Come li freghiamo e ci riprendiamo tutto: una guida pratica
di Giuliano Marrucci
Pessimismo della ragione, ottimismo della volontà: è uno dei concetti di Gramsci più bacioperuginizzati di tutti, insieme al famoso odio per gli indifferenti e a quello per il capodanno. Non poteva essere altrimenti; la frase, infatti, in realtà è una citazione dell’intellettuale francese e Nobel per la Letteratura Romain Rolland ed effettivamente, in mano sua, era esattamente l’appello un po’ retorico e moraleggiante che sembra: cercate di analizzare razionalmente il mondo per quello che è, con tutte le sue brutture, ma non arrendetevi e continuate a praticare il bene. Ma quando Gramsci la fa sua, cambia tutto, dalla morale all’azione politica: la citazione accompagnerà tutte le fasi dell’elaborazione politica di Gramsci, dagli editoriali dell’Ordine Nuovo alle lettere ai familiari e i Quaderni scritti durante la prigionia; e, col tempo, arriverà a riassumere non solo un’intera analisi della realtà capitalistica di una profondità senza pari, ma anche un vero e proprio programma d’azione per superarla. “Pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà“ scriveva, ad esempio, Gramsci in un editoriale del 1920, “dev’essere la parola d’ordine di ogni comunista consapevole degli sforzi e dei sacrifici che sono domandati a chi volontariamente si è assunto un posto di militante nelle file della classe operaia”: ma in che senso? Per capirlo, bisogna prima focalizzare un punto fondamentale e, cioè, che dal punto di vista della biografia intellettuale, prima di ogni altra cosa Gramsci è un filosofo della crisi.
Ma cos’è la crisi per Gramsci? Di sicuro, non la crisi di un governo piuttosto che un altro, e nemmeno la conseguenza di qualche malfunzionamento più o meno grave del sistema economico; per Gramsci, crisi è fondamentalmente crisi di legittimità delle classi dirigenti e, cioè, quando il popolo non esprime più nessuna fiducia in chi sarebbe chiamato a governarlo e si crea una frattura insanabile tra lo Stato e la società civile. Vi ricorda niente? E non è ancora finita: indovinate un po’ per Gramsci qual è il sintomo per eccellenza di una crisi? Quando si verifica un distacco insanabile tra i partiti politici tradizionali e le classi sociali di riferimento (e anche questa mi sa che l’abbiamo già risentita). Attenzione, però, perché quando Gramsci parla di partiti non intende soltanto le organizzazioni politiche che si presentano alle elezioni, ma, in senso molto più ampio, anche i sindacati, gli organi di stampa, gli apparati dello Stato: quando c’è una crisi, riflette Gramsci, tutti questi organi perdono la capacità di veicolare le istanze che nascono dal basso all’interno del recinto dell’ordine costituito, che era esattamente quello che stava avvenendo davanti ai suoi occhi – come oggi sta avvenendo davanti ai nostri. Nel caso di Gramsci, a perdere legittimità di fronte alla società civile era il vecchio Stato liberale elitario emerso dal Risorgimento, che veniva travolto dalla Grande Guerra, prima, e poi da un inarrestabile processo di polarizzazione politica della società: da un lato la politicizzazione delle classi subalterne attraverso l’esplosione dei partiti di massa – da quello socialista a quello popolare – e, dall’altro, la radicalizzazione in senso reazionario della piccola borghesia.
Nel nostro caso, a soffrire un’apparentemente inarrestabile crisi di legittimità è l’ordine neoliberale che si è affermato, a partire dalla fine degli anni ‘70, sulle ceneri della democrazia moderna di massa, una crisi che è diventata plateale con l’esplosione della grande crisi finanziaria del 2008 e con la palese incapacità, negli anni successivi, di rimuovere le cause che l’avevano scatenata. Il segno più evidente di questa crisi sta nella disaffezione delle classi popolari per i processi elettorali, con la politica ridotta a un susseguirsi di uomini della provvidenza che durano quanto un gatto in tangenziale, prima di inanellare una sequela di inevitabili figure di merda una dietro l’altra e finire nel dimenticatoio, da Monti a Renzi, da Draghi a Macron; ma anche il crollo verticale delle vendite dei giornali mainstream fa parte dello stesso processo, e anche l’emergere delle teorie antiscientifiche più strampalate. Nel bene e nel male, il punto è che nessuno crede più alla verità ufficiale dello Stato neoliberale, dei suoi partiti e dei suoi organi di propaganda: la proverbiale grande confusione sotto al cielo che per Mao, come anche per Lenin, significava che la situazione è eccellente.
Per Gramsci, un po’ meno: nonostante il tentativo patetico di appropriazione culturale da parte dei liberaloidi e della propaganda anticomunista, Gramsci è rimasto per tutta la vita un leninista fatto e finito e il più acuto e brillante interprete del pensiero di Lenin e dello spirito della rivoluzione bolscevica; come Lenin, schifava ogni forma di determinismo e in nessun modo si è mai abbandonato alla falsa speranza che il capitalismo non potesse che generare una crisi che, a sua volta, sarebbe poi necessariamente sfociata nell’instaurazione di un sistema più giusto. Eppure, una differenza tra i due c’è, eccome: per Lenin, infatti, se e quando dovesse arrivare, la grande crisi di legittimità dell’ordine costituito sarà sempre e comunque rivoluzionaria; per Gramsci, quasi mai. D’altronde, a passare gli ultimi giorni della tua vita da presidente del Paese dei Soviet piuttosto che in carcere, evidentemente, un pochino la prospettiva la cambia; secondo Gramsci, la crisi non è il bengodi del vero rivoluzionario di professione, ma la via crucis, e il Pessimismo della ragione di cui parla sta fondamentalmente qui: la convinzione che le possibilità che la crisi si risolva a favore delle classi popolari sono scarse.
Il motivo è semplice, e gli si era manifestato platealmente davanti agli occhi con l’ascesa della dittatura fascista; e, cioè, che di fronte alla crisi le classi dirigenti hanno la scusa perfetta per dare fondo a tutto il potere repressivo, propagandistico e anche corruttivo dello Stato, senza fronzoli e senza dover chiedere scusa a nessuno. Se, invece che di convincere, si tratta molto più grossolanamente di comandare, le classi dominanti partono avvantaggiate: sia perché sono state educate a esercitare il comando, sia perché hanno tutti gli strumenti per esercitarlo; e, di fronte alla crisi, nessuna remora nel farlo nel modo più feroce e impietoso possibile immaginabile. Che è esattamente quello a cui, da 15 anni a questa parte, gradualmente stiamo assistendo anche noi nel giardino ordinato dell’Occidente collettivo; un ricorso massiccio e sistematico a tutto l’armamentario del dominio, con esiti che sono sotto gli occhi di tutti: una concentrazione senza precedenti di ricchezza e potere nelle mani di pochissimi, l’annichilimento di ogni forma di opposizione sociale e politica, l’ipertrofia di un apparato repressivo che invade ogni campo della società e, infine, il prevalere di una logica di guerra che permea ogni cosa e legittima tutto. E quindi? Chiudiamo baracca e cerchiamo un porto franco dove stare al sicuro dalle conseguenze della grande crisi? Beh, auguri! Ma mi sa che di porti franchi non ce ne sono abbastanza per tutti…
La risposta di Gramsci è un’altra e, ovviamente, è collettiva; l’ottimismo della volontà, che non è un dovere morale: è una strategia politica, perché la volontà, prima di tutto, è azione. Un’opposizione costante al dominio del potere costituito da parte delle classi popolari, a partire dalla difesa dei loro interessi materiali immediati; un’azione che, mentre viene esercitata quotidianamente, genera continuamente le istituzioni del cambiamento sociale – e cioè tutte quelle strutture intermedie, dai partiti ai sindacati, dalle associazioni agli organi di controinformazione, che rappresentano gli embrioni del nuovo ordine che verrà – senza rispondere a programmi predefiniti, ma, appunto, nell’esercizio quotidiano della difesa degli interessi e dell’opposizione al dominio. Ovviamente, non è assolutamente detto che l’azione dia i risultati sperati e, anzi, l’apparente apatia politica delle classi popolari potrebbe far pensare che le classi dominanti non abbiano mai dormito sonni più tranquilli; eppure, la storia insegna che l’apatia che le classi dominanti riescono a imporre ai subalterni in una determinata fase, non è mai per sempre, e a una fase di apatia segue sempre un’altra fase di politicizzazione. E quando, a un certo punto, l’ondata di politicizzazione ritorna, difficilmente si lascia imbrigliare all’interno degli schieramenti creati a tavolino dalle classi dominanti per far finta di dividersi tra loro e per permettere a Mentana e alla sua corte di boomer invecchiati male di fare audience con le maratone; molto più probabile che, al contrario, si crei un vero e proprio muro contro muro tra chi è organico al sistema politico-economico, militare e mediatico, asserragliato nel suo fortino, e tutto quello che ne è rimasto fuori.
Ed è proprio tutto quello che rimane fuori, che è la maggioranza, che va organizzato: per farlo, bisogna emanciparsi da alcuni dei cliché che hanno caratterizzato l’opposizione all’ordine costituito negli ultimi decenni e che, saggiamente, agli occhi del popolo, più che il riscatto simboleggiano la sfiga. Prima di tutto: meno fatti, e più promesse. Che siamo più o meno fottuti, le classi popolari lo sanno benissimo: non importa ricordarglielo a ogni piè sospinto; quello che manca, e che le forze della destra egemone sanno fare, è la forza di offrire un’alternativa di sistema, un avvenire diverso. Ma, soprattutto, basta con questa puttanata della responsabilità, un vero e proprio cancro che ha debilitato tutta la sinistra occidentale e, in particolare, quella italiana, che ha ancora sul groppone il peso della stagione del compromesso storico: essere responsabili nell’ambito di un sistema che ormai è allo scatafascio, si traduce immediatamente con l’essere corresponsabili di chi sta attuando la grande rapina. Niccolò Machiavelli, ottoliner della primissima ora, diceva che quando arriva la “ruina” – e cioè, appunto, la Grande Crisi – il Principe deve essere “reo”, fuori legge: non nel senso che ruba e ammazza, ma nel senso che deve agire al di fuori delle regole del vecchio ordine che ha prodotto la crisi per gettare le basi dell’ordine nuovo.
È il compito più difficile, ma, allo stesso tempo, più necessario: pessimismo della ragione e ottimismo della volontà che noi abbiamo deciso di esercitare prima di tutto puntando tutto sulla costruzione di una specifica istituzione del cambiamento: un vero e proprio media che dia voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: metti mi piace a questo video, condividilo, ma, soprattutto, aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.







































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