvalore” (siano: S=monte salari, P=plusvalore, Y=S+P=prodotto interno lordo, S/Y= quota salari; allora Y/S=S/S+P/S; e il saggio di plusvalore è P/S=Y/S-1). Perciò possiamo dire che l’andamento della quota salari sul reddito nazionale varia inversamente al saggio di sfruttamento del lavoro: quando la quota salari si riduce è perché sta aumentando il saggio di sfruttamento.

Per studiare l’andamento della quota salari in Cina bisogna attingere da diverse fonti poiché non esiste una serie unica completa. Chiarito ciò, ecco la serie più attendibile che sono riuscito a trovare:

Quota salari su PIL in Cina

1983 1985 1990 1995 2000 2005 2010 2015 2017 2018 2019 2020 2021 2022
56,2 56,1 53.4 51,4 47,7 41,4 45,3 47,9 48,3 48,4 47,9 47,5 47,7 47,8

Fonti: Bai e Qian, 2010; ILO, 2015; Dao, Das, Koczan e Lian, 2017; NBS, 2023a; OECD, 2024

La serie può essere suddivisa in tre periodi. Fino al 2005 c’è stata una forte diminuzione della quota salari – diminuzione che è stata causata: 1) dalle politiche di dumping sociale finalizzate all’attrazione di investimenti diretti esteri, 2) dalla compressione dei consumi operai finalizzata al mantenimento dell’alto tasso di risparmio necessario per sostenere l’accumulazione primitiva, 3) dal forte aumento dei profitti causato dall’accumulazione primitiva stessa. Dopo la grande crisi del 2007-9 c’è stato un aumento della quota salari che è stato determinato dal tentativo del governo di reagire alla crisi alimentando la domanda interna anche con i consumi operai. Dopo il 2018 c’è stata una diminuzione e una stabilizzazione. Notare comunque che il trend complessivo è decrescente.

Notare anche che la stabilizzazione finale è avvenuta attorno a un livello piuttosto basso, almeno a confronto dei principali paesi capitalistici. Secondo dati AMECO7 (2025), nel 2022 la quota salari era pari al 59,4% negli USA, 64,8% in Giappone, 62,4% nell’area euro, 58,4% in Italia, 62,7% in Germania, 68,3% in Francia.

Secondo un’altra fonte (FRED, 2021), che però è considerata poco attendibile, la quota salari cinese sarebbe più alta di circa 4-5 punti percentuali rispetto a quella mostrata nella tabella. Seguirebbe lo stesso andamento a U, con un trend comunque decrescente, e resterebbe più bassa di quelle dei principali paesi capitalistici.

Tutti gli osservatori sono concordi nello spiegare il trend decrescente della quota salari in Cina con gli aumenti della produttività e dei profitti causati da uno strepitoso sviluppo economico.

Possiamo arrivare a delle prime conclusioni. In nessun senso la distribuzione del reddito vigente in Cina è così egualitaria da poterci far dire che ha approssimato a un’equità socialista. Anzi, tutti i diversi indicatori della distribuzione ci dicono che in Cina la disuguaglianza e lo sfruttamento capitalistico sono più forti che nei principali paesi capitalistici cosiddetti “avanzati”. Non solo, ma lo sfruttamento ha esibito una tendenza ad aumentare nel corso del tempo.

C’è un altro aspetto del modello di “socialismo” bellamista che potrebbe forse illuminarci: in quel modello tutti i mezzi di produzione sono di proprietà “nazionale”. Potremmo quindi valutare il grado di socialismo di un paese reale misurando la percentuale del PIL che è prodotta da imprese pubbliche.

Secondo il governo cinese nel 2016 c’erano in Cina circa 150.000 SOE (State-Owned Enterprises), imprese statali o statalizzate (escludendo le imprese finanziarie), il 68% delle quali erano a proprietà mista (Morrison, 2018). Nel 2022 esistevano complessivamente circa 362.000 SOE (incluse le imprese finanziarie) (Shi, 2024). Secondo una stima che sembra un po’ esagerata, nel 2020 le SOE hanno prodotto il 40% del PIL cinese (Tjan, 2020). Più realistica è la cifra di 25% stimata da Leutert (2024).

Bisogna dire peraltro che il peso delle SOE è andato sistematicamente diminuendo negli ultimi decenni, proprio come nei paesi capitalistici occidentali. Si pensi che negli anni ’70 la percentuale del PIL prodotto da imprese statali in Cina si aggirava tra il 75% e 85% (Naughton, 2007; World Bank, 1985). In quel decennio le quote di PIL prodotto da imprese pubbliche o a partecipazione statale erano intorno al 25-30% in Francia, 20-25% in Italia, 15-20% in Gran Bretagna, 10-12% in Germania Ovest, 5-8% negli USA (OECD, 1976; Millward, 2005).

Sembrerebbe che i “socialisti” bellamisti possano portare a casa un buon risultato. La struttura proprietaria dell’economia cinese è più “socialista” di quelle europee, e perfino più di quella dell’Italia demo-socialista degli anni ’70! Ma si può veramente sostenere che l’impresa pubblica è socialista? Dipende, come spiegherò nella prossima sezione. Comunque nel caso della Cina direi proprio di no.

Intanto mi sia permesso di richiamare l’ultima genialata che mi è capitato di sentire: che la Cina ha un sistema economico socialista perché l’economia è sotto il controllo o l’egemonia del PCC, ovvero, parole testuali: “economia capitalista in stato socialista”. In altri termini, il fatto che l’economia è controllata da un partito che si autodefinisce comunista sarebbe una garanzia del suo carattere socialista. Come dire che nell’Italia degli anni ’60 e ’70 c’era un sistema economico cristiano-socialista perché l’economia era governata dal centro-sinistra.

Qui per “controllo” non s’intende solo “proprietà pubblica”, s’intende più in generale “controllo politico”. Ora, se si vuol dire che il governo fa politiche industriali, allora non c’è dubbio: nella Cina moderna il governo fa politiche industriali per sostenere lo sviluppo, precisamente come facevano i governi italiani prima dell’arrembaggio neoliberista. Ma che c’entrano le politiche industriali con il socialismo? Tutti i governi dei paesi capitalistici hanno fatto politiche industriali quando hanno voluto sostenere lo sviluppo. Accadde già nella Francia del Seicento sotto Colbert; il quale non solo cercava di incentivare le esportazioni con politiche di dumping, incentivi fiscali, protezione delle capacità tecniche eccetera, ma addirittura creò con le “manifatture reali” un consistente settore industriale a proprietà pubblica – tipico esempio di socialismo con caratteristiche francesi.

 

Un capitalismo misto

Credo che nessuno neghi che in Cina c’è il capitalismo. Non lo negano neanche quelli che sostengono che c’è il socialismo – potenza della logica dialettica! E qui raggiungiamo il massimo di virtuosismo. Sentite questa: in Cina c’è il capitalismo, ma è usato per aumentare il benessere sociale – una frase che troverei esilarante, se non fosse agghiacciante. È agghiacciante perché nella sua apparente semplicità enuncia due postulati che nessun socialista può accettare: 1) che il socialismo di per sé non è in grado di assicurare il benessere sociale, ma ha bisogno del capitalismo per farlo; 2) che il capitalismo è in grado di farlo.

Per capire in che modo e in che misura l’economia cinese è capitalistica vediamo innanzitutto qual è la struttura proprietaria delle sue imprese.

Come già osservato, ci sono le imprese pubbliche, le SOE “pure”, che sono di proprietà del governo centrale o locale. Poi ci sono le imprese a partecipazione statale o proprietà mista, Joint Ventures e Partenariati Pubblico-Privato; a questo gruppo appartengono molte imprese pubbliche che sono state parzialmente privatizzate e sono quotate in borsa, delle quali però lo stato conserva il controllo. Abbiamo visto sopra che nel periodo 2020-2023 l’insieme delle imprese pubbliche e a partecipazione statale copriva tra il 25% e il 40% del PIL.

Molte imprese pubbliche o a partecipazione statale sono di grandi dimensioni e molte sono multinazionali. Se guardiamo alla classifica Fortune Global 500 del 2023, che elenca le 500 più grandi imprese del mondo, ci accorgiamo che vi comparivano 135 imprese cinesi, 85 delle quali erano di proprietà statale o a partecipazione statale; secondo la SASAC (State-owned Assets Supervision and Administration Commission of the State Council) attualmente ci sono tra le 200 e le 300 SOE multinazionali. Invece le multinazionali cinesi private sono circa 1.500 secondo il rapporto UNCTAD (2023).

Inoltre ci sono le imprese collettive, aziende appartenenti a comunità locali. Una volta erano chiamate TVE (Township and Village Enterprises). Erano piccole imprese presenti soprattutto nelle comunità rurali, nell’edilizia, nella piccola industria e nei servizi. Spesso i loro dirigenti erano nominati dalle autorità amministrative locali o dai lavoratori; potrebbero essere in odore di socialismo. Tale tipo d’impresa era piuttosto diffuso negli anni ’80, quando copriva circa il 25-30% del PIL; ma dagli anni ’90 molte di queste imprese sono state privatizzate e molte sono uscite di mercato a causa della concorrenza delle imprese private. Oggi la categoria di “Township and Village Enterprises” è caduta in disuso ed è stata sostituita da quella di “Collectively-Owned Units”, che sono ciò che resta delle TVE dopo che la maggior parte di esse è stata privatizzata. Il National Bureau of Statistics of China stima che nel 2022 il contributo al PIL delle “Collectively-Owned Units” era meno dell’1% (NBS, 2023b).

C’è anche un piccolo settore cooperativo, che comprende per lo più cooperative agricole e cooperative di consumo; nel 2021 il settore cooperativo copriva circa il 6-7% del PIL. Non si hanno dati statistici ufficiali sul numero e il fatturato delle vere cooperative, le cooperative di produzione e lavoro, quelle che, avendo abolito il lavoro salariato e avendo attribuito ai produttori l’autogestione della produzione, potrebbero dare una genuina impronta socialista all’economia. Tuttavia, usando dati del National Bureau of Statistics of China, l’International Labour Organization (ILO, 2017) ha stimato che a questa data il contributo produttivo delle vere cooperative si aggirava tra l’1 e il 3% del PIL.

Tutto il resto è capitalismo privato, con proprietari cinesi e stranieri; in questo settore ci sono le multinazionali straniere, le cosiddette WFOE (Wholly Foreign-Owned Enterprises), che contribuiscono al 25-30% del valore aggiunto industriale.

I socialisti bellamisti potrebbero osservare che c’è comunque un forte settore pubblico e che ciò è segno di socialismo. Si può dire che il socialismo con caratteristiche cinesi è un socialismo almeno al 30-40? Non credo. E non c’è bisogno di scomodare i critici comunisti dell’URSS (da Amadeo Bordiga a Tony Cliff a Raya Dunayeskaya) per capire cos’è il capitalismo di stato. Basta Lenin. Il quale prima della rivoluzione aveva teorizzato il capitalismo di stato come forma di potere monopolistico dello stato borghese, dopo la rivoluzione aveva teorizzato la proprietà pubblica come una forma di capitalismo di stato, durante la NEP aveva sostenuto che il capitalismo di stato è superiore alla piccola produzione privata dispersa e può essere usato per preparare il passaggio al socialismo. L’argomento centrale è che il capitalismo di stato sarà anche proprietà pubblica, ma è pur sempre capitalismo. Si noti en passant che né Lenin né Stalin hanno mai preteso che in URSS ci fosse il socialismo. Pensavano che ci fosse un’economia in transizione verso il socialismo. Per quanto mi risulta, il primo ad affermare che in URSS c’era il socialismo realizzato, o meglio, il “socialismo sviluppato”, fu Breznev. Ironia della sorte: lo fece al XXIV Congresso del PCUS (1971), un ventennio prima del crollo, cosicché fu facile gioco per i pugilatori a pagamento di tutto il mondo dar conto di quella catastrofe come di un crollo del socialismo invece che della fine di un capitalismo di stato piuttosto inefficiente. Per tornare alla Cina, quello che si può dire è che ha un capitalismo misto, pubblico-privato, che produce circa il 94-97% del PIL.

E comunque Marx potrebbe fare una domanda molto semplice per capire se la proprietà pubblica è capitalismo o socialismo: ha abolito il lavoro salariato? Domanda che potremmo articolare nelle seguenti: La classe operaia è sfruttata? È oppressa? Ha il potere? Controlla la produzione?

La risposta a tutte queste domande è semplice: In Cina i lavoratori sono assunti dalle imprese con il contratto di lavoro subordinato, che siano imprese private o pubbliche. Le imprese fanno profitti e usano i profitti per valorizzare e accumulare il capitale. Le decisioni d’investimento, di produzione e d’organizzazione del lavoro sono prese dai consigli d’amministrazione non dai consigli di fabbrica. Tra parentesi, un’altra perla che mi è capitato di sentire è che il capitalismo in Cina si sta estinguendo perché le decisioni d’investimento ormai le prende l’intelligenza artificiale.

Come che sia, per quanto possa estinguersi il capitalismo manageriale, resta il fatto che la classe operaia è viva e vegeta, e più che mai oppressa e sfruttata. In Cina c’è un’organizzazione sindacale ufficialmente riconosciuta: la Federazione Sindacale di Tutta la Cina (All-China Federation of Trade Unions, ACFTU). È integrata nella struttura statale ed è controllata dal PCC, che la usa soprattutto per assicurare la stabilità politica e assecondare lo sviluppo economico. Per dirlo eufemisticamente: “Nello svolgere il suo duplice ruolo di difensore degli interessi dei lavoratori e dello stato l’ACFTU spesso manca dell’autonomia necessaria per opporsi alle politiche governative e alle decisioni manageriali che violano i diritti dei lavoratori” (Everycrsreport, 2006). E neanche le sue strutture di base hanno l’autonomia necessaria per organizzare scioperi e altre azioni industriali a livello locale. I lavoratori che danno vita a forme autogestite di rappresentanza e azioni industriali spontanee subiscono arresti e intimidazioni.

Durante il movimento di protesta di piazza Tian’anmen (1989), i lavoratori di Pechino organizzarono un Sindacato Autonomo, che però fu sciolto dopo la repressione del 4 giugno, mentre i suoi leader venivano condannati a lunghe pene detentive. Per aggirare la proibizione dell’attività sindacale autonoma alcuni gruppi di lavoratori si sono organizzati nella forma di ONG del lavoro (ad esempio a Shenzhen e Guangzhou). Queste organizzazioni assistevano legalmente i lavoratori che scendevano in lotta. Tra il 2015 e il 2019 il governo le ha represse arrestando alcuni loro leader.

Ciononostante, scioperi e disordini continuano, anche se sono considerati illegali. Le principali cause delle lotte di fabbrica riguardano: ritardi nei pagamenti, non pagamento degli straordinari, chiusure o trasferimenti di fabbriche, licenziamenti ingiustificati, violazioni dei diritti dei lavoratori. Molte proteste sono state causate dalle politiche di privatizzazione delle SOE e dalle conseguenti politiche aziendali di licenziamento, tagli ai salari e ai benefici sociali.

Ecco alcuni esempi delle lotte più rilevanti. Nel marzo 2002 ben 30.000 lavoratori di 20 fabbriche nel Liaoyang esibirono un’incredibile capacità di autorganizzazione nel mettere in atto proteste e manifestazioni per resistere a tagli dei salari e delle pensioni e agli arresti di militanti. Lo stesso anno 50.000 lavoratori di raffinerie petrolifere protestarono contro licenziamenti nel Daqing. Nel 2004 migliaia di lavoratori del tessile nella provincia di Shaanxi fecero uno sciopero che durò sette settimane. Sempre nel 2004 sono state registrate 863 proteste che hanno coinvolto più di 50.000 lavoratori nella provincia di Guangdong (Everycrsreport, 2006). Nel 2010 un grande sciopero spontaneo alla Honda di Foshan si concluse con la conquista di aumenti salariali.

Il primo decennio del millennio ha esibito un aumento delle dispute di lavoro a causa delle politiche di privatizzazione. Ma è stato solo l’inizio di un crescendo di lotte. I conflitti industriali sono triplicati dal 2011 al 2024. Nel 2015 ne sono stati rilevati 2.600, anche se alcune stime arrivano fino a un numero di 10.000. Nel 2023 ci sono state 1.794 azioni industriali; nel 2024 ce ne sono state 1.509 (Šebok, 2023; Chinaworker, 2024; Han e Song, 2024; Doherty, 2025). Gran parte delle informazioni sulle lotte sono state raccolte e documentate dal China Labour Bulletin (CLB, 2025), un’organizzazione non governativa fondata nel 1994 a Hong Kong per difendere i diritti dei lavoratori cinesi. Si deve tener presente che le cifre pubblicate dal CLB, da cui dipendono quelle pubblicate da diversi altri studi, sono fortemente sottostimate perché a loro volta dipendono da fonti pubbliche, le quali tendono a censurare e rimuovere rapidamente le informazioni di questo tipo.

In Cina, come abbiamo visto, la quota salari sul PIL ha esibito un trend decrescente a partire dagli anni ’80. La causa principale della tendenza risiede nel sistematico e forte aumento dei profitti e della produttività del lavoro (aumento del plusvalore relativo, direbbe Marx). I salari reali sono aumentati anch’essi sistematicamente. Cosa gli ha impedito di aumentare al punto di dare una sterzata alla tendenza alla diminuzione della quota salari? Due fatti: da una parte la difficoltà di organizzare azioni industriali incisive per contrattare collettivamente i salari; dall’altra un consistente esercito industriale di riserva.

Secondo Marx l’esistenza di un grosso esercito industriale di riserva gioca un ruolo decisivo nella regolazione dei salari e del grado di sfruttamento in un sistema capitalistico. Purtroppo in mancanza di statistiche adeguate non conosciamo l’entità dell’esercito di riserva in Cina. Possiamo usare come proxy il tasso di disoccupazione. Ma anche in questo caso le statistiche sono inadeguate. Lo sono perché in Cina viene rilevata solo la disoccupazione urbana, che peraltro non include i lavoratori immigrati dalle campagne e i lavoratori informali, i quali costituiscono una quota significativa della forza lavoro cinese. Inoltre non si hanno dati sulla disoccupazione, l’inoccupazione e la sottoccupazione nelle campagne. Ebbene il tasso di disoccupazione ufficiale era dell’1,8% nel 1985, dopo di che è andato sistematicamente crescendo fino a raggiungere il 5,3% nel febbraio 2024. Ma tutti gli osservatori sono concordi nel ritenere che il tasso ufficiale sottovaluta sistematicamente quello reale. Vari studi suggeriscono che il tasso effettivo di disoccupazione può essere tra il doppio e il triplo di quello ufficiale (Giles, Park e Zhang, 2005; Feng, Hu e Moffitt, 2015; Lam, Liu, e Schipke, 2015). Più recentemente Yao Yang, decano della National School of Development all’Università di Pechino, ha stimato un tasso di disoccupazione reale del 15% quando quello ufficiale era del 5,7% (He e Zhu, 2023).

Infine, ecco un’informazione a beneficio di coloro che credono che “in Cina si lavora di meno” perché c’è il socialismo o qualcosa del genere. Tra gennaio 2022 e luglio 2025 le ore lavorate settimanali medie per addetto sono oscillate tra un minimo di 46,2 a un massimo di 49,1 (Trading Economics, 2025a). Nello stesso periodo questa grandezza negli Stati Uniti è oscillata tra 34,1 e 34,6 (Trading Economics, 2025b). Secondo l’ufficio statistico tedesco, nel 2023 le ore settimanali lavorate in media per lavoratore erano 36,9 nell’EU, 34,4 in Germania, 37,0 in Francia, 37,3 in Italia (Destatis, 2025). Dunque i lavoratori cinesi non solo sono spremuti capitalisticamente, ma lo sono molto di più dei loro colleghi occidentali.

Per venire alla dimensione politica della condizione operaia, mi limiterò a osservare che in Cina, oltre al PCC, ci sono ben 8 “partiti democratici”, i quali “collaborano” tutti strettamente con il PCC in ossequio al principio della “cooperazione multipartitica e consultazione politica sotto la leadership del Partito Comunista Cinese”. Nell’Assemblea Nazionale del Popolo, il PCC occupa 3/4 dei seggi, ma esercita un controllo totale in quanto la Costituzione prevede un fronte unito che comprende tutti gli altri 8 “partiti democratici”.

I dirigenti cinesi sostengono che nel mondo esistono diverse forme di democrazia e che da loro ce n’è una particolare tipica della Cina. I comunisti filocinesi occidentali che apprezzano questo discorso aggiungono che in occidente non c’è una vera democrazia. Hanno perfettamente ragione, considerando che da noi ormai viviamo in un regime di “postdemocrazia” (Crouch) o “democratura” (Galeano, Matvejevic). Infatti di che parliamo quando definiamo democratico un sistema come quello inglese, per fare un esempio qualificato, in cui votano solo i cittadini moderati (nelle elezioni del 2024 l’affluenza è stata del 59,7%) e in cui un partito che riceve il consenso del 20,12% della popolazione con diritto di voto (33,7% di voti × 59,7% di affluenza) conquista una maggioranza del 63% in parlamento? Be’, se questa è una forma di democrazia allora lo è anche quella cinese.

La quale, sia nei discorsi ufficiali sia in quelli dei comunisti filocinesi occidentali, parte da una certa svalutazione della democrazia procedurale. Conta di più la democrazia sostanziale – dicono. Che consiste in cosa? Consiste nel buon governo esercitato nell’interesse del popolo. E il popolo è un’entità olistica che non ha bisogno della libertà di organizzazione per esprimere la propria volontà (“bastano i sondaggi”: sì, ho sentito pure questa). Come nel modello bellamista: che bisogno c’è di veri partiti quando tutti i cittadini sono concordi nel consenso al buon governo della nazione? Ne consegue che, siccome ciò che assicura il buon governo è l’efficienza, i politici sono selezionati non sulla base di proposte politiche, linee strategiche e ideologie alternative. Sempre secondo il modello bellamista, sono selezionati in base alle capacità tecniche e alle doti morali. Ergo: la sostanza della democrazia si manifesta nella meritocrazia. In Cina i dirigenti sono selezionati in base alla competenza. Le libere elezioni sono sostituite dagli esami, tanto che “la Cina è governata dagli ingegneri e il Partito Comunista è pieno d’ingegneri” (Douthat e Wang, 2025). Capite perché Confucio è tornato a essere centrale nella cultura che il PCC cerca di infondere nelle masse?

Marx, sia nel criticare la filosofia del diritto pubblico di Hegel sia nell’analizzare l’esperienza della Comune di Parigi, aveva elaborato il concetto di “vera democrazia” per definire un sistema politico in cui vigono il suffragio universale, il vincolo di mandato e l’eutanasia dei politici di professione, tanto per restare alla democrazia procedurale. Secondo lui, un sistema del genere permetterebbe al proletariato, maggioranza della popolazione in un paese capitalistico avanzato, di instaurare la “dittatura del proletariato”, cioè il predominio della volontà della maggioranza proletaria della popolazione, e quindi di avviare democraticamente il processo di espropriazione degli espropriatori. Certo che oggi Carletto ci pare un po’ ingenuo, ma d’altra parte ai suoi tempi non solo non c’era il suffragio universale, non c’erano neanche la radio, la televisione, il cinema e i dipartimenti di Scienze della Comunicazione.

Tuttavia il concetto di “vera democrazia” è essenziale nella definizione di socialismo. Se questo consiste nel controllo della produzione da parte dei produttori, allora la proprietà pubblica può assumere un carattere socialista solo nella misura in cui è controllata da uno stato che esprime la volontà dei produttori. Un sistema socialista dovrebbe combinare un settore economico di vere cooperative controllate direttamente dai lavoratori con uno di imprese pubbliche controllate indirettamente e democraticamente dal popolo.

In conclusione, qualsiasi parametro usiamo per valutare il sistema economico – distribuzione del reddito, distribuzione dei diritti di proprietà, distribuzione del potere – del sistema cinese si può senz’altro dire che ha caratteristiche cinesi ma non che ne ha di socialiste. E allora, se non è socialista cos’è? Be’, a questo punto mi pare chiaro: è capitalismo puro e semplice.

 

Un imperialismo con caratteristiche cinesi

Non c’è capitalismo senza imperialismo, perché la legge di Mosè e di tutti i profeti è: “accumulare accumulare!” E l’accumulazione si svolge in profondità e in estensione – estensione anche geografica, su quello che Marx chiamava “mercato mondiale”.

Ma devo subito dire che l’imperialismo con caratteristiche cinesi è veramente particolare, di un tipo che si differenzia per molti aspetti da quello “occidentale”. Tanto per cominciare, non ha assunto caratteristiche di espansione militare. La Cina ha una sola base militare all’estero, a Gibuti, e una mezza dozzina di installazioni “dual use” (commerciale-militare) in Africa e Asia. Niente, a confronto delle 750-800 basi militari americane in un’ottantina di paesi (OBRACC, 2025), delle 145 basi militari britanniche in 42 paesi (Miller, 2020), delle 21 basi militari estere della Russia (Sharkov, 2018) e delle 11 basi militari estere francesi (Wikipedia, 2025).

Ma l’aspetto per cui quello cinese si differenzia più nettamente dall’imperialismo occidentale è il suo carattere, diciamo così, munifico. La Cina sta investendo massicciamente nel Sud globale, specialmente in Africa e in America Latina, fornendo ai paesi in via di sviluppo aiuti sostanziosi al decollo industriale e ai processi di modernizzazione. Investe con prestiti del governo e delle banche e con investimenti diretti delle imprese multinazionali statali e private. E costruisce strade, ferrovie, porti, aeroporti, scuole, ospedali, dighe e intere città nuove, oltre che fabbriche. Naturalmente vi esporta anche molto, di ogni genere di beni di consumo e d’investimento, e anche di personale tecnico.

Tra il 2000 e il 2023, la Cina ha erogato prestiti a 49 paesi africani per un ammontare di 182 miliardi di dollari (Morro, Bien-Aimé e Engel, 2024; Farraj, 2024). Tra il 2005 e il 2022, la China Development Bank e la Export-Import Bank of China hanno prestato 141 miliardi di dollari a governi e imprese dell’America Latina (Witgens, 2022). Tra il 2008 e il 2021 in relazione alla Belt and Road Initiative la Cina ha prestato circa 240 miliardi di dollari a 22 paesi latino-americani e asiatici (Rajvanshi, 2023). Complessivamente tra il 2000 e il 2021 la Cina ha concesso prestiti ai paesi in via di sviluppo per un ammontare di 911 miliardi di dollari (Miriri, 2025).

I cinesi fanno pagare sui propri prestiti tassi d’interesse differenziati in funzione del rischio, con punte che arrivano all’8%, ma comunque piuttosto bassi (circa il 2% in media) (Nyabiage, 2020), certamente più bassi di quelli applicati dalle istituzioni finanziarie private occidentali (5% in media) (Toussaint, 2024).

Quanto agli investimenti diretti esteri cinesi in Africa, hanno avuto un’impennata subito dopo il Forum on China-Africa Cooperation (FOCAC) del 2006, quando la Cina s’impegnò ufficialmente a sostenere lo sviluppo economico africano. In una prima ondata gli investimenti si sono orientati verso la costruzione di infrastrutture e l’estrazione di risorse minerarie. In America Latina la prima ondata è cominciata nel 2010, quando gli investimenti sono stati orientati principalmente verso l’approvvigionamento di soia brasiliana, rame cileno, petrolio venezuelano. Una seconda ondata è iniziata nel 2016 sotto la spinta della Belt and Road Initiative. Allora i cinesi si sono interessati, tra l’altro, alla produzione di energia idroelettrica in Etiopia e di energia rinnovabile in Brasile. Successivamente c’è stato un rallentamento causato sia dalla pandemia Covid sia dal default del debito verso la Cina da parte di alcuni paesi africani e latino-americani.

Ecco un po’ di dati quantitativi. Secondo l’OECD nel periodo 2017-2022 le imprese cinesi hanno investito 74 miliardi di dollari in Africa, coprendo il 18% degli investimenti diretti esteri globali verso quel continente (ANA, 2023). Secondo il Ministero del Commercio cinese e la China-Africa Research Initiative, nel periodo 2005-2023 la Cina ha investito in Africa più di 110 miliardi di dollari. In America Latina invece negli anni 2003-2022 ha investito circa 187,5 miliardi di dollari (Chin@Strategy, 2024). Secondo la Economic Commission for Latin America and the Caribbean vi ha investito più di 200 miliardi di dollari tra il 2000 e il 2023.

Infine bisogna osservare che la Cina incoraggia i paesi del Sud globale a crescere con le esportazioni. A tal fine ha tenuto piuttosto bassi i dazi verso quei paesi e anzi recentemente si è mossa verso una politica di zero dazi – una politica che favorisce la crescita del PIL di quei paesi e quindi delle loro importazioni.

In conclusione, mi sembra credibile l’opinione di chi sostiene che questo tipo d’imperialismo è gradito ai popoli che lo accolgono. Senz’altro è più gradito di quelli americano, inglese e francese, che sono invece apprezzati dalle classi dirigenti golpiste e dalle borghesie compradore. Voglio aggiungere che personalmente tifo per la Cina (e i paesi BRICS) nell’attuale partita per il nuovo ordine mondiale, non solo perché il moderno impero celeste ha assunto caratteri munifici e non bellicisti, ma anche perché si trova sotto l’attacco dell’imperialismo americano (Screpanti, 2025).

Ci si può domandare: in che senso è imperialismo quello cinese se è così munifico? La risposta è: nel senso che resta comunque un sistema di potere internazionale in cui il capitale di un paese estrae plusvalore e ricchezza da altri paesi. La Cina lo fa verso i paesi del Sud globale in diversi modi:

  • Innanzitutto c’è il pagamento degli interessi sui prestiti; per quanto i prestiti offerti dalla Cina siano a basso costo e per quanto siano graditi ai paesi che li ricevono, resta il fatto che un costo ce l’hanno; e gli interessi sono plusvalore estratto dal lavoro dei paesi debitori e incamerato dal capitale del paese creditore.
  • In secondo luogo ci sono i profitti delle imprese multinazionali cinesi, pubbliche e private, profitti che sono prodotti dai lavoratori dei paesi in via di sviluppo e in buona parte importati dalle case madri;
  • In terzo luogo c’è uno sfruttamento da scambio ineguale; le ragioni di scambio sono sfavorevoli ai paesi del Sud globale in cui la Cina investe perché il costo del lavoro vi è più basso.
  • In quarto luogo ci sono i profitti guadagnati dalle imprese esportatrici cinesi; sono guadagnati dal capitale cinese nel suo complesso nella misura in cui la Cina gode di un sistematico surplus commerciale verso i paesi in via di sviluppo; nel 2023 il surplus commerciale verso l’Africa era pari a 282 miliardi di dollari, quello verso l’America Latina era pari a 485 miliardi di dollari.
  • In quinto luogo il capitale cinese si avvale del più basso costo del lavoro dei paesi in via di sviluppo per produrvi beni che poi riesporta ad alti profitti nei paesi più sviluppati.
  • Infine bisogna ricordare il land grabbing che la Cina pratica nei paesi del Sud globale; consiste in parte in acquisti di terre e in parte in contratti a lungo termine (25-99 anni) per concessioni agricole e joint venture con governi locali; la Cina è tra i primi 5 paesi acquirenti di terra a livello mondiale, per una superficie di circa 6-7 milioni di ettari di terre agricole acquisite o gestite in leasing da imprese o fondi cinesi (Lay et al. 2021; Nuñez Salas, 2022; Russo, 2024).

 

Conclusioni

Vorrei chiudere ricordando che il decollo industriale cinese era cominciato già negli anni ’50. Spesso si trascura il fatto che la Cina ha assistito a una “costante ed elevata crescita in tutto il periodo post-rivoluzionario” (Marchetti, 2020), non solo dopo le riforme di Deng. Il tasso di crescita medio annuo del PIL per gli anni ’50, ’60, e ’70, è stato stimato da diversi ricercatori su cifre che si collocano tra il 6% e il 10%. In particolare: il National Bureau of Statistics of China stima intorno al 6,7% il tasso di crescita negli anni 1953-1978 (Morrison, 2019). Yao (2020) lo stima al 6,14% per gli anni 1954-1977. Più ottimista Morgan Stanley (2023), che fornisce le seguenti stime: 8,9% negli anni ’50; 9,8% negli anni ’60; 9,3% negli Anni ’70.

Stando così le cose, non sembra che le riforme di Deng abbiano fatto fare alla crescita del PIL cinese quell’enorme balzo che si dice. Certamente Il tasso di crescita medio anno è stato elevatissimo nel periodo 1980-2005. Secondo il Fondo Monetario Internazionale e la Banca mondiale si è collocato tra il 9,7% e il 10,1%. Certo, elevatissimo, ma non molto più elevato di quello prevalente nei precedenti trent’anni. Perciò si può dire che in sostanza le novità apportate dalle riforme della fine degli anni ’70 si riducono a due: un lieve aumento del tasso di crescita fino alla grande crisi del 2007-9 e una drastica ristrutturazione capitalistica.

Le riforme avviate il 18 dicembre 1978 dall’“architetto generale” Deng Xiaoping – che tra l’altro promosse un sacco di ingegneri nelle sfere di comando dello stato e del partito (Douthat e Wang, 2025) – hanno forzato un processo di trasformazione che ha esibito tutte le caratteristiche di un’accumulazione primitiva. La forte guida dello stato, le politiche mercantiliste aggressive che praticavano il dumping sociale, fiscale, ambientale e normativo, la massimizzazione del tasso di risparmio, la compressione della crescita dei salari e dei consumi, la graduale privatizzazione delle imprese pubbliche, l’accelerazione delle esportazioni e delle importazioni, il forte aumento degli investimenti diretti esteri in entrata e in uscita, sono tutti fenomeni che hanno svolto funzioni decisive nel sostenere il processo di accumulazione primitiva in Cina. Nessun economista potrà mai lodare abbastanza il ruolo giocato dal PCC nel dirigere questo processo.

L’accumulazione primitiva, che era iniziata negli anni ’50, si è conclusa con la crisi del 2007-9, dopo la quale l’economia cinese è entrata in un sentiero di sviluppo più autosostenuto, più centrato sull’innovazione tecnologica autonoma, più permissivo nei confronti della crescita dei salari e dei consumi, ma anche più lento (nel periodo 2010-2025 il tasso di crescita medio annuo del PIL è stato del 6,4%).

Come che sia, è importante non dimenticare che la trasformazione e l’accumulazione capitalistiche governate dal PCC non sarebbero state possibili se non sulla base di una clamorosa vittoria dei “revisionisti” in un decisivo episodio di lotta di classe, ovvero la drammatica sconfitta della rivoluzione culturale negli anni ’70. La rivoluzione era iniziata nel 1966 e raggiunse il culmine nel periodo 1972-76, quando emerse un movimento ribelle che, in forza della parola d’ordine “critichiamo Lin Biao, critichiamo Confucio”, portò avanti una contestazione radicale contro burocrati di stato e di partito. Nel settembre 1976 morì Mao Zedong, in ottobre fu arrestata la cosiddetta la “Banda dei Quattro”, e la Rivoluzione Culturale fu sconfitta e repressa. Dopo di che, non solo il gruppo dirigente, ma tutto il movimento rivoluzionario fu criminalizzato.

Allora vabbè, si può lodare il PCC attuale; ma si deve essere consapevoli del fatto che non è proprio menzognera l’ironia di chi lo intende come Partito Confuciano Cinese o Partito Capitalista Cinese.


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