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In morte di Paolo Virno

di Ennio Abate

Apprendo la notizia della morte di Paolo Virno. Ricordo che lo ascoltai una prima volta – ma non ricordo la data – a Cologno Monzese per una conferenza, quando la Biblioteca Civica era diretta sapientemente da Luca Ferrieri. Ricordo pure le sue battaglie con Franco Fortini ai tempi in cui facevano insieme ”La talpa”, inserto del “manifesto” e poi alla Casa della cultura di Milano su ”Sentimenti dell’aldiqua. Opportunismo, paura, cinismo nell’età del disincanto” (Theoria, 1990), un libro-manifesto delle generazioni, che Fortini chiamava dei “Fratelli amorevoli”, in fondo già adattatesi al clima a-comunista o inconsapevolmente anticomunista e Virno, invece, considerava in dinamiche e comunque positive metamorfosi.

Non ho avuto rapporti diretti con lui, ma la lettura dei suoi interventi e soprattutto del suo “Grammatica della moltitudine” (2002) influenzò la riflessione che in quegli anni – districandomi tra varie influenze (Franco Fortini, Giampiero Neri, Giancarlo Majorino) – andavo facendo per mettere a fuoco il fenomeno che chiamai/chiamammo della “nebulosa poetante” e poi “moltitudine poetante” e poi dei “moltinpoesia”. (Fu, grazie al sostegno di Giancarlo Majorino, che fondai e coordinai presso la Palazzina Liberty di Milano dal 2006 al 2012 il “Laboratorio Moltinpoesia”).
Voglio, perciò, ricordare e omaggiare l’intelligenza filosofica e politica di Paolo Virno con questi due brani, che testimoniano la mia attenzione verso il suo pensiero: – uno stralcio da un mio saggio uscito su il n. 1 de “Il Monte Analogo”, di cui fui per breve tempo direttore; – un appunto del mio diario.

 

1. da  Moltitudine e poesia, marzo 2003, in “Il Monte analogo” n. 1

Una prospettiva moltitudinaria, liberandosi dagli schemi del pensiero elitario (liberale, razzista, classista o sessista), valorizza le singolarità e non irrigidisce le differenze. Essa non abbandona l’ipotesi di una possibile unità delle differenze e l’ipotesi di una base comune, pur nelle differenze, delle singolarità. Punta cioè alla fecondità degli scambi, delle contaminazioni, delle dialettiche (non più a senso unico, come quelle progressiste o pedagogiche, che spesso sono partite dall’alto di una Tradizione per depositarsi nel basso della quotidianità, verniciandone la miseria senza rivitalizzarla). Moltitudine non è caos selvaggio, ma scorrevolezza della comunicazione fra la molteplicità vivente. Elitarismo non è ordine tranquillizzante, ma eliminazione dell’altro da sé e ingessamento di una identità in apparenza splendida ma rigida. In poesia, allora, fra riuscito e non riuscito, fra livelli qualitativamente alti, medi, bassi, una prospettiva moltitudinaria coglie continui rimandi da sviluppare, non da isolare ancor più staccando di netto l’eccellente dal mediocre.

Bisognerà delineare poi una grammatica della moltitudine poetante sulla falsariga di quella accennata da Paolo Virno per le forme di vita contemporanee 1. Essa avrà anche le sue gerarchie, le sue forme, le sue coniugazioni, ma l’ordine del discorso dovrà essere quello della moltitudine, non quello dei pochi; e quindi “eccellenza” e “mediocrità” avranno un altro senso: includente e non escludente. Sarà la grammatica di un linguaggio comune (nel senso migliore, e cioè liberante, non nel senso più ovvio di semplificato e inerte, come quello che oggi il sistema informatico-massmediale già offre). E dovrà essere approntata con urgenza e relativizzando la storia della nostra letteratura nazionale per porci di fronte ai processi della nuova mondializzazione in corso e in particolare di fronte alle sue figure più drammatiche: quelle dei migranti.

Essi vivono materialmente una condizione di estraneità che culturalmente tocca oggi ai molti, compresi i poeti e gli scriventi, che non possono più sentirsi “a casa propria” nella lingua nazionale, pur indispensabile finora. L’incontro con loro e con i mondi che essi portano sulla loro pelle, nei corpi e nella loro memoria potrà avvenire se sapremo tradurci reciprocamente in una nuova lingua che porti impressi in sé i caratteri del comune e della moltitudine: quelli ch


e i poeti dovrebbero cercare, quelli di cui i migranti per necessità già si servono.2

2. Da Diario (5 settembre 2002)

Giancarlo [Majorino] ha riletto il mio Moltitudine e poesia e lo trova interessante e originale. Mi fa alcuni appunti e poi avviamo un discorso su Negri, Virno, Derive e approdi. Virno non lo conosceva. Ha sentito parlare di Impero di Negri, ma non l’ha letto. Insiste sull’esigenza dello spostamento e ritiene che anche Negri sia all’interno di quel “discorso di sinistra”, incapace di fare i conti con la grande cultura borghese. Gli dico che l’area operaista mi pare quella che è più sfuggita allo stereotipo che egli teme. Mi colpisce comunque la sua attenzione a quel che dico (che mancò invece ai tempi di Manocomete). Scrivendo il poema [Viaggio alla presenza del tempo] ha dovuto rientrare in quest’area di problemi. Gli do «Samizdat Colognom 4». Gli dico che do molta importanza alla mia scelta di tenere un diario e al legame scrittura/vissuto. Su quest’attenzione – (gli ricordo anche il lavoro di raccolta di storie di vita di Saverio Tutino e il precedente di Danilo Montaldi) – concordiamo. Mi parla di questo cugino, grosso manager in pensione, che lui ogni tanto frequenta (si veste “da borghese” e va a giocare a bridge) e che sta incitando affinché scriva la sua vita (un «raddoppio di vita»). Concordiamo di sentirci per i seminari su moltitudine e poesia.

[Lampi di impressioni durante la visita: la sua stanza in ombra, la luce che filtra fra le fessure della tapparella, il volto di Giancarlo colpito a chiazze dalla luce.| anche Fachinelli stava prendendo una “cotta” per Negri, tanto è il fascino della sua personalità | il tavolo completamente ricoperto da pile di libri, fascicoli, raccoglitori di carte | il quaderno (amaranto) in cui ha registrato tutte le sue pubblicazioni e dal quale ricostruisce la data (1979) di un convegno «Versi e grida» a Milano, a cui aveva partecipato entusiasta anche Fortini ].


Note
1 Cfr. Virno, Grammatica della moltitudine, DeriveApprodi, Roma 2002.
2 «…non perché sappiano di biologia o di matematica superiore, ma perché fanno ricorso alle più essenziali categorie dell’intelletto astratto per parare i colpi del caso, per ripararsi dalla contingenza e dall’imprevisto» (Virno, Grammatica della moltitudine, pag. 29). Virno parla anche di «connessione tra vita metropolitana e infanzia» per l’elemento di ripetizione che le caratterizza (pag. 30); e riconosce sulla scorta di Benjamin che «la moltitudine odierna ha qualcosa di infantile: ma questo qualcosa è quanto mai serio» (pag. 31).
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