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comuneinfo

Verso l’israelizzazione dell’occidente?

di Francesco Fantuzzi

In questi due terribili anni, soprattutto negli ultimi mesi, si è letto in più occasioni l’accorato slogan “Noi siamo la Palestina” e non vi è alcun dubbio che, seppur tardiva e in alcuni casi soprattutto finalizzata a recare nocumento all’improponibile e complice governo Meloni, la mobilitazione di centinaia di migliaia, se non milioni, di persone e della Flotilla contro il genocidio in atto a Gaza abbia rappresentato un sussulto di dignità di una coscienza civile in gran parte anestetizzata da anni di neoliberismo, emergenza, incipiente cinismo e isolamento sociale, partendo proprio da quei giovani che si vogliono disinteressati a ciò che accade e al proprio futuro. Tuttavia è sempre più legittimo e doveroso domandarsi, come ha fatto meritoriamente l’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole di Torino se in realtà l’Occidente, i cui contorni paiono sempre più aderire al perimetro della NATO, non proceda al contrario verso una progressiva e inesorabile israelizzazione, intesa come recepimento di un modello politico, militare, culturale, digitale, etnico, ideologico, che riplasma la postdemocrazia definita da Colin Crouch in uno scenario bellico e tecnologico perpetuo. Un emblematico dual use.

La grande Israele potremmo dunque, in un futuro tutt’altro che remoto, essere noi occidentali, senza esserne consci e magari biasimandola pure a parole. Il modello israeliano è, per vari aspetti, un concentrato non solo territoriale delle questioni di cui si è discettato in questi ultimi sei anni, impregnati di un costante e opprimente clima emergenziale. Esattamente il clima che Israele vive dalla sua fondazione.

Almeno quattro sono i possibili elementi da cui l’Occidente pare trarre ispirazione, nella disperata difesa della sua stessa sopravvivenza, essendo ormai sempre più in conclamata crisi la sua egemonia.

Il primo: lo stato di emergenza. L’emergenza nello stato di Israele è ormai una consolidata arma politica che giunge addirittura ad riadattare il concetto stesso dello stato a un modello etnico e identitario, ad alimentare un costante clima di paura e di guerra permanente multilaterale in tutto il Medio oriente, nonché una cultura suprematista ma al contempo vittimistica, alla costante caccia di nemici esterni ma anche domestici. Il nemico diviene così la chiave ermeneutica di un eterno presente che combatte affiancato dalla legittimazione e dalla spada del Dio degli eserciti veterotestamentario. Un’emergenza che piega il concetto stesso di confine, mobile se riguarda le possibili espansioni territoriali a suon di terribile violenza delle armi e dei droni, blindato e invalicabile se rivolto agli stati circostanti, ai palestinesi e alle minoranze.

Il secondo: l’oplita postcontemporaneo, ovvero il riservista. In uno stato in emergenza e guerra permanente il cittadino modello è il soldato, obbediente e sempre pronto a rispondere alla chiamata per la difesa dei confini. In Israele, il diritto di cittadinanza e il pieno riconoscimento sociale è riservato soltanto agli ebrei, sancito non a caso dal diritto/dovere di prestare quel servizio militare da cui gli arabi israeliani sono esentati. Un’Atene del terzo millennio, anche in questo caso benedetta dall’idea inscalfibile di un modello politico avanzato ed esemplare. Non casualmente, le metafore della guerra, del soldato obbediente e del disertore erano la base della retorica dell’obbedienza durante le restrizioni pandemiche.

Il terzo: la sorveglianza come prassi. Le modalità di gestione del potere israeliano, in particolare il massiccio e invasivo utilizzo della tecnologia in materia di sorveglianza e controllo, non soltanto dei malcapitati e vessati palestinesi, stanno ormai divenendo un esempio “virtuoso” per le altre democrazie occidentali, in qualità di fornitore delle medesime, come il caso italiano testimonia tristemente, ma anche di guida alla creazione di un modello statuale e del rapporto con chi ne fa parte improntato a un controllo sociale incondizionato, come in una monarchia cibernetica. Un sovrano assoluto, un moderno Leviatano (di cui mi sono occupato nei miei due precedenti saggi) che assume dunque vieppiù importanza nella logica di garantire la sicurezza a una popolazione impaurita, assicurandosi il pieno controllo della medesima e indebolendone i legami sociali, ma cementando un consenso identitario. Un potere oppressivo ma paternalistico e coagulante, una saldatura funzionale tra politica e organi di polizia, esercito (l’ormai famigerata sigla IDF) e servizi segreti, non a caso tra i più efficienti al mondo.

Il quarto: l’appartenenza come requisito. L’essere parte dell’etnia “eletta” rappresenta, da decenni, l’unica soggettività di rilievo sul piano politico e determina i rapporti di forza e le libertà di cui godere all’interno dello stato nazionale etnico. Uno scenario di apartheid che il sociologo Baruch Kimmerling definiva israeliness, a cavallo tra religione, tradizione, razzismo e pieno recepimento dell’ideologia neoliberista.

Come non scorgere in tutto ciò il fecondo terreno per la creazione, anche nelle nostre città e nei nostri immaginari, di zone rosse, di check point presidiati dall’esercito e di aree riservate ai diversi, ai migranti, agli emarginati, a chi non ce la fa? Città blindate dove ci si muove agevolmente solo si indossa la divisa del cittadino soldato, il solo pass universalmente riconoscibile.

Una hybris che motiva anche il costante sostegno in Israele alla politica neocolonialista che, fin dai tempi del sionismo, si differenzia soltanto apparentemente dalle logiche coloniali del passato, che non avevano l’obiettivo dell’insediamento ma tutto il resto, dalla violenza al furto della terra e allo sfruttamento delle risorse.

Israelizzazione come stile e metodo di governo che, in nome della sicurezza e della difesa da un nemico permanente, comprime le libertà fondamentali, rende i diritti concessioni, sgretola il patto sociale tra cittadini e uno stato che sceglie di difenderne alcuni e perseguirne altri. Ma l’israelizzazione diviene anche, al contempo, disgregatore sociale e collante identitario in una società che ormai fa dei privilegi, della polarizzazione e della costante divisione la propria cifra culturale. Un eclatante esempio della colonizzazione in chiave israelizzata dell’occidente è stato, durante il covid, uno strumento digitale finalizzato a trasformare i diritti universali in valutazioni comportamentali e a creare discriminazioni e appartenenze sotto forma di premialità e punizioni: il green pass. Il green pass come il prototipo di una patente del cittadino modello fondato sul rispetto non dei diritti fondamentali, ma dei precetti selettivi e premianti, in caso di accoglienza, di un sistema neoautoritario e disciplinante. Una stelletta da esporre sulla propria divisa, per non abbandonare la metafora bellica; una sintesi del prisma che concentra, ospita e rielabora i quattro punti presentati. Guarda caso, Israele è stato durante la pandemia un laboratorio esperienziale anche più efficace di quello italiano, grazie alle tecnologie di cui dispone. La perfetta e drammatica conclusione di sei anni di emergenza permanente la cui sperimentazione è avvenuta non solo nello stivale, ma anche “dal fiume al mare” e che rischia di diffondersi come un virus assai arduo da debellare.

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Comments

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marcorso
Monday, 03 November 2025 07:00
«Quando i nazisti presero i comunisti,/ io non dissi nulla/ perché non ero comunista./ Quando rinchiusero i socialdemocratici/ io non dissi nulla/ perché non ero socialdemocratico./ Quando presero i sindacalisti,/ io non dissi nulla/ perché non ero sindacalista./ Poi presero gli ebrei,/ e io non dissi nulla/ perché non ero ebreo./ Poi vennero a prendere me./ E non era rimasto più nessuno che potesse dire qualcosa»
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