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Sostanza di cose sperate

di Giuliano Santoro

Paolo Virno, scomparso a 73 anni, ha saputo pensare il comunismo rileggendo la composizione di classe e le lotte con gli strumenti della filosofia, della linguistica e dell'antropologia

«Una cosa è far finta di aver letto Schumpeter o Keynes e una cosa è far finta di aver letto il ‘Libretto’ di Mao» così, con la consueta divertita ironia, che nascondeva con fare dinoccolato e sorrisi velati da malinconia, Paolo Virno raccontava la postura teorica-politica di Potere operaio, gruppo al quale aderì da adolescente nel 1969. Lo diceva per esprimere ciò che ne aveva tratto: la larghezza degli orizzonti culturali, la necessità di misurarsi coi giganti, anche lontani o nemici, per andare alla radice delle contraddizioni.

Con le certezze che ci consegna il senno del poi, possiamo dire che quella vastità di riferimenti è stata anche la condizione del durare a lungo. In fondo, una delle caratteristiche di Virno e di molti dei suoi compagni e compagne è stata quella di aver mantenuto questa ottica rivoluzionaria senza rigidità, di non aver chiuso la porta ai mutamenti costanti del capitalismo e di averli guardati negli occhi per coglierne le contraddizioni e le opportunità liberatorie. Senza perdere radicalità ma senza abbandonarsi a rimpianti.

La posta in gioco è alta. Il filo conduttore del pensiero politico di Virno si ritrova nell’idea che la rivoluzione che provò a fare, quella che con citazione dantesca agli inquisitori del 7 aprile che lo interrogavano nei processi con imbarazzata riverenza intellettuale spiegò come «sostanza di cose sperate», era inedita perché non era soltanto lotta contro la povertà. Non c’era, affermava, alcun divario da colmare e nemmeno un singolo paese da liberare: lo scontro era direttamente contro il rapporto di produzione capitalistico. Ciò che andava superato era il concetto stesso di lavoro salariato. E la lotta, anche nelle forme più radicali, non doveva servire a colpire al cuore il potere ma a proteggere la diserzione collettiva dallo sfruttamento, come la retroguardia di Aronne copriva le spalle agli ebrei durante l’esodo biblico.

Alla fine degli anni Ottanta, con la fine dell’incubo giudiziario (si fece anni di carcere ma uscì assolto con formula piena) e la ripresa del lavoro di ricerca teorico e politico che era proseguito in carcere, Virno partecipò alle esperienze delle riviste Futuro Anteriore e Luogo Comune. «Non v’è tradizione cui far ricorso preventivamente – sembrava ammonire Virno parlando a eventuali reduci o ai nostalgici – Occorre piuttosto costruirne una: essa ci sta dinanzi come un compito, non alle spalle come un’eredità. Ma la tradizione da inventare non può che essere una proiezione all’indietro di questo presente, delle speranze e dei desideri che lo lacerano. Il ’68 ci aspetta al termine di un lungo periplo: al momento, che resti pure emblema indecifrato, geroglifico, mitologia». Questi scritti muovevano dall’assunto che la controrivoluzione di quel decennio, e oseremmo dire anche quella di questi tempi, non significava una restaurazione dell’ancien régime. Scriveva nel suo contributo a L’orda d’oro, il testo curato da Nanni Balestrini e Primo Moroni che riaprì, tutta protesa in avanti, la discussione sugli anni Settanta del Novecento: «La ‘controrivoluzione’ è, letteralmente, una rivoluzione al contrario. Vale a dire: è un’innovazione impetuosa dei modi di produrre, delle forme di vita, delle relazioni sociali che però rassoda e rilancia il comando capitalistico. La ‘controrivoluzione’, proprio come il suo opposto simmetrico, non lascia niente di immutato. Determina uno stato di eccezione in cui sembra accelerarsi la scansione degli eventi. Costruisce attivamente un suo peculiare ‘ordine nuovo’. Forgia mentalità, attitudini culturali, gusti, usi e costumi, insomma un inedito common sense. Va alla radice delle cose, e lavora con metodo. Ma c’è di più: la ‘controrivoluzione’ si basa dei medesimi presupposti e delle medesime tendenze (economiche, sociali e culturali) su cui potrebbe innestarsi la ‘rivoluzione’, occupa e colonizza il territorio dell’avversario, dà altre risposte alle stesse domande».

Tracce del suo lavoro certosino, alla ricerca delle caratteristiche antropologiche di questa occupazione del territorio rivoluzionario a opera della controrivoluzione sono contenute negli articoli che scrisse per il manifesto alla fine degli anni Ottanta, dove lavorò alla redazione culturale prima di dedicarsi alla carriera universitaria e che di recente sono stati raccolti in un’antologia. Così, Virno scrive un pezzo di culto sulla sparizione dai bar dei flipper a opera dei primi videogiochi, come segnale della fine del fordismo e del rapporto uomo-macchina che rappresentava. Si narra che fu il suo compito per diventare giornalista professionista, e che sbalordì la commissione d’esame. Oppure si concede quale digressione di autobiografia malcelata quando racconta la forma di vita del pokerista, gioco in cui il «lampo di genio» si verifica solo all’interno dell’assoluto grigiore della routine. Come accade nella società del libero mercato.

Su Luogo comune nel 1993 escono le sue Tesi sul nuovo fascismo europeo con le quali si leggono le nuove forme reazionarie in relazione alla mutata composizione di classe del postfordismo. «Il fascismo di fine secolo dà un’espressione diretta alla ‘cooperazione eccedente’ – si legge nella quinta tesi – Ma è un’espressione gerarchica, razzista, dispotica. Della socializzazione extralavorativa fa un ambito sregolato e ferino, predisposto all’esercizio del dominio personale; vi insedia i miti dell’autodeterminazione etnica, della radice ritrovata, del ‘suolo e sangue’ da supermarket; ripristina tra le sue pieghe vincoli familisti, di setta o di clan, destinati a conseguire quel disciplinamento dei corpi cui più non provvede il rapporto di lavoro. Il fascismo di fine secolo è una forma di colonizzazione barbarica della cooperazione sociale extralavorativa. E la parodia granguignolesca di una politica finalmente non statale».

Queste parole contengono in filigrana i motivi del suo dissidio teorico con Toni Negri, assieme al quale aveva portato al centro del dibattito mondiale la categoria spinoziana e anti-hobbesiana di moltitudine, in virtù della quale immaginavano una specie di ucronia nella storia del pensiero politico (cosa sarebbe successo se al posto del popolo fin dalle teorie del Seicento, si fosse affermata la moltitudine?). Raccontiamolo con le parole semplici ma concrete dei militanti che avevano assistito a quello scontro avvenuto nel corso di un seminario romano: per Negri la moltitudine in quanto informata dalla cooperazione sociale era necessariamente liberatoria, buona e costituente. Virno si interrogava sui lati oscuri del soggetto: «Le condizioni bio-linguistiche del ‘male’ sono le stesse condizioni bio-linguistiche che innervano la ‘virtù’». Fino a teorizzare la necessità di un katechon, la «forza che trattiene» e che dilata sempre più il tempo dell’apocalisse di cui parlava Carl Schmitt citando Paolo di Tarso nella Seconda lettera ai Tessalonicesi. Per Virno tale forza non era la sovranità, doveva essere un’istituzione «non statuale». L’esempio supremo di questa dimensione è dato dal linguaggio, che per definizione si sviluppa sempre in uno spazio di relazione, si colloca tra gli individui. Il pensiero di Virno non nega la dimensione individuale. Opera un rovesciamento rispetto alle categorie dominanti, però: sostiene che l’individuo è l’esito degli spazi collettivi, non il contrario: il rapporto tra l’azione virtuosa, tipicamente individuale, e quella rivoluzionaria (per forza di cose collettiva) gli serve a ridefinire alcuni concetti chiave del nuovo millennio in Virtuosismo e rivoluzione.

Questo sincretismo tra teoria politica, filosofia e linguistica, emerge anche dal testo che più rappresenta il suo tentativo di delineare un (probabilmente rabbrividirebbe se sentisse questa definizione) manifesto politico. In Grammatica della moltitudine fin dal titolo si lasciano interagire queste sfere, quella della ricerca del soggetto politico e quella della produzione collettiva di regole, forme di vita, istituzioni del comune. Senza alcuna concessione al postmoderno, che soprattutto in Italia si era accompagnato alla controrivoluzione di cui parlavamo prima. «Per non intonare canzoncine stonate di stampo postmoderno (‘il molteplice è il bene, l’unità la sciagura da cui guardarsi’), occorre riconoscere che la moltitudine non si contrappone all’Uno, ma lo ridetermina – chiariva – Anche i molti abbisognano di una forma di unità, di un Uno: ma, ecco il punto, questa unità non è più lo Stato, bensì il linguaggio, l’intelletto, le comuni facoltà del genere umano».

«È concepibile una istituzione politica, nell’accezione più rigorosa di questo aggettivo, che mutui la propria forma e il proprio funzionamento dalla lingua? – si chiede Virno – […] Che l’autogoverno della moltitudine possa conformarsi direttamente alla linguisticità dell’uomo, alla perturbante ambivalenza che la segna, bene, questo dovrebbe restare quanto meno un problema aperto».

Al tempo della conoscenza sociale messa direttamente al lavoro, dovremmo imparare dai motti di spirito, dalle improvvise irruzioni linguistiche che pur avendo assorbito le regole e le abitudini se ne discostano improvvisamente, perché in quei momenti che viviamo e produciamo tutti i giorni che si crea l’impensato e si dischiudono possibilità. Un po’ come accade al guizzo improvviso del pokerista al tavolo verde.


*Giuliano Santoro, giornalista, lavora al manifesto. È autore, tra le altre cose, di Un Grillo qualunque e Cervelli Sconnessi (Castelvecchi, 2012 e 2014) e Al palo della morte (Alegre Quinto Tipo, 2015).
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