Jason Moore oltre la giustizia climatica. Contro il discorso catastrofista dell’ambientalismo borghese
di Antiper
Commento alla lettura del brano Oltre la giustizia climatica (titolo originale: Beyond Climate Justice, in Ekaterina Degot e David Riff (a cura di), The Way Out of…, Hatie Cantz Verlag, Berlino, 2022, pp. 105-130) in Jason W. Moore, Oltre la giustizia climatica. Verso un’ecologia della rivoluzione
Il libro [1] di Jason W. Moore raccoglie una serie di testi (alcuni dei quali inediti) dedicati al rapporto tra lotta “ambientalista” e lotta “politica”. Uno di questi testi – Oltre la giustizia climatica – dà anche il titolo al libro e sviluppa una dura critica nei confronti dell’ambientalismo americano per come si è sviluppato dalla fine degli anni ‘60 fino ad arrivare a quello che Moore chiama Antropocene popolare, caratterizzato da un approccio depoliticizzato e interclassista verso i problemi ecologici.
Moore inizia la propria riflessione con una critica nei confronti di certe dichiarazioni catastrofiste di Roger Hallam, fondatore dell’organizzazione ambientalista internazionale Extinction Rebellion
“Sto parlando del massacro, della morte e della fame di 6 miliardi di persone in questo secolo” [2]
Moore mostra come tale approccio non sia per nulla nuovo e sia stato utilizzato consapevolmente, sin dalla fine degli anni ‘60, per produrre un discorso politico di non contrapposizione nei confronti del sistema e di spostamento dell’attenzione dei giovani dal terreno delle lotte sociali e politiche, a cominciare dalla lotta contro la guerra in Vietnam (che in quella fase era un terreno di vasta mobilitazione e un punto politico di coagulo), per orientarli verso un certo tipo di denuncia ambientalista, non solo non anti-sistemica, ma addirittura per molti versi collaborativa con l’establishment politico.
Nel 1967 Martin Luther King tiene un discorso intitolato “oltre il Vietnam” nel quale propone la “teoria dei tre mali” e spiega come le questioni dello sfruttamento, del razzismo e della guerra non siano scollegate, ma siano piuttosto tre diversi aspetti di uno stesso meccanismo.
Martin Luther King ha ragione: l’imperialismo americano ha bisogno della guerra per imporre la propria supremazia a livello internazionale e ha bisogno del razzismo per tenere soggiogato il proletariato nero e costringerlo ad accettare condizioni di inferiorità materiale e culturale; e ovviamente ha bisogno dello sfruttamento dei lavoratori perché è proprio sulla base di questo sfruttamento che funziona l’accumulazione di capitale.
Se la teoria di M.L. King è giusta allora se ne dovrebbe dedurre la necessità di un’alleanza tra lavoratori sfruttati, minoranze discriminate e movimenti contro la guerra imperialista; e magari aggiungere anche, sulla scorta del discorso sulla “triplice oppressione” [3] (classe, razza, genere), la lotta contro l’oppressione di genere (purché caratterizzata in senso antirazzista e anticapitalista).
Ma il movimento ambientalista, invece di promuovere l’unità di classe contro il capitale, propone l’unità interclassista con il capitale; Moore fa l’esempio dei coniugi Ehrlich e del loro monito a proposito della presunta “bomba demografica” [4] che evoca un terrificante scenario in cui masse di esseri umani impazziti si contendono selvaggiamente risorse ormai completamente insufficienti
“Centinaia di milioni di persone moriranno di fame [nel corso del prossimo decennio]”
Si tratta dello stesso dispositivo retorico-catastrofistico che verrà usato qualche anno dopo contro il rischio nucleare e che viene usato oggi nei confronti del discorso-Antropocene: siamo tutti chiamati a fare la nostra parte oppure presto saremo tutti vittime.
Quello della bomba demografica è peraltro un tema ricorrente anche nella cultura di massa; si pensi, solo per restare agli ultimi anni, al romanzo di Dan Brown, Inferno, in cui la convinzione dell’imminente macello derivante dalla “bomba” induce il demo-terrorista neo-malthusiano a cercare di estinguere metà del genere umano; oppure si pensi ad una tra le migliori serie TV cult inglesi – Utopia – e al suo rifacimento americano targato Amazon Prime, concentrate sul tema della “bomba” da disinnescare attraverso un super complotto di altissimo livello finalizzato alla sterilizzazione di massa.
Il catastrofismo a base demografica si basa da sempre su quello che possiamo definire il “pessimismo malthusiano”. La teoria demografica di Malthus suggerisce infatti l’esistenza di una contraddizione tra il ritmo di sviluppo delle risorse (che viene pensato come aritmetico) e il ritmo di sviluppo della popolazione (che viene pensato come geometrico); se questa assunzione fosse corretta allora la popolazione crescerebbe più velocemente delle risorse necessarie a sostenerla e questo non potrebbe che condurre a un punto di crisi. Per evitare questo scenario Malthus non esitava a suggerire misure estreme di contenimento dei tassi di riproduzione delle fasce sociali più povere della popolazione (che disponendo di minori risorse erano più facilmente condotte al punto di crisi).
L’esperienza storica ha mostrato che le cose non sono andate come Malthus aveva preconizzato perché il mondo è stato capace di sviluppare le forze produttive sociali in modo tale da fronteggiare il pur enorme aumento demografico del ‘900. Non solo: gli stati sono stati in grado di sviluppare più o meno spontaneamente politiche efficaci di contenimento demografico.
La rivista scientifica The Lancet [5] ha pubblicato recentemente una ricerca in cui si mostra che una riduzione del tasso di crescita demografica è in atto già dalla metà del ‘900 e che negli ultimi anni è iniziata addirittura una riduzione vera e propria della popolazione. Non c’è dunque alcuna ineluttabilità della catastrofe. Non siamo, come dice Dan Brown in Inferno, “un minuto a mezzanotte”, un minuto prima della fine dell’umanità.
L’aumento della produttività nel settore primario – ovvero nel settore della produzione di merci destinate alla riproduzione fisica, come i prodotti agricoli e alimentari – è stato enorme. Di questo aumento della produttività (che si è realizzato anche e soprattutto grazie a tecniche molto discutibili) non hanno beneficiato grandi aree del mondo? È vero, ma questo non è avvenuto per un’intrinseca carenza di produttività, bensì a causa di un processo di estrazione ed espropriazione della ricchezza realizzato dalla borghesia imperialista del Nord Globale grazie alla collaborazione delle borghesie compradore del Sud Globale, il che ha generato quel “sottosviluppo” del Sud che è stata la condizione per lo “sviluppo” del “Nord”.
Il problema non risiede nel generico aumento della popolazione, ma negli effetti dell’espropriazione capitalistica della ricchezza che dall’aumento non controllato della popolazione rischiano di venire tragicamente amplificati in certe aree del mondo. Sollevare il problema della “bomba demografica” senza sollevare quello della “bomba capitalistica” significa cercare di riversare su tutti responsabilità che sono invece estremamente specifiche. Si tenta, in sostanza, di declinare in senso “universalistico” [6] il tema-problema “popolazione” esattamente come si tenta di fare con il tema-problema dell’impatto antropico sull’ambiente, richiamato dal popolare termine di Antropocene.
Jason Moore sostiene opportunamente che a questo concetto bisognerebbe sostituire quello di capitalocene per mettere in evidenza come la responsabilità delle trasformazioni ambientali negative non ricada sull’uomo in astratto e tanto meno sull’uomo comune, ma soprattutto sul modo di produzione capitalistico la cui nascita viene retrodatata da Moore almeno al XIV secolo, in linea con l’analisi di Marx (sebbene altri studiosi, come Fernand Braudel, la collochino nel XVI secolo).
La retorica catastrofistica – sia essa declinata come bomba demografica, sia essa declinata come Antropocene, crisi climatica… – dice questo: lasciate perdere i salari, i diritti, le guerre, lo sfruttamento, le discriminazioni… Ormai c’è un solo problema, il problema della sopravvivenza stessa della vita sulla Terra e tutti siamo chiamati ad affrontarlo, l’africano che muore di fame e la star di Hollywood Leonardo di Caprio, il precario che scrive milioni di righe di codice al giorno e i padroni del web.
I poveri cristi che Extinction Rebellion manda a bloccare le strade – e che vengono spesso così duramente maltrattati da automobilisti inferociti – giustificano sé stessi proprio in questo modo: restano due anni, resta un anno, “siamo un minuto a mezzanotte” e poi non ci sarà più niente da fare, sarà l’Apocalisse, la fame per 6 miliardi di persone. Di fronte a tutto questo non c’è tempo per nessuna costruzione del consenso. Bisogna agire e agire subito.
La critica più significativa che Moore rivolge all’ambientalismo borghese e interclassista è quella di aver indebolito le lotte antimperialiste e i movimenti anti-sistemici emersi con forza durante la guerra del Vietnam.
Spostando l’attenzione verso retoriche del tipo “siamo tutti sulla stessa barca” e “il nemico siamo noi”, l’ambientalismo mainstream ha concorso a de-politicizzare la questione ambientale, riconciliando con il sistema persino i settori più critici [7].
“L’Antropocene ci dice che i nostri consumi sono il problema, quando in realtà più del 70% della popolazione mondiale vive con meno di 10 dollari al giorno. Partendo da questa considerazione, possiamo vedere che non siamo tutti a bordo della stessa navicella, con lo stesso ruolo e le stesse responsabilità, ma siamo piuttosto a bordo di una nave degli schiavi, dove pochi decidono e stanno al sicuro in cabina, mentre tutti gli altri remano fino allo sfinimento e rischiano ogni giorno di morire in questo viaggio a cui sono stati costretti a partecipare” [8]
L’approccio interclassista dell’ecologismo di regime nasce con eventi come la Giornata della Terra del 1970 ed ha favorito l’affermarsi di presunte soluzioni a carattere tecnologico e manageriale (“green engineering”, “management verde”) [9] che non solo non mettono in discussione il modello capitalistico, ma anzi cercano di creare nuove opportunità di profitto – come nel caso della cosiddetta “transizione ecologica” o in quello della promozione dell’auto elettrica presentata come soluzione ambientale, ma in realtà pensata come terreno favorevole allo sviluppo di un nuovo ciclo di accumulazione.
Opportunamente, Moore stigmatizza il fatto che il “complesso eco-industriale” (composto da governi, think tank, università e istituzioni “filantropiche”) venga chiamato a partecipare al presunto “salvataggio del pianeta” senza che venga mai messo in discussione il modo di produzione e di consumo dominante che della devastazione ambientale è, in realtà, il principale responsabile.