La crisi nel cuore dell’impero. Da New York a noi
di Francesco Piccioni
Prese le misure agli svarioni della “sinistra”, vediamo un attimo cosa sta succedendo tra gli opinionisti mainstream alle prese con New York che sarebbe caduta in mano al “socialismo islamico”. O come altro volete chiamare il “fenomeno Mamdani”…
Semplice: è il panico totale.
Qui in genere si va – specularmente alle paturnie sinistresi – dalla demonizzazione pura e semplice (i suprematisti reazionari) fino al sorrisetto di sufficienza liberale di chi spera che poi, alla prova del “governo”, gli altissimi ideali saranno ricondotti al tran tran appena rivestito di novità. E fin qui restiamo ancora a un livello superficiale, incapace di guardare al di là del naso…
Ma non appena si va a spulciare tra chi, se non altro, prova a misurare il significato di una rottura per ora più nelle parole che nella realtà, l’orizzonte del futuro sfuma ormai nel plumbeo.
Per quello che chiamiamo abitualmente “establishment” – il complesso della “classe dirigente” che persegue il mantenimento di un certo ordine costruito a difesa dei propri interessi, senza troppe differenze tra imprenditori, politici, tecnici, giornalisti, ecc – quel che sta avvenendo negli Stati Uniti ha tutte le sembianze del disastro annunciato.
Stavano ancora cercando di prendere confidenza con il trumpismo e le sue mattane, quand’ecco sorgere – dalle viscere stesse della società più sagomata sugli archetipi del capitalismo anglosassone – una richiesta di “socialismo” che sembrava sepolta dalla Storia e relegata ormai a qualche paese del terzo mondo, pronunciata quasi come un’eresia indicibile – qui nell’Occidente – persino nei piccoli circoli semi-carbonari.
“La vittoria di Zohran Mamdani a New York mette il punto non interrogativo ma esclamativo sulla fine della cosiddetta epoca del neoliberalismo, quella iniziata a fine Anni Ottanta del Novecento e caratterizzata dalla limitazione dell’interventismo dello Stato nell’economia, dalla centralità delle imprese, dalla globalizzazione e dall’uscita dalla povertà di centinaia di milioni di persone, soprattutto in Asia. È lo specchio della vittoria di Donald Trump alle presidenziali di un anno fa”.
Somiglia a una sentenza emessa da un foglio “antagonista”, e invece appare sul Corriere. E’ falsaria fin nel midollo, naturalmente (l’”uscita dalla povertà di centinaia di milioni di persone in Asia” è da attribuire in parte assolutamente maggioritaria alla capacità cinese di pianificare e controllare gli “spiriti animali” delle imprese), ma coglie la dimensione della “rottura” che si sta verificando sul piano politico, culturale, lessicale, di immaginario e di senso.
Non per una presunta “eccessiva radicalità” del programma che ha conquistato la Grande Mela, ma per le ragioni che l’hanno fatto vincere. Solo un cieco volontario, infatti, può continuare a scambiare causa ed effetto. Ovvero la base sociale che pretende soluzioni “di sistema” al proprio malessere (povertà, caro-case, inflazione, disoccupazione, ecc) con la rappresentanza politica momentaneamente trovata.
In linguaggio antico: gli interessi di classe, prima e oltre il candidato preferito, il sommovimento sociale prima e oltre i personaggi che per ora lo cavalcano. In definitiva: è quel blocco sociale che ha “sollevato” Mamdani, non un singolo che ha “scoperto” i potenziali elettori.
Il neoliberismo “democratico/conservatore” muore e, come altre volte, riapre il campo alla radicalizzazione del conflitto tra capitale e lavoro, tra rendite finanziarie e impoverimento dei più, tra speculazione senza limiti ed esigenze incomprimibili. Tra guerra e pace, tra barbarie e socialismo.
Che i nomi al momento in prima fila siano quelli di Trump e Mamdani è secondario; cambieranno magari tra qualche mese. Quel che conta è che il revanscismo suprematista “bianco” e addirittura l’attrazione multietnica per il socialismo tornino a essere – non solo ad apparire – due soluzioni quasi egualmente credibili per la crisi dell’imperialismo statunitense. Per quello che domina un po’ più del solo mondo occidentale…
Il “centrismo” tanto caro all’establishment – quello che assicurava ai vertici del capitale il controllo della situazione con il consenso silenzioso delle classi popolari – diventa fisicamente impossibile, anche se ha ancora un grosso peso (la conclusione di una fase storica non avviene con un click…). Il futuro sarà rappresentato da due alternative contrapposte, sia pur dentro lo scenario di un “sistema” che complessivamente farà di tutto per non cambiare ed essere travolto.
E’ certamente vero che l’establishment conta sulle difficoltà che il “programma minimo keynesiano” del neo sindaco di New York incontrerà fin dal primo giorno. Le resistenze dell’amministrazione, la relativa scarsità delle risorse fiscali aggiuntive rintracciabili (ma non proprio inconsistenti), gli ostacoli finanziari che porrà lo stesso Trump, la possibile fuga dei residenti multimiliardari e quindi del loro “contributo fiscale”, ecc.
Ma proprio questo – più che le intenzioni soggettive della squadra zhoraniana – può diventare il vettore che spinge un passo più in là le “pretese” della base sociale. Se il “riformismo moderato” non funziona – finché il sommovimento è in fase espansiva – si vanno a cercare soluzioni che mettono più chiaramente in discussione la “struttura sistemica”.
E’ una possibilità, non una certezza, Richiede partecipazione di massa e disponibilità al conflitto, non affidamento passivo alle scelte tattiche di un “capo”. Conflitto reale, non profezie da anacoreti.
E’ quando il collare blindato della “normalità” si rompe che molte cose prima impensabili diventano realistiche. Do you remember “Siamo realisti, chiediamo l’impossibile“?
Chi avrebbe mai detto che il “socialismo” sarebbe diventato di nuovo nominabile grazie a New York, nel cuore dell’impero? Chi avrebbe scommesso che dal 22 settembre milioni di persone sarebbero scese in piazza in tutta Italia? Sono due punti di partenza simili, non due “assetti consolidati”. E il punto di partenza, per entrambi, insiste sulla fine del “modello neoliberista” dominante dalla caduta del “muro di Berlino”…
Lo capisce addirittura un opinionista mainstream: “se lo respingono gli Stati Uniti, che di questo modello sono stati i propulsori, si può affermare che Mamdani e Trump certificano la conclusione della fase storica iniziata con Ronald Reagan e Margaret Thatcher.” “Certificano”, non “provocano”…
Chi affronta le onde della fine di un’epoca ripetendo a macchinetta “non c’è nulla di nuovo” in realtà sta recitando una giaculatoria che vorrebbe essere tranquillizzante, soprattutto per se stesso.
Anche l’opinionista mainstream prova a rassicurare (se stesso e i lettori del Corriere): il capitalismo “non ha leggi rigide, il che gli dà una grande capacità di evolvere sulla base della realtà storica e sociale. Anche questa volta non crollerà per un sindaco socialista a Manhattan ma si reinventerà in una forma nuova”.
Sorvoliamo sulla sgrammaticatura grave (le “leggi del capitale”, per quanto ignorate dagli economisti liberali, sono rigidamente ripetitive; “elastiche” sono invece le formule del possibile regime politico, nel ventaglio tra il fascismo e la socialdemocrazia), e restiamo alla sostanza della riflessione.
“Sia Mamdani e i suoi seguaci sia Trump e il movimento Maga si muovono in direzione di uno statalismo crescente, di un vecchio dirigismo: il sindaco con le sue proposte «socialiste», il presidente con la sua invadenza nell’economia e nei rapporti con le grandi imprese. Il primo con un’idea di intervento pubblico estremo, il secondo con una politica allo stesso tempo interventista e nazionalista.
Il rischio, in realtà visibile da tempo, è che il risultato sia la spinta verso un capitalismo sempre più simile a quello cinese, nel quale prevalgono l’indirizzo statale nella società e nell’economia, il controllo della libera iniziativa all’interno e il mercantilismo unilaterale nel commercio internazionale”.
Eccolo lì il “rischio vero” insito nella fine del neoliberismo: l’imporsi di interessi sociali complessi che richiedono l’esistenza di uno Stato in grado di progettare il futuro per conto della maggioranza della società. Ossia di avere in testa un’idea di futuro che possa diventare “interesse generale”. Una visione del mondo, diciamo…
E’ apparentemente paradossale che Trump possa apparire, a questi liberal-liberisti in punto di morte, come un “campione dell’interventismo statale in economia”. Tutto quel che sta facendo dal 20 gennaio 2025 in poi va in direzione diametralmente opposta: lo smantellamento delle istituzioni statali per ridurre l’apparato amministrativo a puro esecutore dei comandi che provengono dalla Casa Bianca (l’orgia di “ordini esecutivi” che bypassano il Congresso, la magistratura, i “contrappesi” di potere, ecc).
Lo Stato di Trump è uno strumento per facilitare il business di un gruppo ristretto di imprese multinazionali (dalla finanza all’edilizia, dal petrolifero agli armamenti), sulla testa e contro le classi sociali “inferiori”, arrivando a ridurre intenzionalmente l’apporto dell’immigrazione (in un paese dove tutti sono immigrati!) in modo da obbligare la popolazione “autoctona” a ritornare alle mansioni “brute” che con l’acculturazione aveva progressivamente abbandonato.
Il suo “interventismo statale” – sopratutto nei confronti del resto del mondo – è cancellazione delle “regole” formalmente uguali per tutti del capitalismo scritto nei libri; è l’uso discrezionale di un potere militaresco (anche quando usa i dazi) per imporre interessi specifici, neppure più di tutta la classe “borghese imprenditoriale”. In una battuta: “il comitato degli affari propri” al posto del “comitato d’affari della borghesia”.
In questa trasformazione, per i poveri liberal-liberisti non c’è più uno spazio di riproduzione. Nel “socialismo” – persino nella sua aurorale forma “mamdaniana” – neanche. Perché, una volta rotto il funzionamento automatico del vecchio “sistema”, quello non si aggiusta più e bisogna darsi da fare per cambiare tutto.
Nella Storia non si torna mai indietro davvero, nonostante le somiglianze tra periodi possano essere tante da far immaginare “corsi e ricorsi”. Si apre un periodo di scontro aperto – di interessi, ideali, classi. Che brucia ogni possibile nostalgia e chi ne è prigioniero.
Giustamente l’opinionista mainstream conclude: “In questi anni, molti sono stati critici del neoliberalismo: quello che si prospetta è la sua negazione. Potrebbe essere poco piacevole.”
Nessun radicale cambiamento storico è del resto mai stato “un pranzo di gala”… Non si tratta di fare profezie sugli esiti, ma di attivarsi per determinare la svolta storica indispensabile. Il “socialismo” torna a essere credibile perché stiamo precipitando nella barbarie (Gaza docet).







































Add comment